I cinesi pronti a finanziare il Ponte sullo Stretto. E
forse pure a costruirlo. Del progetto definitivo ancora
neanche l’ombra ma il Celeste Impero si sarebbe
innamorato di Scilla e Cariddi e vorrebbe consacrarne
l’unione con il padre di tutte le Grandi opere, costi
quel costi. Stando alle rivelazioni di ministri e
sottosegretari, manager ed amministratori delegati
dell’immortale Stretto di Messina Spa, i nuovi mandarini
del capitale globale salveranno in corner il mito del
Ponte. E a forza di pompare mediaticamente la cosa, in
prima linea l’editorialista de La Sicilia Tony
Zermo, coerente pontista da tempi non sospetti, alla
fine ci han creduto tutti. Certo, i forzieri delle
banche di Pechino e di Shangai straripano di denaro e
c’è la spasmodica rincorsa a investire nei mercati del
pianeta, assorbire industrie e realizzare
megainfrastrutture. Ma rimettendo in ordine i tasselli
della storia sul Ponte ed i cinesi sembra tornare
a rivivere le avventure di quegli invisibili investitori
stranieri, prima giapponesi, poi nordamericani, in
procinto di approdare nelle spiagge dello Stretto con
grandi piloni di acciaio e di cemento, poi
inspiegabilmente dileguatisi per lasciare il posto solo
ad un anziano padrino di mafia di Montreal e a un
petromonarca della penisola arabica. Forse l’ennesimo
bluff per non staccare la spina all’incubo del Ponte ma
- alla fine - il niente del niente del niente.
In verità l’immagine dei mirabolanti capitali cinesi
alla conquista di Villa e di Messina non è poi così
recente. Se ne parla perlomeno dal 2006, quando la
Regione Siciliana governata da Totò Cuffaro lanciò con
l’Istituto per il Commercio Estero e il ministero dello
Sviluppo economico il cosiddetto “Progetto Cina” con
l’obiettivo d’intercettare gli investitori orientali. Il
tutto si ridusse in una serie di fallimentari visite dei
funzionari isolani a Pechino e in una mostra sulla
“cultura siciliana” al museo di Tienanmen. Qualche anno
più tardi furono
il presidente Raffaele Lombardo e l’assessore
all’Istruzione Mario Centorrino a rilanciare
la caccia al dragone cinese. Il 10 agosto 2010,
a Roma, i due incontrarono l’ambasciatore Ding
Wei per annunciare la presenza dell’Isola
all’esposizione universale di Shangai prossima
all’inaugurazione. Un intero padiglione intitolato
“Sicilia, un ponte tra le culture” e il plastico del
Ponte di Messina a fare da “testimonial come opera di
altissima ingegneria e luogo di passaggio e collegamento
tra due sponde del mondo per un futuro ad alta
tecnologia”, secondo la nota emessa da palazzo
d’Orleans. A Shangai, “nell’ambito della missione
istituzionale della regione Sicilia”, giunse il
successivo 23 agosto l’ingegnere Fortunato Covelli,
direttore relazioni estere della Stretto Spa. “Il
progetto è stato molto apprezzato dalle autorità
cinesi”, dichiarò il professionista all’agenzia Ansa.
“Ci hanno fatto i complimenti, ma soprattutto ci hanno
chiesto di aprire un tavolo di dialogo e contatto tra i
tecnici nostri e i loro”. Covelli poi incontrò a Pechino
pure i responsabili dei più importanti gruppi finanziari
e bancari cinesi per illustrare il piano finanziario
dell’opera e verificare la loro disponibilità ad entrare
nel project financing.
Nell’ottobre del 2010 i primi frutti del pressing
siciliano: mister Lombardo firmò una dichiarazione
d’intenti con la China Development Bank, principale
banca governativa d’investimento finanziario
specializzata in infrastrutture, con una presenza
diretta in decine di grandi progetti in Europa e nel
continente americano per un valore superiore ai 100
miliardi di euro. Altrettanto efficienti i “cugini”
d’oltre Stretto:
nel dicembre dello stesso anno il presidente della
Regione Calabria Giuseppe Scopelliti ricevette la visita
dell’ambasciatore in Italia Ding Wei per “studiare
insieme forme di cooperazione sul versante turistico,
produttivo e culturale”, rilanciare
il porto di Gioia Tauro e – ovviamente -
investire nella costruzione del Ponte.
