Una regione in fermento
La rivolta che scuote il mondo arabo non si placa e raggiunge nuovi paesi, in particolare la Siria.
In Marocco, le concessioni del re non fermano le manifestazioni .
Ovunque la protesta è rivolta contro le élite che hanno prevaricato lo stato e saccheggiato il paese .
In Libia, il colonnello Gheddafi offriva il petrolio alle compagnie occidentali, mentre soffocava la popolazione
L'intervento militare straniero complica la situazione .
La regione vive tuttavia una nuova fase della sua storia e sembra riallacciarsi alla Nahda («rinascita») del XIX secolo
(leggere qui sotto).
Rabat, marocco, 20 marzo 2011. |
I popoli arabi ritrovano l’unità
di GEORGES CORM *
Dal 18 dicembre 2010, data in cui Mohammed Bouazizi si è immolato col fuoco in una piccola città dell’interno tunisino, un attore che da decenni sembrava essere scomparso dalla scena politica araba è tornato: i cartelli innalzati da centinaia di migliaia di manifestanti, a Tunisi, al Cairo, a Baghdad, Manama, Bengasi, Sanaa, Rabat, Algeri e altrove, testimoniano la volontà del «popolo». Ciò che finora veniva definito con disprezzo «la strada araba» si è trasformato in «popolo», un’entità che comprende tutte le classi sociali e tutte le età. Le rivendicazioni sono semplici e chiare, lontane da qualsivoglia gergo ideologico e da ogni tentazione demagogica, religiosa o particolaristica. In un linguaggio spoglio e diretto, slogan lapidari vanno dritti ai problemi di fondo: da una parte, rivendicano libertà politica, alternanza al potere, la fine della corruzione, lo smantellamento degli apparati di sicurezza; dall’altra, reclamano dignità sociale e dunque opportunità di lavoro e salari decenti. È possibile che si tratti di una nuova «primavera araba», da troppo tempo attesa, dopo quella del 1956 che vide sconfitte le forze coloniali britanniche e francesi allora scatenate, di concerto con Israele, contro quel simbolo della resistenza antimperialista e terzomondista che era, all’epoca, l’Egitto di Gamal Abdel Nasser? Quel periodo si concluse brutalmente, nel 1967, con la sconfitta degli eserciti di Egitto, Siria e Giordania da parte di Israele, e poi con la morte prematura di Nasser, il capo carismatico, nel settembre del 1970. Dal 1975 al 1990, il Libano, in preda al caos e alla violenza, diventa il primo paese di una nuova storia, invaso da milizie armate ed eserciti stranieri, che si aggiungono all’occupazione israeliana. Seguiranno altre situazioni cruente, in Algeria e in Iraq in particolare, che permetteranno ai regimi in carica di farsi sempre più autoritari, ponendosi come garanti della stabilità politica. Lo spettro della «libanizzazione», e poi della «irachizzazione», diventa allora onnipresente. Altri momenti decisivi hanno fatto calare una cappa di piombo sulle società arabe. Le ideologie identitarie basate sull’islam hanno sostituito il nazionalismo antimperialista e laico. La loro origine è da ricercare nell’attivissima promozione del salafismo, e più in particolare del wahhabismo saudita, da parte delle monarchie petrolifere del Golfo. Il nazionalismo arabo è stato accusato di tutti i mali e la solidarietà panislamica promossa a unica soluzione possibile. È ciò che tenterà di realizzare, nel corso degli anni ’70, l’Organizzazione della conferenza islamica (Oci), voluta e guidata dall’Arabia saudita e dal Pakistan, che eclisserà il Movimento dei non allineati, così come la Lega degli stati arabi, paralizzata dagli scontri interni. Alla fine del decennio, Riad e Islamabad riescono a mobilitare interi settori della gioventù nello jihadismo, contro le truppe sovietiche in Afghanistan. Lo jihadismo sarà in seguito trasferito in Bosnia, poi in Cecenia e infine nel Caucaso. Una parte del movimento diventerà takfirista, cioè attaccherà altri musulmani giudicati miscredenti. Il suo eroe intellettuale sarà Sayyed Qotb (1); l’eroe militare e guerrigliero, Osama bin Laden. Anche un’altra ideologia identitaria, quella della rivoluzione iraniana, influenzerà il mondo arabo. Molto diversa dal wahhabismo per la sua collocazione sciita e l’adozione di alcuni moderni principi costituzionali, si vuole erede dell’antimperialismo e del socialismo del periodo precedente, ma in un linguaggio islamizzato. È caratterizzata anche da un violento antisionismo. La guerra scatenata da Saddam Hussein contro l’Iran nel 1980, per tentare di ridurre la nuova influenza di Tehran in Medioriente, segna allora un’altra importante svolta, i cui effetti durano ancora oggi. Porta infatti all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990, alla sua liberazione ad opera di una coalizione militare occidentale, poi, dodici anni più tardi, nel 2003, all’invasione americana dell’Iraq. A quel punto la società irachena precipita in un comunitarismo esasperato, una corruzione multiforme e una destrutturazione violenta. L’involuzione nell’identitario religioso porta anche a forti tensioni in diversi paesi arabi. Un caso estremo è quello dell’Algeria, dal 1991 al 2000. Ovunque nel mondo arabo, la minaccia islamista consolida il potere in carica e l’onnipotenza della polizia. Gli stati europei e gli Stati uniti accettano di buon grado la cosa. Gli spettacolari e cruenti attentati del settembre 2001, a New York e Washington, attribuiti a bin Laden e alla sua organizzazione al Qaeda, creano una diversione ancora maggiore. Rafforzano i regimi cosiddetti «moderati» grazie sia alla loro politica estera rispondente alle paure e ai desideri tanto europei quanto americani, che al loro silenzio sulle violenze israeliane contro i palestinesi e i libanesi. Il solo obiettivo delle diplomazie occidentali diventa l’asse siro-iraniano, ribelle agli occhi di Washington e paladino delle due opposizioni a Israele: Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. In una situazione così stabile e ferma, come prevedere rivolte popolari di tale ampiezza?
