Non sono state tante le vite nelle quali poter specchiare almeno una parte della nostra esistenza, per trovare forza, ragione e connessione. E che da sole valgono, per le loro specificità, un’intera storia collettiva. Nella fattispecie, quella fondativa dei primi dieci anni del gruppo del Manifesto. Con tutte le sue novità e potenzialità, con tutte le sue imprese, scon­fitte e drammatiche divisioni.

Ma soprattutto con tante esistenze appassionate di donne e uomini che tenta­vano di costruire in Italia dentro un grande movimento di massa – dal ’68-’69 agli anni Settanta, quelli del Pci del compromesso storico, dei metalmeccanici alla fine organizzati unitariamente nella Flm che vedevamo come il Fronte di libera­zione dei metalmeccanici, delle stragi fasciste e di Stato, dell’avvento del brigatismo rosso — un orizzonte rivoluzionario nuovo di fronte alle sconfitte della sinistra riformista. Una di queste esistenze è quella di Gianni… di Gianni Usai.

Che in questi giorni propone in un piccolo grande libro, una sua lunga memoria biografica, Operaio in mare aperto. Conversazioni su lotta, uguaglianza, libertà (edizioni Gruppo Abele, ), raccolta e curata in forma d’intervista da Loris Campetti. Ma questa non vuole essere tanto una recensione, quanto una storia. Quella di un lungo e trava­gliato apprendistato alla vita e alla politica non professionale, alla lotta per l’eguaglianza e la libertà quella che tutti noi vivevamo in quegli anni, così radicale e profonda da illuminare anche le attuali voragini di buio.

È la sto­ria di un ragazzino sardo, da poco tirato fuori da una bacinella di sanguinaccio, con le trame del banditismo che lambiscono l’album di famiglia e le parole del padre minatore, discriminato perché comunista e iscritto alla Cgil, che finisce da emigrato con tutta la famiglia nella grande città-fabbrica di Torino dell’inizio anni Sessanta. E che subisce, ma anche reagisce, alla sua trasformazione in lavoratore subalterno quando ha ancora sedici anni e l’adolescenza è tutt’altro che finita.

Da «Napule» a «giusteur»

Così gli precipita addosso la grande voragine di ferraglie e ordini, di sistemi produttivi e macchine, di tempi e abiti lavoro, di vociare nei reparti che è e sarà ancora per molto tempo, ma non per sempre, il megastabilimento Fiat di Mira­fiori. Una città nella città, un sistema di vita dentro l’Italia che controlla e seleziona le per­sone a seconda del credo politico, che dà mutua Fiat, sindacato Fiat, pensione, Fiat, colonie Fiat in cambio di fedeltà e subalternità al padre padrone.

Gianni tori­nese, soprannominato Napule, dai primi lavori nelle piccole officine, le boite, legherà diciassette anni di vita alla grande Fabbrica italiana automobili Torino, per for­tuna non alle catene di montaggio ma nei reparti delle Meccaniche. Dove, nella sua postazione, usa e fabbrica addirittura, lime, chiavi di ogni tipo, a stella, a brugola, fisse, da modi­ficare ogni volta per l’uso su mandrini, alberi e cuscinetti. Un aggiustatore, un opeaio di fino, il giusteur sarà il suo soprannome che gli rimarrà per sempre.

La prima iscrizione, quasi segreta, alla Fiom che restava debole ma sostenuta con ostinazione e disci­plina nei reparti con­fino dove erano stati rele­gati i gruppi sindacalizzati e comu­nisti della prima scon­fitta ad opera di Val­letta; i primi scioperi, le prime cariche della Celere con­tro i picchetti. Fino all’Autunno caldo che rompe dentro la Fiat le gabbie che divide­vano gli operai, e che, raccon­tano Gianni e Loris Campetti che negli stessi anni comincia il suo apprendi­stato di corrispondente da Torino per il manifesto, «fa crollare il muro impenetrabile alzato per impedire il solo contatto, l’incontro tra storie e culture diverse».

La stagione dei consigli

Avveniva grazie a immensi cortei interni dove una fiumana di esseri umani rivendicava, in un teatro a viva voce e creativamente la proprio nuova dignità. Un movimento reale che cam­biava natura anche alla rappresentanza sindacale. Per trattare la condizione ope­raia nascevano i delegati di gruppo omogeneo e i consigli dei delegati. Erano arrivati i gruppi della sini­stra estraparlamentare nel frattempo e anche il manifesto. Che esisteva come rivista e gruppo politico editoriale dal giugno del 1969 — in questi giorni sono sono 45 anni esatti — ma che Gianni Usai, ricorda di avere incontrato con il primo numero de il manifesto quotidiano comunista, del 28 aprile 1971, non a caso titolato in apertura: «Dai duecento mila della Fiat riparte oggi la lotta operaia. È una lotta che può far saltare la controffensiva padronale e i piani del riformismo.

Corrispondenza dalla prima base rossa di Mao». Eccola dunque , subito, l’appartenenza, ad un gruppo politico che fa dei consigli operai, del controllo da parte dei lavoratori del pro­cesso produttivo, del sapere operaio, dell’abolizione della divisione tra lavoro manuale e intellettuale la sua ragion d’essere. E che insiste sull’inchiesta operaia, costruendo strumenti, «esperti e rossi» come Medicina democratica che punta a coinvolgere i lavoratori nel risanamento ambientale individuato come nuovo e produttivo lavoro. Senza farsi bastare la presa di parola nelle assemblee operaie, ma interrogandosi anche con la scrittura e la poesia.