Il 30 agosto 2011, Raffaele Lombardo,
il dirigente generale del Dipartimento per il
collegamento con l’Unione europea e il Bric della
Regione Sicilia Francesco Attaguile e l’architetto Pier
Paolo Maggiora incontrarono a Roma la consigliera
d’ambasciata Zhang Junfang e il viceministro del
Commercio Yang Yaoping. La Sicilia di Catania
annunciò a tutta pagina che la Cina “nutre il desiderio
di fare della Sicilia la piattaforma logistica del
Mediterraneo”, ma a scorrere le note e le dichiarazioni
riportate nel testo dell’articolo si comprende che fu in
verità la delegazione siciliana a promuovere in estremo
oriente l’immagine di un’isola stile Manhattan con al
centro un “asse Ponte sullo Stretto e un hub
aeroportuale (a Centuripe) con autostrade, strade e
ferrovie che si dipartono a raggiera e la contestuale
ristrutturazione dei porti di Augusta e Pozzallo”. I
cinesi promisero di pensarci ma chiesero perlomeno
l’elaborazione delle schede tecniche progettuali. Il
tutto mentre strizzavano l’occhio alle lobby politiche
ed economiche del più ricco nord-est che con Unicredit
sponsorizzavano l’ipotesi di una piattaforma logistica
nel nord Adriatico.
Intanto però sulla sostenibilità tecnica e finanziaria
del Ponte erano sempre in meno a scommetterci e il
parlamento, con una maggioranza bipartisan, arrivò ad
approvare una mozione che impegnava il governo a cassare
i fondi riservati all’avvio dei lavori. Puntuale la
controffensiva degli instancabili fautori del
collegamento stabile: il 3 settembre 2011 il ministro
delle Infrastrutture Altero Matteoli, in missione a
Messina per inaugurare la scuola di formazione per il
sistema radar marittimo Vts, annunciò a sorpresa di
avere avviato contatti con le banche cinesi per
finanziare l’opera. Tre giorni più tardi lo stesso
Matteoli rivelava il “forte interesse” per il Ponte
della China Investment Corporation (CIC). Si tratta di
uno dei maggiori fondi di investimento cinese: con sede
a Pechino, due uffici di rappresentanza a Hong Kong e
Toronto e appena 246 dipendenti, la CIC vanta un
capitale di 409 miliardi di dollari, utili operativi per
44,7 miliardi e rendimenti annui superiori all’11% sugli
investimenti globali. In cinque anni dalla sua creazione
la Corporation ha investito più di 3 miliardi di dollari
nel fondo di private equity americano Blackstone, 5
miliardi nella banca d’affari Morgan Stanley (oggi
controlla il 9,9% del suo pacchetto azionario) e altri
svariati miliardi nella compagnia energetica Suez-Gas de
France e nella Thames Water Utilities Ltd, la società
idrica della capitale britannica. Il Ponte non è però
l’unica grande infrastruttura sottoposta dal ministro
all’amministratore delegato della China Investment
Corporation, l’ex ufficiale della marina militare della
Repubblica popolare cinese ed ex viceministro delle
finanze, Low Jiwei. Si chiede invece di finanziare
l’intero libro dei sogni dei signori del cemento,
dall’Alta velocità ferroviaria ad alcune nuove
autostrade nazionali, passando dagli hub portuali in
Sicilia, Liguria e nord Adriatico e alla “trasformazione
di edifici storici di pregio in strutture alberghiere di
lusso”. Anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti
incontrò Low Jiwei, suggerendo l’acquisizione di altri
titoli di debito italiani (secondo il Financial Times
la China Corporation ne detiene già il 4% circa
dell’ammontare), l’investimento nei fondi strategici
italiani e in alcuni possibili settori d’intervento,
“turismo, privatizzazioni (Eni ed Enel comprese),
infrastrutture ed energie alternative”. “Solo un
incontro interlocutorio”, ammise Tremonti anche se il
suo sottosegretario Antonio Gentile annunciò entusiasta
che, immancabilmente, i cinesi erano “interessati al
ponte sullo Stretto”.
Il successivo 16 settembre una delegazione composta dai
delegati di diversi ministeri della Repubblica popolare
incontrò i rappresentanti della società Stretto di
Messina nella sua sede romana. “Ci è stato chiesto di
condividere il know how italiano sviluppato per
il ponte di Messina, al fine di acquisire elementi utili
alla realizzazione del progetto di collegamento stabile
attraverso lo Stretto di Qiongzhou”, fece sapere la
concessionaria statale. I titoli sui quotidiani
parlavano già però di soldi cinesi per il ponte,
ma a freddare gli entusiasmi ci pensò lo stesso
presidente della Spa, Giuseppe Zamberletti. “L’incontro
è durato a lungo, ma i cinesi non hanno fatto alcuna
promessa, perché ancora siamo nella fase iniziale”,
commentò laconico.