La cecità degli osservatori, nel mondo arabo come in Europa e negli Stati uniti, è stata totale sulle questioni economiche e sociali. Perché lagnarsi, finché le grandi società multinazionali hanno potuto realizzare ottimi affari, nel quadro della liberalizzazione progressiva delle economie arabe in corso da tre decenni, e finché i governanti locali e i loro affiliati hanno potuto accumulare gigantesche ricchezze in grado di alimentare le industrie del lusso in Europa o altrove, nonché il mercato fondiario nelle grandi capitali? Rispettati i dogmi neoliberisti, i nuovi uomini di affari arabi, miliardari nati dallo spreco della rendita petrolifera, cresciuti nei serragli governativi, erano considerati come il miglior segno della «modernizzazione» delle economie arabe. Ex militanti nazionalisti o marxisti si riconvertono al neoliberalismo e al neoconservatorismo all’americana. Il denaro del petrolio domina i media arabi. Tutto il resto è stato ignorato: tassi di disoccupazione allarmanti, ben superiori alla media mondiale in particolare tra i giovani, fuga di cervelli, flussi migratori crescenti, persistenza di larghe sacche di analfabetismo, bidonville gigantesche, potere d’acquisto più che debole in ampi strati della popolazione priva di qualsiasi copertura sociale, corruzione generalizzata, demoralizzazione e disgusto delle classi medie, gestione anarchica del settore privato, esso stesso grande corruttore e spesso vittima, come in Tunisia, delle ruberie dei più alti gradi del potere. Dietro i tassi di crescita relativamente alti di questi ultimi anni e le riforme destinate a ottenere l’approvazione delle istituzioni finanziarie internazionali e dell’Unione europea, la realtà sociale e economica è rimasta ben altra (2). Gli investimenti privati locali, e quelli dei miliardari della rendita petrolifera, assaltano i settori del fondiario di lusso o del turismo, nonché la distribuzione commerciale, le banche e le telecomunicazioni, in cui si realizzano numerose privatizzazioni (leggere Samir Aita pagine 14 e 15). Le Borse e i prezzi del mercato immobiliare si impennano, arricchendo ancora di più gruppi privati di tipo familiare e clientelare. I patrimoni che si sviluppano sono sproporzionati rispetto alla debole produttività delle economie, il cui potenziale è sfruttato poco o nulla. Gli investimenti nell’agricoltura, nell’industria o nei servizi ad alto valore aggiunto (informatica, elettronica, ricerca e industria in campo sanitario, energia solare, rifiuti, ambiente, gestione dell’acqua, ecc.) sono assolutamente insufficienti. I laboratori di ricerca e sviluppo sono praticamente inesistenti nel settore privato, che investe solo in attività a debole valore aggiunto, ma ad altissimo tasso di profitto e senza rischio finanziario.
La qualità dello sviluppo dell’economia reale non ha mai interessato i governi locali o i paesi e le istituzioni che li aiutano (3). L’emigrazione è incoraggiata come soluzione alla crescita demografica e alla disoccupazione. È vantata da tutta la letteratura degli organismi internazionali come la soluzione miracolosa per il problema della povertà, malgrado l’assenza di prove circa l’impatto positivo di queste migrazioni sui paesi esportatori di manodopera (4). Ci si limita ad avviare il microcredito, certo utile a attenuare la povertà, ma incapace di farla seriamente regredire. Il problema è capire come gli attuali movimenti potranno resistere ai vari tentativi di recupero, o alle controrivoluzioni. Il cammino del mondo arabo verso la libertà e la dignità ritrovata, tanto nell’ordine interno come sul piano internazionale, sarà lungo e difficile. La repressione potrà farsi feroce e le interferenze esterne rischiano di moltiplicarsi, come già succede in Libia e in Bahrein, evocando lo spettro della guerra civile. La primavera araba si fermerà alla Tunisia e all’Egitto? Trent’anni dopo il Libano, sarà la Libia la nuova polveriera a rischio di guerre civili prolungate e massicci interventi stranieri? Il primo pericolo che incombe sull’avvio delle rivoluzioni è il desiderio, chiaramente manifestato da Stati uniti e Europa, di «accompagnare» le nascenti riforme democratiche. Tradotto: conquistare una nuova clientela a colpi di dollari e di euro. Ma non sarebbe invece il momento che i popoli, che si sono messi in marcia, prendano in mano il proprio destino senza che gli si mostri la via e ci si intrometta nei loro affari (leggere l’articolo di Serge Halimi di seguito)I principi repubblicani e di cittadinanza, nati dalla Rivoluzione francese, sono stati divulgati tra le élite del mondo arabo fin dagli anni 1820 da numerosi scritti di intellettuali, religiosi illuminati, militanti dei diritti umani della prima ora. Tutti gli intellettuali della Nahda (rinascita) hanno contribuito a far conoscere i progressi della libertà realizzati in Europa. Sotto la monarchia, l’Egitto ha avuto un’animata vita parlamentare, così come l’Iraq e la Siria repubblicana, prima della conquista del potere da parte degli ufficiali baatisti. E che dire della Tunisia, la cui intellighenzia ha fortemente contribuito, fin dal XIX secolo, a far conoscere i moderni principi costituzionali? È perciò urgente ringraziare europei e americani per la loro sollecitudine. Il secondo pericolo sta nella debolezza delle economie locali e nella loro multiforme dipendenza in fatto di prodotti alimentari o di prima necessità. Il paradosso, in questo caso, è che nessuna delle economie manca di liquidità da investire in una nuova dinamica economica; in compenso, la realizzazione di questa dinamica impone di sradicare l’economia di rendita a valore aggiunto molto basso, oggi dominante ovunque, e di passare a un’economia pienamente produttiva, che sfrutti le risorse esistenti, sia naturali che umane. Invece di sollecitare l’aiuto esterno, bisognerebbe riuscire ad attirare i molti talenti oggi all’estero i quali, unendo i loro sforzi a quelli di quanti sono rimasti sul posto, potrebbero imprimere una direzione nuova alle politiche pubbliche, ispirandosi a quelle delle «tigri» asiatiche, senza farsi condizionare dagli aiuti stranieri (5). Il terzo pericolo è quello del manifestarsi di antagonismi sociali tra le classi medie urbane, da una parte, e gli strati popolari e poveri, rurali e urbani, dall’altra, la cui unità ha portato fin qui al successo dei movimenti di protesta. Un’alleanza basata sui comuni interessi tra gruppi economici privati e le classi medie per ridurre le pretese delle classi più povere, salariati compresi, potrebbe rivelarsi particolarmente pericolosa. D’intesa con gli interessi politici ed economici esterni, potrebbe disperdere poco a poco tutte le conquiste ottenute finora grazie al ritorno dei popoli sulla scena politica. Le giuste rivendicazioni salariali dovranno certo essere soddisfatte, ma potranno esserlo tanto meglio quanto più rapidamente l’apparato produttivo uscirà dall’economia di rendita, poco produttiva e a scarso valore aggiunto, e gli investimenti statali e privati verranno orientati verso i settori innovativi, la ricerca e lo sviluppo, la diversificazione dell’economia al di fuori del fondiario, del finanziario e del commercio di distribuzione. Si dovrà condurre una drastica revisione dei sistemi fiscali, non solo per realizzare l’equità fiscale, ma soprattutto per livellare i tassi di profitto tra i settori privi di rischio e a debole valore aggiunto e quelli che richiedono assunzione di rischio e capacità di ricerca e sviluppo. Un ultimo pericolo, infine, è quello agitato finora da tutti i capi di stato in rotta: i regionalismi e i tribalismi, se non le divisioni tra sunniti e sciiti o cristiani e musulmani. Queste tendenze centrifughe non dipendono tanto da irriducibili contrapposizioni identitarie di natura antropologica e essenzialista quanto dal malessere causato da uno sviluppo economico e sociale ineguale. Anche in questo campo, solo l’avvio di un nuovo dinamismo economico potrà far fallire il tentativo di sfruttarle.
note:
* Economista e
storico del Medioriente; autore, in particolare, di Proche-Orient éclaté,
1956-2010, Gallimard, coll «Folio histoire», Parigi, 2010 e di Le Nouveau
Gouvernement du monde. Idéologies, structures, contre-pouvoirs, La Découverte,
Parigi, 2010.