Un lavoro nel lavoro. Da giusteur collettivo, da approfondire in tante commissioni operaie a Roma e alla sede del Manifesto a Milano a Corso Sempione. In un clima, tutto intorno, però tenebroso dove lo stragismo dello Stato aveva aperto, già dal 1969, una stagione di sangue e di paura che si sentiva sulla pelle e che non sarebbe finita mai.

Alla fine è andata com’è andata. Quello straordinario movi­mento durato dieci anni è appro­dato ad una sconfitta sto­rica. Che per Gianni e ognuno di noi ha voluto dire deva­stazione anche personale. Chi si è ritrovato senza l’organizzazione che aveva costruito con assiduità, chi senza il giornale che aveva sostenuto con fedeltà, chi senza più l’amore della sua vita, chi isolato nel sindacato e rimosso o licenziato dalla Fiat, passata al contrattacco nel 1980 con la marcia dei 40mila. E chi addirittura minacciato da un fratello e «compagno» all’improvviso rivelatosi brigatista. A Gianni Usai, e nel giro di pochi giorni, questi avvenimenti sono precipitati tutti addosso e tutti quanti insieme. Fino a ritrovarsi in assoluto «senza» niente. In un deserto di possibilità. Solo chi creativamente aveva affrontato il conflitto come l’operaio-scultore di pupazzi Piero Perotti riuscirà a «licenziare il padrone» per riprendersi la libertà. Allora, forse solo con la fuga si poteva tro­vare una salvezza.

Ma Gianni scelse una ritirata originale, che prima assomi­gliava ad una espiazione ma che in pochissimi anni si sarebbe rivelata una vittoria operaia con altri mezzi. Aveva riscoperto le radici sarde, ma soprat­tutto il mare. In una loca­lità in disparte, dif­fi­cile da tro­vare anche sulla carta geo­gra­fica della Sar­de­gna, nell’Oristanese: Su Pallosu (il paglioso). Lì, tra le colo­nie di feni­cot­teri rosa e le capanne di giunco – ce n’erano ancora tante, come tante ancora si vede­vano appa­rire tra gli sta­gni di Cabras e Tharros — con la cas­setta degli attrezzi dell’aggiustatore, diven­terà mari­naio e pesca­tore, in una impresa e fatica forse più pesanti che non il lavoro di fab­brica. Lì tor­nerà a tes­sere l’uguaglianza e la libertà apprese nelle officine.

Andavamo a Su Pallosu

Dopo un po’ comin­ciammo a cercarlo e ad andarlo a trovare. Andavamo a Su Pallosu con­vinti di dover risol­le­vare un com­pagno sconfitto e in fuga. Sco­privamo che era Gianni che soste­neva noi con la sua fer­mezza e serenità, con la rabbia calma che lo aveva sempre contraddistinto nei tanti «caos» della politica. Rac­con­tava sulla piscina naturale della spiag­gia di Sa Mesa Longa, l’impegno con gli altri pescatori, le difficoltà della cooperativa e della pesca, la necessità di salvare l’ambiente. In poche parole, aveva aperto, dopo la Fiat, il fronte del mare.

Altro che vinto. Quel posto non era un buen retiro, ma la trin­cea del futuro, quella del lavoro che per dispie­garsi e autorganizzarsi contro e oltre lo sfruttamento del capitalismo, deve salvaguardare l’ambiente pena la sua scom­parsa. Una autogestione di nuovo tipo che pre­ten­deva e pretende la forma del «sapere», e in questo caso del «sapere il mare». Così Gianni, dopo avere con­tri­buito a riorganizzare le cooperative di pesca dell’area e a pro­muovere un rapporto diretto con i consumatori con nuove strumentazioni e tecnologie, attiva l’Università di Cagliari per­ché impegni dipartimenti e ricercatori a salvaguardare la pesca, il ripopolamento, l’habitat marino e quello delle spiagge — così il mare s’arricrea — avviando un coinvolgimento dei lavoratori del mare nel rispetto delle leggi con­tro la pesca nefasta, come lo strascico, che distrugge per sem­pre la fauna e la flora marina. Gianni diven­tava il ricercatore, lo scienziato di riferimento sul campo.

Così come il punto di approdo, è il caso di dire, di tanti intellet­tuali e scrit­tori, primo fra tutti l’amico di sem­pre Ste­fano Benni, stre­nuo soste­ni­tore del comunismo-usaismo, e poi di tanti cinea­sti – tra gli altri i regi­sti Vicari e Guido Chiesa che racconteranno nel film Non mi basta mai del 1999 sto­rie di soli­da­rietà ope­raia dopo la scon­fitta Fiat, e Sabina Guz­zanti che all’esperienza della pesca a Su Pallosu raccon­tata da Gianni Usai dedi­cherà un film, Le ragioni dell’aragosta, arri­vato nel 2007 alla Mostra di Venezia.

Giustizia, uguaglianza, creatività, nuova legalità. Gianni ha tenuto l’occhio alla bussola. E conclude l’intervista ricordando che, nonostante le divisioni che l’hanno fatta implodere, l’esperienza del manifesto è stata ed è la storia di un riscatto collettivo. Davvero, con lui, le reti lanciate non erano a strascico e si sono riempite.