A cinquant’anni dalla morte ricordiamo Aldo Capitini

Fonte: Mao Valpiana | 30 marzo 2018

Cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, il leader socialista Pietro Nenni annotava nel suo diario: “E’ morto il prof. Aldo Capitini. Era un’eccezionale figura di studioso. (…)C’è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e di nuovo nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello.”

Infatti, se oggi la nonviolenza ha piena cittadinanza politica in Italia, lo dobbiamo principalmente ad Aldo Capitini (1899-1968), filosofo e fondatore del Movimento Nonviolento.

Già negli anni trenta Aldo Capitini scopre la dimensione politica di Gandhi e intravvede nella non-collaborazione la forza capace di sconfiggere l’oppressione del regime fascista e la via della resistenza nonviolenta all’ormai vicino secondo conflitto mondiale.

Capitini studia il pensiero e l’azione del Mahatma (nonmenzogna, noncollaborazione, nonviolenza) e introduce nel dibattito etico-politico il discorso sui mezzi e fini, concentrandosi soprattutto sul “metodo” per portare avanti la lotta: “fra mezzi e fini vi è la stessa relazione che esiste fra seme e albero(…)

Tra il 1931 ed il 1943 diventa quindi un punto di riferimento importante per molti giovani. Imposta un’opera religiosa nel significato proprio della parola, cioè nel senso che in tempi di grande disorientamento egli seppe collegare e unire persone, giovani, intellettuali, operai, gente del popolo, dando loro una speranza. Rovesciando l’antico detto latino “si vis pacem, para bellum” Capitini imposta il suo lavoro culturale sull’ipotesi “se vuoi la pace, prepara la pace”.

Nel 1932 avviene la seconda rottura, quella anche formale con il regime. Allora era il segretario della Scuola Normale di Pisa. Rifiuta la tessera del Partito Nazionale Fascista, necessaria per mantenere il posto di lavoro. Capitini fa la sua seconda obiezione di coscienza, dice No al fascismo, si pone in antitesi e rimane isolato sul piano politico. (…)

Elenca così i suoi rifiuti (ancor oggi attualissimi), i suoi 12 No:

  1. al nazionalismo;
  2. all’imperialismo;
  3. al centralismo assolutistico e burocratico;
  4. al totalitarismo;
  5. al prepotere poliziesco;
  6. all’esaltazione della violenza;
  7. al finto rivoluzionarismo attivista;
  8. all’alleanza con il conservatorismo della chiesa;
  9. al corporativismo;
  10. al rilievo forzato e malsano di un solo tipo di cultura e di educazione;
  11. all’ostentazione delle poche cose fatte, dilapilando immensi capitali, invece di affrontare il rinnovamento del Mezzogiorno;
  12. all’onnipotenza di un uomo, di cui era facile vedere quotidianameute la grossolanità, la mutevolezza, l’egotismo, l’iniziativa brigantesca, la leggerezza nell’affrontare cose serie, gli errori e la irragionevolezza impersuadibile, mentre ero convinto che il governo di un paese deve il piú possibile lasciare operare le altre forze e trarne consigli e collaborazione, ed essere anonimo, grigio anche, perché lo splendore stia nei valori puri della libertà, della giustizia, dell’onestà, della produzione culturale e religiosa, non nelle persone, che in uniforme o no, nel governo o a capo dello Stato, sono semplicemente al servizio di quei valori.

La non-collaborazione con i mali del fascismo si doveva quindi trasformare in programma costruttivo e in un cambiamento (politico e intimo) che doveva avvenire subito, senza rinvio a tempi migliori. (…)