(1)
Dirigente dei Fratelli musulmani egiziani, ucciso per ordine di Nasser nel 1966.
(2)
Leggere «L’aggravation des déséquilibres et des injustices au
Proche-Orient», Le Monde diplomatique, settembre 1993.
(3)
Cfr. «L’ajustement structurel du secteur privé dans le monde arabe: taxation,
justice sociale et efficacité économique», in Louis Blin e Philippe Fargues (sotto
la dir. di), L’Economie de la paix au Proche-Orient, tomo II, Maisonneuve e
Larose, Cedej, Parigi, 1995.
(4)
Cfr. Le nouveau Gouvernement du monde, La Découverte, Parigi, 2010.
(5) Nel periodo 1970-2000, le
rimesse degli emigrati hanno rappresentato 359 miliardi di dollari per i soli
paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo, e gli aiuti (compresi quelli
militari) circa 100 miliardi di dollari. Fonte: database della Banca mondiale
sulle migrazioni e quella del Comitato di aiuto allo sviluppo
dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Cad-Ocde).
(Traduzione di G. P.)
Abbattere il potere
per liberare lo stato
L’indebolimento dello stato, la liberalizzazione
dell’economia e l’impoverimento della società hanno
alimentato le rivolte arabe.
Bengasi, libia, marzo 2011 Protesta anti-Gheddafi |
Tra Bengasi e Ajdabiyah, libia, marzo 2011 Carri armati dell’esercito di Muammar Gheddafi distrutti da un attacco aereo della coalizione |
di SAMIR AITA *
Le basi della «primavera» vanno ricercate al di là delle sole rivendicazioni per le libertà pubbliche e la democrazia. È nell’economia politica che bisogna cercare le ragioni del rifiuto di questa «anomalia araba», fatta di regimi autoritari e stabili fin dagli anni ’70, alla quale il nuovo risveglio vuole porre fine. Se in questa parte del mondo, le monarchie sono assolute e le repubbliche bloccate da presidenti a vita (e da cariche ereditarie), è perché un potere superiore (1) si è innalzato al di sopra dello stato e delle istituzioni nate al momento dell’indipendenza, e si è dotato di mezzi per sopravvivere.
Quali sono questi mezzi? Ci sono, certo, i servizi di sicurezza su cui il potere aveva un controllo diretto e che sfuggivano a qualsiasi supervisione. Tanto che non era raro vedere un qualche membro dei suddetti servizi rimproverare un ministro o imporgli una decisione. Ma questi apparati tentacolari dovevano essere finanziati, così come le varie reti clientelari nei partiti unici o infeudati. E i fondi in realtà non provenivano dai bilanci pubblici, come nel caso della polizia o dell’esercito, ma da diverse fonti di reddito.
Quando, nel 1973, è esploso il prezzo del greggio, la rendita petrolifera è aumentata notevolmente. Nei circuiti di commercializzazione, e con la complicità delle grandi multinazionali, una parte degli introiti finiva direttamente nelle casse delle famiglie reali o «repubblicane». Ma l’oro nero non era la sola risorsa intercettata dal potere. Dopo le commissioni sui grandi contratti pubblici (sia civili che militari) – il cui volume diminuiva a causa delle riduzioni dei budget, «aggiustamento strutturale» obbligando –, sono emerse nuove opportunità. Così, gli anni ‘90 hanno visto sia l’introduzione della telefonia mobile che la prima grande ondata di privatizzazioni dei servizi pubblici, con diverse forme di «partenariati pubblico-privato» (i contratti di tipo Bot [2]). La telefonia mobile offriva notevoli guadagni, soprattutto all’inizio, quando i clienti venivano reclutati tra le categorie più agiate della popolazione, disposte a pagare prezzi alti. Si è allora scatenata una battaglia senza esclusione di colpi tra i grandi operatori multinazionali, gli uomini d’affari più influenti e i poteri in carica, per intercettare i relativi profitti. Lo scontro tra l’egiziano Orascom e i militari algerini sull’operatore Djezzy ne è una prova, come quello tra lo stesso Orascom e Syriatel in Siria. Sono conflitti che accompagnano la nascita delle prime grandi multinazionali arabe, quali la stessa Orascom o Investcom in Libano.
La crescente mondializzazione delle economie arabe e le esigenze imposte dal Fondo monetario internazionale (Fmi) – con il sostegno della Commissione europea per i paesi mediterranei –, hanno accelerato il predominio del potere sull’economia, in particolare dopo i crolli finanziari del 1986 (3): riduzione degli investimenti pubblici e indebolimento del ruolo di regolazione dei governi; introduzione di grandi multinazionali in situazioni di monopolio o di oligopolio (cementifici, distribuzione, ecc.), in cambio della spartizione con il vertice del potere della rendita ricavata. Tutti i dirigenti delle grandi imprese mondiali sapevano dove si prendevano realmente le decisioni e chi erano i partner locali obbligati: i Trabelsi e i Materi in Tunisia, gli Ezz e gli Sawires in Egitto, i Makhlouf in Siria, gli Hariri in Libano, ecc. Poiché i Sawires hanno finito col vendere le loro partecipazioni in Orascom-Mobinil a France Télécom, come pure le loro azioni in cementifici, prima della «rivoluzione» egiziana, Najib Sawires può oggi apparire come attore del cambiamento nel suo paese. Lo stesso dicasi per Najib Mikati che, dopo aver venduto Investcom al gruppo sudafricano Mtn, è attualmente incaricato di istituire il nuovo governo in Libano.
In seguito arriva l’immobiliare. Trascinati dall’entusiasmo generale per il «miracolo Dubai», tutti i poteri arabi si sono lanciati in faraoniche operazioni immobiliari, particolarmente adatte a mascherare l’intreccio tra interessi pubblici e privati. Dei terreni sono stati dichiarati di pubblica utilità per essere venduti a basso prezzo agli imprenditori immobiliari; i centri storici sono stati trascurati per offrire il loro riad da ristrutturare a investitori affascinati dallo «charme orientale». E i prezzi dell’immobiliare locale hanno finito col competere con quelli praticati a Tokyo, Parigi o Londra.
L’ingranaggio fondamentale di tutte queste operazioni è stato il settore bancario. Non solo ha permesso di ripulire la rendita acquisita, ma anche di riciclarla in operazioni immobiliari e commerciali. Si è fatto inoltre strumento del potere, a cui ha permesso di assicurarsi l’appoggio duraturo degli imprenditori locali tramite il credito (4).
Affascinati dal «miracolo Dubai», tutti i poteri arabi hanno tentato di riprodurlo
Ma questo eccezionale sviluppo aveva il suo rovescio: l’indebolimento dello stato e dei servizi pubblici. I membri dei governi erano cooptati al vertice dello stato; nel migliore dei casi si trattava di tecnocrati provenienti dalle grandi istituzioni internazionali (la Banca mondiale, in particolare) ai quali mancava una legittimità elettorale, o un programma di cui rendere conto. Lo stato era ormai percepito come una burocrazia. Anche l’esercito si indeboliva, a vantaggio di forze pretoriane ben equipaggiate, garanti della perennità del potere (5).