Cade il governo Berlusconi, arrivano i “tecnici” alla
corte di Mario Monti e di ponte e cinesi non se
ne parla più per un anno intero. Il 18 ottobre 2012,
all’interno del decreto legge n. 179 recante “ulteriori
misure urgenti per la crescita del Paese”, l’esecutivo
decide di non decidere la fine del progetto,
autorizzando la società dello Stretto ad avviare “le
necessarie iniziative per la selezione della migliore
offerta di finanziamento dell’infrastruttura con
capitali privati”. “In caso di mancata individuazione
del soggetto finanziatore entro il termine per l’esame
del progetto definitivo - aggiunge il Dl - sono caducati
tutti gli atti che regolano i rapporti di concessione,
nonché le convenzioni ed ogni altro rapporto
contrattuale stipulato dalla società concessionaria,
previo il pagamento al general contractor di un
indennizzo costituito dalle prestazioni effettivamente
prestate con una maggiorazione del 10%”. Neanche il
tempo di pubblicare sulla gazzetta ufficiale il testo
del decreto che arriva la comunicazione della
concessionaria di avere già individuato i possibili
investitori privati stranieri. “C’è un interesse
accertato a finanziare l’opera non solo del fondo
sovrano China Investment Corporation, ma anche di
imprese di costruzione e fornitura cinesi e, in questa
prospettiva, la finestra di due anni aperta dal Governo
Monti per la eventuale realizzazione del Ponte viene
salutata come una opportunità”, annunciava Zamberletti
il 1° novembre 2012. Non solo soldi, dunque, ma anche
l’intervento diretto per i lavori del colosso China
Communication and Construction Company (Cccc), 30
miliardi all’anno di fatturato, costruttore del ponte di
Huagzhou, il più lungo del mondo (36 chilometri) e di
quello di Su Tong Yangtze (32 chilometri). Conflitti
d’interesse con l’associazione temporanea d’imprese
general contractor? “No, per nulla”, rispondeva lo
stesso Zamberletti sul quotidiano La Sicilia.
“Penso che si possano mettere insieme interventi
convergenti, industriali e finanziari, perché, ad
esempio, ci sono anche problemi di forniture di acciaio.
Il Ponte non è in cemento armato…”.
Al presidente della concessionaria pubblica faceva eco
sul Giornale di Sicilia
Enzo Siviero, ordinario
dell’Università IUAV di Venezia e
consulente Anas, il gestore della rete stradale ed
autostradale azionista della Stretto di Messina Spa.
“Nelle scorse settimane a Istanbul, dove Astaldi sta per
iniziare la costruzione del terzo ponte sul Bosforo, c’è
stato un incontro fra rappresentanti della Cccc e
Giuseppe Fiammenghi, direttore generale della società
dello Stretto”, spiegava Siviero. “I cinesi hanno
consegnato un memorandum in cui si dichiara la
disponibilità a realizzare l’opera. La Cccc ha
pure presentato un piano, chiamato
Ulisse, per realizzare una
piattaforma logistica da Gioia Tauro ad Augusta ed è
interessata a interventi sulle ferrovie dalla Campania
alla Sicilia. Si tratta di risorse finanziarie
sostanzialmente illimitate, anche cento miliardi se
servono. E ci sarebbe lavoro per 40 mila persone per
almeno dieci anni”. Stavolta la piattaforma logistica
per l’Europa e il Nord Africa, dalla Sicilia si estende
all’intero Mezzogiorno con un numero di occupati uguale
a quello che avrebbe dovuto creare il Ponte da solo.
Libero aggiunge però una chicca che ha di certo
fatto impallidire l’ingegnere israeliano che sogna di
realizzare un’infrastruttura abitativa galleggiante tra
Scilla e Cariddi: la Cccc avrebbe chiesto agli italiani
di modificare un po’ il progetto originario,
trasformando i due piloni che reggono l’impalcato in
altrettanti grattacieli.
Dal bombardamento mediatico non poteva restare assente
l’amministratore delegato della Stretto di Messina,
Pietro Ciucci. “Da tempo sono stati avviati contatti con
i grandi investitori cinesi, il Fondo Sovrano Cinese, le
grandi banche di investimento, le banche commerciali, da
ultimo anche con alcuni grandi operatori industriali che
hanno dimostrato un interesse nei confronti dell’opera”,
ha dichiarato Ciucci lo scorso 9 novembre durante una
trasmissione di Rai Uno Mattina. Poi subito un
piccolo passo indietro. “Noi abbiamo illustrato le
caratteristiche, le potenzialità e la grande valenza
strategica del Ponte, ma al momento, non c’è un
contratto, ma un sentiment favorevole all’operazione da
parte della China Communication Construction Company che
è interessata sia alla realizzazione del ponte sia ad
un’assistenza finanziaria. Noi non vendiamo fumo e
fintanto che non c’è la possibilità di una trattativa
non si può avere l’impegno”. Nessun pre-pre-accordo
dunque, appena l’ennesima e stanca dichiarazione
d’interesse per un’opera che certo riesce assai poco ad
apparire accattivante, redditizia e sostenibile.