Il sistema di governo ha finito allora per non somigliare più a quello nato con le indipendenze – che aveva permesso l’elettrificazione delle campagne o la generalizzazione dell’istruzione pubblica. I servizi pubblici si deterioravano a profitto di una privatizzazione rampante. In Arabia Saudita, a Gedda, l’acqua corrente funziona una sola volta a settimana, e un principe ha lasciato che si costruisse sul letto di un torrente, senza rete di evacuazione delle acque, il che ha provocato due inondazioni letali.
Ogni volta che scoppia uno scandalo, si lanciano campagne anti corruzione dagli effetti limitati. Come se si trattasse solo di una questione morale, e non di una rapina sistematica sul valore aggiunto, praticata da un gruppo dirigente assimilabile al… grande capitale.
Alla base della piramide sociale, ad essere traditi sono la dignità umana e il valore del lavoro. Un terzo circa degli attivi è impiegato nel settore informale, quello dei «lavoretti»; non vengono quindi conteggiati nelle statistiche sulla disoccupazione – eppure queste presentano da due decenni un tasso a due cifre. Un altro terzo è impiegato nel settore privato, detto formale; si tratta per lo più di lavoratori indipendenti o di «salariati» privi di contratto di lavoro, previdenza sociale, pensione, o veri diritti sindacali… al punto che si smarrisce la nozione stessa di salariato (6). Tranne che nel settore pubblico e amministrativo dove i diritti sociali sono garantiti e i posti sono ambiti, in particolare dalle donne. Il mercato del lavoro è tanto più segmentato, in quanto questi paesi hanno accolto notevoli flussi di immigrati. Tanto che siano residenti permanenti (rifugiati palestinesi, iracheni, sudanesi o somali) quanto temporanei (in particolare lavoratori asiatici) i loro diritti economici e sociali sono ancora più evanescenti, e lo sfruttamento del lavoro è a sua volta occasione di profitto, talvolta significativo.
Nei paesi arabi è lo stato di diritto che va ricostruito. Uno stato in cui il potere sia temporaneo, sottoposto alle istituzioni e non sopra di esse; e dove le rendite del potere siano smantellate una ad una, così come i monopoli, per liberare le energie imprenditoriali. Uno stato in cui siano garantite le libertà pubbliche e sociali, in modo che chi lavora ottenga i propri diritti con la lotta e il negoziato. Non sarà cosa facile; perché la tendenza mondiale, Europa compresa, non punta in questa direzione...
SAMIR AITA
note:
* Caporedattore di Le Monde diplomatique edizioni arabe, autore del saggio Les
Travailleurs arabes hors-la-loi, L’Harmattan, Parigi, 2011.
(1)
Samir Radwan e Manuel Riesco: «The changing role of the state», Economic
Research Forum, 2007.
(2) Build-Operate-Transfer: tipo di contratto di concessione che permette di
delegare concessioni a breve termine a investitori privati.
(3) Un crollo brutale del prezzo del petrolio costrinse allora Algeria e
Siria a bloccare i pagamenti. Lo stesso problema si è ripresentato in misura
minore nel 1999.
(4) Cfr. l’inchiesta di Béatrice Hibou riguardante il caso tunisino in La
Force de l’obéissance.
Economie politique de la répression en Tunisie. La Découverte, Parigi, 2006.
(5)
Leggere
Salam Kawakibi e Bassma Kodmani, «L’esercito, il popolo e i dittatori», Le Monde
diplomatique/il manifesto, marzo 2011.
(6)
Cfr. Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, n° 105-106, «Le travail
et la question sociale au Maghreb et au Moyen-Orient», Edisud, Aix-en-Provence,
2005. (Traduzione di G. P.)
Così parlò il re del Marocco
Rispondendo all’appello del Movimento del 20 febbraio, decine di migliaia di marocchini delle più diverse tendenze, manifestano la loro insoddisfazione, malgrado le riforme annunciate dal sovrano il 9 marzo. Chiedono anche l’allontanamento dei suoi consiglieri più stretti e del primo ministro
RABAT, MAROCCO, FEBBRAIO 2011 Giovani lanciano slogan e mostrano la bandiera simbolo della protesta del 20 febbraio |
dal nostro inviato speciale IGNACE DALLE*
Regime assolutista, corruzione dilagante, vistose disuguaglianze e preoccupante disoccupazione, in particolare tra i diplomati: i dirigenti marocchini hanno presto capito che, con qualche variante, tutto congiurava perché la popolazione del regno facesse proprie le proteste sfociate nelle rivolte tunisine ed egiziane. Di conseguenza, a meno di due mesi dalla caduta del dittatore tunisino Zine El-Abidine Ben Ali, il re Mohammed VI si è impegnato a rispondere alle rivendicazioni popolari: il 9 marzo, ha pronunciato il discorso più importante del suo regno, annunciando una «riforma costituzionale globale». Un passo avanti notevole. Ma basterà?
Da qualche mese, gli appelli per una vera monarchia costituzionale non affarista si moltiplicano, tanto tra le reti sociali e le associazioni, quanto tra le piccole formazioni di sinistra e gli islamisti di Al-Adl Wal-Ihsane (Giustizia e carità, un movimento tollerato che rivendica duecentomila aderenti). Questi ultimi, dopo aver atteso diverse settimane prima di reagire a quanto accadeva in Tunisia e in Egitto, hanno denunciato la «benalizzazione» del regime e lanciato un invito alla partecipazione a quello che si preannunciava come un vero evento fondatore: una marcia pacifica per la dignità del popolo, da tenersi il 20 febbraio 2011. Quel giorno, malgrado il cattivo tempo, la disinformazione dei media, le strade sbarrate e il rifiuto di partecipare dei partiti ufficiali, almeno diecimila persone hanno sfilato a Rabat, altrettante ad Agadir, Al-Hoceima e Marrakech – dove ci sono stati scontri –, e la metà a Casablanca.
Le autorità – preoccupate – già a metà febbraio avevano deciso di stanziare 15,7 miliardi di dirham (1,4 miliardi di euro supplementari) per compensare l’aumento dei prezzi sul mercato internazionale dei prodotti di prima necessità. La somma si aggiungeva ai 17 miliardi di dirham (1,5 miliardi di euro) già previsti a questo scopo dalla legge finanziaria del 2011. Non più provocatorio come in altri tempi, il potere aveva scelto di tenersi buoni i venditori ambulanti, così come i diplomati disoccupati – a cui sono stati promessi milleottocento posti di lavoro. La sua priorità? Neutralizzare i conflitti sociali in corso: gli operai della Société marocaine d’études spéciales et industrielles (Smesi), a Khouribga, sono stati reintegrati; le rivendicazioni di alcune categorie di insegnanti soddisfatte; molti dossier bloccati da anni trovano – come per miracolo – soluzione (o promessa di soluzione). Infine, a inizio marzo, Mohammed VI ha trasformato il Consiglio consultivo dei diritti dell’uomo (Ccdh) – organismo fino a quel momento molto criticato –, il Consiglio nazionale dei diritti dell’uomo (Cndh), istituzione dotata di poteri rafforzati nella prospettiva di un consolidamento dello stato di diritto.
Per quanto positive, queste misure sono lontane dal soddisfare l’aspirazione al cambiamento di molti marocchini. Il 9 marzo, nell’intento di calmare gli animi, Mohammed VI ha quindi chiamato i suoi sudditi a mobilitarsi nel quadro di un «grande cantiere costituzionale». Una proposta che la popolazione attendeva da dieci anni. Corruzione, abuso di potere, favoritismi, disuguaglianze crescenti e disoccupazione: da anni, l’esasperazione cresce. Di recente sono scoppiate numerose rivolte isolate, – piccole intifada, a volte a connotazione tribale –, a Sefrou, Nador, Al-Hoceima, Tinghir, Ben Smim, Jerrada, ecc. Ogni volta, la gente grida la sua disperazione, rivendica il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro o, semplicemente, alla dignità.
«Vergognosa ingordigia» di alcuni personaggi vicini al monarca
Sidi Ifni, giugno 2008: forse il caso più emblematico. Sentendosi abbandonata da tutti, la maggioranza degli abitanti del piccolo porto – legato alla tribù degli Ait Baaram –, si solleva contro l’autorità locale. All’inizio, il governo invia migliaia di soldati – le famose Compagnie mobili d’intervento (Cmi), trasformate nel 2006 nei Gruppi d’intervento della gendarmeria reale (Gigr) –, a controllare gli insorti. Ma, un anno dopo, al momento delle elezioni locali, le autorità lasciano che i promotori del movimento prendano il controllo della nuova giunta municipale.
Allo stesso modo, da alcuni anni sono comparse le cosiddette tansiquiyate, o coordinamenti, che conducono azioni puntuali contro il caro-vita o le inadempienze dei servizi pubblici: se ne contano tra sessanta e ottanta disseminate nel paese. Queste organizzazioni – in cui le donne sono molto attive – sono animate da militanti provenienti dall’Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh) o da formazioni di estrema sinistra. A Casablanca, un dinamico coordinamento combatte l’aumento dei prezzi. In un paese in cui il salario minimo arriva a poco più di 2.000 dirham al mese – meno di 200 euro –, nutrire la famiglia è un vero rompicapo.
I tansiquiyate costituiscono un freno ai possibili disordini, dal momento che funzionano da interfaccia con il Makhzen, nome che designa l’apparato statale. Ma non per questo il potere le risparmia. È anzi molto aggressivo nei confronti dell’Amdh – probabilmente la più attiva fra tutte le organizzazioni arabe di difesa dei diritti umani e uno degli ultimi spazi di vigorosa contestazione del regime –, i cui membri vengono regolarmente braccati, vessati e perfino bastonati.
Malgrado tutto, il Marocco non è la Tunisia. A differenza di Ben Ali, detestato dal popolo, il successore di Hassan II continua ad essere molto apprezzato da larga parte della popolazione. Al di là del suo status di capo spirituale dei marocchini – guida dei credenti e discendente del Profeta –, Mohammed VI è benvoluto dal popolo. Si sposta molto nel paese, a nord come a sud, e inaugura una miriade di progetti – spesso modesti –, non esitando a rubare la scena a ministri o eletti locali: «Non essendo un grande oratore, è questo il suo modo di comunicare», spiega un alto funzionario. Peraltro, i marocchini gli sono grati per la sicurezza che regna nel paese.
Il re tuttavia è severamente criticato da una parte dell’opposizione politica extra-parlamentare e da molte associazioni. Nell’autunno 2010, la monarchia ha vissuto un momento difficile: quindici giorni dopo gli scontri seguiti alla brutale demolizione di un campo di sahrawi a Laayoune, tra il 29 ottobre e il 10 novembre, le rivelazioni di WikiLeaks sull’avidità del Palazzo reale nel settore immobiliare hanno avuto l’effetto di una bomba, soprattutto all’estero. Un ex ambasciatore americano accusa di «vergognosa ingordigia» alcuni personaggi molto «vicini» al monarca. A suo dire, sarebbe impossibile lanciarsi in un progetto immobiliare di una qualche importanza senza passare sotto le forche caudine di Mounir Majidi (uomo d’affari e segretario particolare del re) e di Fouad Ali Al-Himma (amico di Mohammed VI e «uomo forte» del regime) o dello stesso sovrano. Il che, secondo la diplomazia americana, «compromette seriamente quel buon governo che le autorità marocchine sostengono di voler promuovere».
Il mistero più fitto regna sulle proprietà fondiarie, in particolare sui titoli di proprietà della famiglia reale. Quest’ultima può così acquistare a basso prezzo terreni edificabili che rivende a prezzo di mercato, incassando elevate plusvalenze. «Noi siamo totalmente impotenti», lamenta un industriale interessato a un lotto di terreno situato in una proprietà di tremila ettari a sud di Casablanca, acquisita dal Palazzo. Il re, il più grande proprietario terriero del paese con almeno dodicimila ettari ben irrigati, ha prolungato fino al 2014 l’esonero fiscale di cui beneficiano gli agricoltori da una trentina d’anni. Peraltro la disposizione, voluta da Hassan II nel 1984 in occasione di una grave siccità, avrebbe dovuto essere solo temporanea…
Secondo la rivista americana Forbes, la ricchezza di Mohammed VI sarebbe quintuplicata tra il 2000 e il 2009, arrivando a superare i 2,5 miliardi di dollari. Il suo comportamento e quello del suo entourage irritano sempre di più gli imprenditori, in particolare del settore immobiliare, agro-alimentare, bancario e della grande distribuzione. Già all’inizio degli anni 2000, il politologo Rémy Leveau – poco sospettabile di ostilità nei confronti del regime –, si mostrava preoccupato dell’affarismo del giovane re: «In un sistema in via di transizione democratica, il re non può essere imprenditore; non può fare concorrenza agli imprenditori (1)». Né mettere la giustizia al servizio dei suoi interessi…
All’inizio di marzo, il miliardario Miloud Chaabi, a capo della holding Ynna, ha fatto notizia criticando violentemente il trattamento di favore accordato – una volta di più, a suo parere -, al suo principale rivale, Anas Sefrioui. Quest’ultimo, anch’egli miliardario, dirige il gruppo Addoha e gode del sostegno del Palazzo che lo ha molto aiutato nel settore fondiario. In effetti Addoha ha appena creato una società in comune con l’Agence de logements et d’équipements militaires (Alem), che dovrebbe costruire trentasettemila alloggi sociali. Secondo Chaabi, che ha manifestato a Rabat il 20 febbraio, l’accordo è «molto pericoloso»: nessuna gara d’appalto, nessuna trasparenza (2).