A rendere ancora più improbabile l’esistenza di una
reale volontà a finanziare e/o costruire il Ponte, le
innumerevoli promesse cinesi d’investire in Italia assai
raramente concretizzatesi. Un susseguirsi di flop e veri
e propri bluff, sempre più spesso made in Italy ma
spacciati come esotici. Il caso più eclatante è
certamente quello del piano infrastrutturale in Sicilia
della China Development Bank, promesso da Lombardo
nell’autunno 2011 ma mai venuto alla luce. Fantomatici
investitori asiatici avrebbero dovuto rilevare l’azienda
automobilistica
De Tomaso di Gianmario Rossignolo
salvando così duemila operai e i due stabilimenti di
Torino e Livorno. Desaparecidos i cinesi che avrebbero
dovuto affiancare l’imprenditore
Massimo Di Risio per impedire la
chiusura degli stabilimenti Fiat di
Termini Imerese o quelli che avrebbero dovuto creare una
joint venture per rilevare l’azienda
Irisbus di Avellino. Per lungo
tempo i mercati hanno salutato l’“integrazione” nel
settore delle telecomunicazioni tra l’italiana Telecom,
la cinese Huawei e l’operatore mobile Tre, di proprietà
della cinese Hutchinson Wampoa, operazione mai
verificatasi, e a Milano c’è chi aspetta ancora di
vedere la China Railway Construction Corporation
acquistare il 15% della quota sociale dell’Inter footbal
club, affare che per la famiglia Moratti era già bello e
pronto prima dell’avvio del campionato 2012-13.
Tra le rare operazioni felicemente andate in porto di
recente c’è l’acquisizione dei cantieri nautici
Ferretti di Forlì da parte del
colosso statale Shandong Heavy Industries-Weichai Group
e, a fine novembre, i sei accordi sottoscritti durante
la visita in Italia del presidente della Conferenza
consultiva politica del Popolo cinese, Jia Qinglin,
quarta carica della Repubblica popolare. Tra questi
ultimi, i più importanti, quello tra Hua Wei Italy e
Fastweb e quello tra China General Technology Holding
Ltd. e Fata Spa, società del gruppo Finmeccanica. Poco
più di un miliardo di euro il valore complessivo degli
accordi, veramente poco se confrontato con quanto banche
e fondi d’investimento cinesi stanno facendo in altre
parti d’Europa e negli Stati Uniti d’America. La tanto
invocata China Investment Corporation, ad esempio, ha
appena acquistato il 10% di Heathrow Airport Holdings,
la società di gestione dell’omonimo aeroporto londinese,
il più trafficato d’Europa ed il terzo al mondo dopo
Atlanta e Pechino (oltre 69 milioni di viaggiatori nel
2011). Un’operazione che da sola vale 561 milioni di
euro, denaro in buona parte finito nelle casse di Fgp
Topco, il consorzio guidato dal gruppo spagnolo
Ferrovial Agroman, alla guida della holding
aeroportuale. Ferrovial compariva originariamente in
cordata con Astaldi per concorrere al Ponte sullo
Stretto, ma alla vigilia della presentazione delle
offerte scelse di defilarsi dalla gara poi vinta
dall’associazione d’imprese con capofila Impregilo.
Ancora più rilevante (4,23 miliardi di dollari) l’affare
concluso
dal consorzio cinese costituito da New China Trust Co.
Ltd., China Aviation Industrial Fund e P3 Investments
Ltd., acquirente dell’80% del pacchetto azionario di
ILFC - International Lease Finance Corporation, società
di leasing con sede a Los Angeles proprietaria di una
flotta di oltre mille aerei che sono messi a
disposizione delle più importanti compagnie al mondo
(Air France-KLM, Lufthansa, American Airlines, United
Airlines, Delta Air Lines, Emirates, ecc.).
Gli investitori cinesi non si comportano né da
benefattori né da mecenati. Sono uomini d’affari cinici
che ponderano attentamente ogni modalità d’investimento.
Vanno dove li portano mercati e profitti certi, non
certo dove i progetti sono un azzardo o peggio ancora
insostenibili. Difficile credere allora che dopo la
Grande Muraglia i moderni imperatori della finanza di
Pechino sognino l’immortalità realizzando l’ottava
meraviglia del mondo in un modesto e periferico
corridoio marittimo.
Pubblicato in Rete No Ponte - Comunità dello Stretto,
Il Ponte sullo Stretto nell'economia del debito (a
cura di Luigi Sturniolo), Sicilia Punto L, Ragusa, 2013.
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