Giornalisti celebri, un tempo critici, oggi fiancheggiatori
L’alone di mistero che circondava il sovrano nei primi anni del regno si è dissipato. A 48 anni, ha preso gusto al suo ruolo e, come i suoi predecessori, resta la figura centrale del sistema. Chi sperava in sostanziali modifiche costituzionali che dessero maggior peso al Parlamento, e quindi ai partiti politici, è rimasto deluso. Non solo il re non ha dato segno di voler modificare la Costituzione (prima del 9 marzo), ma, tramite il suo amico Al Himma, ha reso ancora più debole una classe politica che non ne aveva certo bisogno. Il Partito autenticità e modernità (Pam), creato nel 2008 dallo stesso Al-Himma con l’intento di neutralizzare il movimento islamista, è riuscito nell’impresa di arrivare in testa alle elezioni comunali del 12 giugno 2009, con il 21,7% dei seggi. Ha così superato l’Istiqlal, formazione del primo ministro Abbas Al Fassi (19,1%), i socialisti dell’Unione socialista delle forze popolari (Usfp) (10,8%) e gli islamisti del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Pjd) (5,4%).
La classe politica, almeno nella sua espressione parlamentare, è ampiamente ignorata o malvista dai marocchini. A parte un piccolo gruppo di deputati di estrema sinistra, solo gli islamisti del Pjd (3) sfuggono ancora alla riprovazione generale, anche se le divergenze tra i dirigenti confondono l’elettorato e privano il partito di visibilità. L’opportunismo di alcuni eletti di tutte le tendenze ha facilitato il compito del Pam, che non ha faticato molto a corromperli, recuperando anche qualche ex detenuto politico di estrema sinistra. Colmo dell’assurdo: prima delle elezioni municipali del 2009, il Pam ha dichiarato di essere passato all’opposizione. Questa «buffonata», come la definisce il direttore di Tel Quel (4), spiega come mai quasi due terzi dei marocchini non vadano più a votare.
Per altro verso, il regime preoccupa sempre di più gli organismi nazionali e internazionali di difesa dei diritti umani. L’Amdh si associa sistematicamente a Amnesty International e a Human rights watch (Hrw), nel denunciare una netta regressione. Tra i molti processi farsa, quello contro il presidente dell’Associazione del Rif per i diritti della persona e portabandiera della lotta contro il traffico di droga nel nord del Marocco: Shakib Al Khiyari è stato condannato all’inizio del 2009 a tre anni di reclusione per «attentato agli organi costituiti». La motivazione maschera la collera delle autorità, da lui accusate di compiacenza nei confronti dei trafficanti di droga per il loro atteggiamento lassista, se non complice. Il risentimento delle forze dell’ordine è tale che, nel gennaio 2011, sono riuscite a impedire la consegna del Premio di integrità, assegnato da Trasparency Maroc ad Al Khiyari e ad Abderrahim Berrada, avvocato di Abraham Serfaty, ex detenuto politico scomparso nel novembre scorso.
I tribunali usano la mano pesante anche con la stampa indipendente, perseguitata da un potere sempre meno disponibile ad accettare le critiche. Multe pesantissime, unite a pene carcerarie, hanno portato alla chiusura di diverse testate – Le Journal hebdomadaire, Akhbar Al-Youm, Nichane, Al-Jarida Al-Oula, per citarne alcune. Nel frattempo, il regime si è assicurato i servizi di questa o quella celebre firma, un tempo critica, che oggi sposa senza vergogna le tesi ufficiali – come dire che hanno perso ogni pudore.
Anche la stampa estera è nel mirino. Da più di un anno, il ministero delle comunicazioni rifiuta di accreditare un giornalista marocchino assunto dall’Agenzia France-Presse (Afp). Stesse difficoltà per l’agenzia Reuters. Lo spirito indipendente di questi due collaboratori delle agenzie, uno dei quali è stato redattore capo di Le Journal hebdomadaire, è inaccettabile agli occhi dei servizi di sicurezza. I giornalisti spagnoli si chiedono se il loro accreditamento sarà rinnovato. Quanto ad Al Jazeera, a fine ottobre 2010 le sue attività sono state sospese in quanto i responsabili del regno hanno ritenuto che la testata del Qatar avesse «screditato l’immagine del paese (5)».
Nel dicembre del 1952, l’uccisione nei pressi di Tunisi del sindacalista tunisino Ferhat Hached ad opera di sicari francesi, aveva infiammato tutta l’Africa del Nord e, in particolare, Casablanca. Sessant’anni dopo, i marocchini, spettatori appassionati e spesso molto coinvolti in tutto ciò che succede nel resto del nord Africa, chiedono conto ai loro dirigenti. Lettere aperte al re, editoriali spesso molto duri, petizioni, e-mail, pubblicazioni su vari blogs e manifestazioni si moltiplicano per reclamare profondi cambiamenti e una transizione democratica che sia, come chiede lo scrittore e poeta Abdellatif Laabi, «irreversibile» (6).
Fouad Abdelmoumni, consulente esperto in sviluppo ed economista, osserva che ciò che è successo in Tunisia dimostra che «bavagli, repressione, corruzione e protezione di potenze straniere non frenano in alcun modo la volontà popolare».
Sembra che Mohammed VI si sia finalmente reso conto del livello del malessere. Ma, pur accolto con favore, il suo discorso del 9 marzo solleva diversi problemi. C’è intanto una contraddizione fondamentale tra la volontà di instaurare una monarchia costituzionale moderna e il permanere, riconfermato, del carattere sacro dello status regale. In quanto attore politico di fondamentale importanza, il re deve poter essere controllato e criticato: da chi e come? Tenuto conto della sua composizione – la maggioranza è formata da sostenitori del regime – la commissione nominata ad hoc per preparare la riforma rischia di deludere.
Mohammed VI ha poi parlato di una giustizia «indipendente». Ma non ha detto nulla sulla corruzione che mina il paese e sull’affarismo che inquina il suo entourage. Non una parola neppure sul ruolo che svolgerà – o meno – Al-Himma, oggi onnipresente in campo politico.
Il sovrano affronta un gigantesco cantiere disseminato di insidie. Tuttavia, sotto lo sguardo vigile dei marocchini e dei «paesi amici» – che devono mostrarsi più esigenti nelle relazioni con il regno –, il Marocco e Mohammed VI dispongono di un’occasione unica per costruire un modello originale di sviluppo e democrazia. Il sostegno popolare di cui ancora gode il sovrano dovrebbe aiutarlo in questo colossale compito.
note:
* Giornalista, autore di Les Trois Rois. La monarchie marocaine de
l’indépendance à nos jours e di Hassan II, entre tradition et absolutisme,
Fayard, Parigi, rispettivamente 2004 e 2011.
(1)
Mounia Bennati-Chraïbi, Abdellah Hammoudi e Rémy Leveau, «Le Maroc, un an après
la mort de Hassan II. Une conversation à trois», Annuaire de l’Afrique du Nord,
volume 38, Cnrs Editions, Parigi, 2002.
(2)
Cfr. il sito www.lakome.com (in arabo).
(3) Il Pjd è comparso nel 1998, come forma di controllo del potere su una
parte degli islamisti. In seguito, alcuni dei suoi membri hanno preso le
distanze dal palazzo. Si legga Wendy Kristianasen, «Gli islamisti marocchini di
fronte al modello turco», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2007.
(4) N° 359, Casablanca, 24 ottobre 2009.
(5) Dichiarazione di Khalid Nauri, ministro delle comunicazioni, il 4
novembre 2010.
(6)
«Ce Maroc qui ne va pas si bien…», Tel Quel, Casablanca, 29 gennaio 2011.
(Traduzione di G.
P
Palestina da lontano
Per decenni, i palestinesi hanno rappresentato un fondamentale esempio di resistenza per tutto il Medioriente. Ma proprio quando il mondo arabo è scosso da enormi proteste di piazza, essi sembrano quasi scomparsi alla scena politica internazionale. Un articolo delle edizioni arabe del Diplò
Nuba, west bank, palestina, ottobre 2010 Due anni dopo questa donna comparirà bendata e angariata dai soldati israeliani in un video diffuso in rete |
di Jonathan Cook *
Per decenni, i palestinesi hanno rappresentato un grande esempio per le masse arabe in tutto il Medioriente; un esempio di resistenza (sumud) all’occupazione e all’oppressione israeliana. Del resto, furono i palestinesi a introdurre nel resto del mondo il termine arabo «intifada». Qualche mese fa, quando i tunisini hanno cacciato il loro dittatore Zine al-Abidine Ben Ali, o quando gli egiziani hanno rovesciato il regime poliziesco di Hosni Mubarak, molti dimostranti hanno preso l’esperienza palestinese come modello di riferimento.
Ma paradossalmente, proprio quando il mondo arabo è scosso da enormi proteste di piazza e grandiosi sconvolgimenti politici, i palestinesi risultano in tale contesto a malapena visibili. Lungi dal guidare le rivolte regionali degli ultimi mesi, sembrano quasi scomparsi dalla scena politica internazionale.
Facebook, Twitter e i nuovi mezzi di comunicazione sociale hanno rappresentato uno strumento fondamentale in diversi paesi arabi per i promotori delle proteste, cosa che ha permesso loro di bypassare l’atmosfera repressiva dei regimi e di organizzare manifestazioni di protesta senza precedenti. Ma in Palestina i nuovi media si sono mano a mano configurati in modo differente: quello di una sorta di valvola di sfogo, piuttosto che di preludio alla mobilitazione della resistenza.
In parte ciò può essere spiegato con un’inevitabile stanchezza: decenni di lotta contro Israele, con il solo risultato di vedere l’occupazione trincerarsi sempre più saldamente in territorio palestinese, hanno avuto un effetto deprimente. Anche durante i lunghi anni della seconda intifada, Israele ha portato avanti con successo la sua opera di colonizzazione in Cisgiordania e ha persino iniziato a rosicchiare alcune tra le tradizionali roccaforti palestinesi a Gerusalemme Est nelle adiacenze della città vecchia, come il villaggio di Silwan o il distretto di Sheikh Jarrah.
Gran parte della recente attività dei coloni ebrei – di cui mezzo milione vive attualmente nei Territori occupati – ha paradossalmente avuto luogo in un periodo in cui i palestinesi hanno goduto del supporto dell’unica superpotenza mondiale, gli Stati uniti. Ma negli ultimi due anni i palestinesi hanno compreso che persino la Casa Bianca non è in grado di strappare alla potenza israeliana una piccola concessione come quella del congelamento degli insediamenti.
Eppure, c’è un’altra importante ragione che spiega questa sorta di «basso profilo» della lotta palestinese: una grande incertezza su come e dove avrà inizio la battaglia per la liberazione. Un analista palestinese, Khaled Abu Toameh, ha posto il problema in questi termini al quotidiano israeliano The Jerusalem Post: «Se e quando i palestinesi si rivolteranno, lo faranno contro tutto e tutti: contro Fatah, contro Hamas, contro Israele e le Nazioni unite, contro gli Stati uniti e molti poteri occidentali e regimi arabi che avrebbero voltato loro le spalle durante tutti questi anni».
Questa incertezza e confusione si è manifestata anche nel contesto delle varie campagne lanciate sui social network dai giovani palestinesi. Una pagina Facebook, per esempio, ha recentemente incoraggiato i palestinesi a scarabocchiare messaggi anti-occupazione, come «Free Palestine», sulla propria valuta. Del resto lo shekel rappresenta di per sé un simbolo dell’occupazione e della dipendenza economica palestinese: è Israele a controllare il commercio palestinese così come il denaro in circolazione. Il promotore di questa campagna su Facebook, Salah Barghouti, residente a Ramallah in Cisgiordania, spera che, dal momento che israeliani e palestinesi usano la stessa moneta, le banconote deturpate circolino ampiamente.
«Il nostro obiettivo è che queste banconote raggiungano i politici israeliani sino ad arrivare nelle mani del primo ministro Benjamin Netanyahu, e che questi recepisca il messaggio». Resta da chiarire come degli slogan anti-occupazione su una banconota da 100 shekel riescano ad alterare significativamente il pensiero di Netanyahu o quello israeliano.
Un’altra campagna palestinese nata su Facebook chiama invece a una terza intifada, da lanciare il 15 maggio – anniversario della nascita di Israele nel 1948 sulla maggior parte della Palestina storica. Sebbene la pagina abbia ricevuto già 200.000 espressioni di gradimento, svela un problema di fondo: la scelta della data suggerisce che probabilmente molti sostenitori della pagina, se non i suoi stessi anonimi fondatori, siano piuttosto palestinesi in esilio e non, invece, quelli in grado di sfidare direttamente l’occupazione. Facile spingere il pulsante «mi piace», ma come riusciranno i milioni di giovani palestinesi rifugiati in Libano, Giordania o Siria a far sì che la loro richiesta di liberazione della Palestina sia ascoltata quando dovranno confrontarsi, oltre che con l’occupazione israeliana, con le forze di sicurezza giordane, siriane e libanesi?
Inoltre, gli ideatori della pagina sulla terza intifada usano uno slogan simile a quello della campagna delle scritte sulle banconote: «È tempo di liberare la Palestina». Bene, ma qual è precisamente il territorio da liberare? È solo quello ristretto ai Territori occupati, una causa sostenuta dal diritto internazionale e formalmente adottata dalla gran parte della comunità internazionale? E se così fosse, come far fronte alle richieste della grande maggioranza dei palestinesi in esilio?
D’altra parte, se la nuova intifada è concepita per riconquistare l’intera Palestina storica, incluse le vecchie abitazioni dei rifugiati nelle centinaia di villaggi distrutti in ciò che oggi è chiamato Israele, quale futuro è proposto per la popolazione ebraica residente in Israele e nei Territori occupati? Tutti i sostenitori della pagina sono davvero favorevoli a dividere la terra con la soluzione dello stato unico, che superi le differenze etniche e religiose, o qualcuno preferirebbe forse cacciare via gli ebrei? Purtroppo, il pulsante «mi piace» non è abbastanza sofisticato per potercelo rivelare.
Una terza campagna, probabilmente la più visibile sino a oggi, è stata lanciata da un gruppo conosciuto come il Movimento del 15 marzo, e si è modellata sulla falsariga del Movimento del 25 gennaio in Egitto. Questa campagna ha in realtà eluso la questione della liberazione della Palestina per insistere sulla necessità di una riconciliazione del movimento nazionale palestinese, profondamente diviso, rivolgendosi ai leader laici di Fatah in Cisgiordania e al movimento islamico di Hamas nella Striscia di Gaza. Lo slogan della campagna suona così: «Il popolo vuole la fine della divisione».
Daoud Kuttab, docente presso l’Università al-Quds di Gerusalemme Est, osserva che il successo delle rivolte in Tunisia ed Egitto dipende sostanzialmente da tre fattori: il rifiuto di scivolare nella violenza per rovesciare il regime; una sostanziale unità d’intenti tra i manifestanti, ottenuta articolando semplicemente proposte vaghe e idealistiche; e la mancanza di una leadership facilmente identificabile. Ciò ha permesso a tutti gli strati della popolazione di sentirsi ugualmente partecipi per la stessa causa, assicurando allo stesso tempo che il regime non fosse in grado di cooptare o schiacciare gli organizzatori delle rivolte stesse.
Facendo dell’unità politica una priorità, il Movimento del 15 marzo dichiara che questa è una precondizione per il successo di una terza sollevazione; ma ci sono anche altre caratteristiche particolari da tenere ben presenti.
Una di queste è chiaramente economica. I dimostranti palestinesi condividono lo stesso profilo sociale dei loro omologhi egiziani: la maggior parte di loro ha un’istruzione a livello universitario, a volte ha frequentato prestigiosi college all’estero, ma ha poi avuto difficoltà a trovare lavoro nelle economie stagnanti di Cisgiordania e Gaza. Queste persone credono che la divisione tra Fatah e Hamas abbia decisamente contribuito alla mancanza di opportunità lavorative, per il clientelismo che premia solamente i membri fedeli al partito.
Un’altra peculiarità risiede nel fatto che, al contrario dell’Egitto o della maggior parte degli altri paesi arabi, la leadership palestinese gode di un certo grado di legittimità democratica: sia i governanti di Hamas a Gaza che quelli di Fatah in Cisgiordania sono stati eletti grazie ad elezioni libere e regolari. Le nuove elezioni sono in realtà in ritardo, ma la causa di questo ritardo è da cercare nell’impossibilità materiale di effettuare una votazione quando le due fazioni sono di fatto in guerra. La riconciliazione nazionale, a giudizio dei dimostranti, spianerebbe la via a nuove elezioni oltre che a una maggiore responsabilità nei confronti dei cittadini.
Nel giorno stabilito per il raduno, il 15 Marzo, i dimostranti sono arrivati nelle piazze centrali di tutte le principali città palestinesi; a tutti era stato detto di portare la bandiera palestinese e non quella delle varie fazioni politiche. L’affluenza è stata a dir poco mediocre: a Ramallah, Nablus, Hebron e Betlemme ha partecipato qualche migliaio di persone, mentre più di 15.000 hanno sfilato per le strade di Gaza city.
Ma persino queste cifre deprimenti si sono rivelate fuorvianti. La protesta di Gaza, in particolare, è stata in realtà pilotata dai fedelissimi di Hamas; e non appena le telecamere e la gran parte della folla hanno lasciato le piazze, i manifestanti rimasti sono stati maltrattati, picchiati o arrestati dalle forze di sicurezza di entrambe le fazioni. Poche ore di protesta sono state tutto ciò che ognuna delle due fazioni avrebbe permesso.
I dimostranti sembrano in realtà aver voltato le spalle all’obiettivo della liberazione – sia dall’occupazione israeliana che dai governanti di casa propria. Invece che seguire i manifestanti egiziani e tunisini nel rifiutare l’oppressione dei loro capi, il Movimento del 15 Marzo ha richiesto al contrario una maggiore cooperazione da parte di entrambe le leadership.
E non stupisce che Abbas abbia risposto alle manifestazioni di piazza offrendosi di raggiungere Gaza per incontrare i leader di Hamas, per parlare di unità. Questa piccola vittoria per i manifestanti potrebbe presto rivelarsi una vittoria di Pirro. Anzi, metterà in evidenza le differenze tra le agende dei due movimenti nel contesto di un mondo arabo scosso dalla rivolta.
Abbas ha ora tutte le ragioni per spingere verso una riconciliazione con Hamas. Fino a prima che Mubarak fosse deposto, il presidente palestinese aveva infatti crudelmente represso qualsiasi dimostrazione popolare in solidarietà con il popolo egiziano. Mubarak era il principale alleato di Abbas nel mondo arabo, nonché il suo baluardo contro Israele. Ora, neppure la Lega araba è in grado di aiutare Abbas nella sua lotta con Netanyahu e la Casa Bianca: i suoi leader sono stremati dai loro propri problemi mentre aspettano di capire chi, tra loro, sopravviverà nelle prossime settimane e mesi.
Così, Abbas si trova da solo sulla scena mondiale, la lotta della sua Autorità palestinese è oscurata da altri eventi e la sua stessa credibilità è in caduta libera in seguito allo scandalo dei documenti palestinesi trapelati su al-Jazeera, che hanno mostrato al mondo i negoziatori dell’Anp piegarsi segretamente e vigliaccamente alla maggior parte delle richieste israeliane.
L’unica via di fuga da questa difficile situazione è quella di internazionalizzare la battaglia dei palestinesi contro Israele. È ciò che ha in programma di fare Abbas proclamando uno Stato palestinese alle Nazioni unite il prossimo settembre. Tale mossa si rivelerà inutile se egli non riceverà il supporto della comunità internazionale e la legittimità incontrastata di presidente di un’Autorità palestinese che rappresenta davvero il suo popolo.
Non appena rovesciato Mubarak, Abbas ha cambiato il tono delle sue dichiarazioni, chiamando a nuove elezioni. Il suo primo ministro Salam Fayyad, un tecnocrate gradito alla Casa Bianca ma che non gode di un’effettiva base popolare, ha promesso di formare un nuovo governo, più inclusivo. Ha assicurato che sarebbe stato più rappresentativo e che si sarebbe consultato con la gioventù palestinese attraverso – naturalmente – Facebook.
Al contrario, i calcoli di Hamas sul post-Mubarak sono completamente diversi. Un Egitto più democratico potrebbe risultare più vicino alle istanze politiche di Hamas e alla difficile situazione umanitaria degli abitanti di Gaza. Il blocco via terra e via mare imposto da Israele con la complicità di Mubarak si indebolirà lungo il confine egiziano, permettendo ad Hamas di consolidare il suo potere e meglio armare i suoi quadri.
Se una vera unità non potrà essere raggiunta, i palestinesi potrebbero gradualmente concludere che una rivolta popolare deve essere diretta contro il vero autore della loro tragedia: Israele. Nessuno sembra avere fretta, anche perché la maggior parte di loro è in attesa di vedere come si evolveranno gli eventi nei prossimi mesi. La data sulla quale tutti i palestinesi hanno gli occhi puntati è senza dubbio settembre, quando Abbas proclamerà l’esistenza del loro stato alle Nazioni unite. Il palestinese medio sarà piuttosto riluttante ora a sfidare i carri armati israeliani se ci sarà ancora una speranza che il loro presidente possa proclamare l’esistenza di uno Stato sotto la protezione internazionale.
Tuttavia, Israele non resta a guardare. Il suo esercito, secondo quanto riferito dai mezzi di informazione israeliani, è seriamente preoccupato che la «generazione di Facebook» palestinese possa lanciare un potente movimento per i diritti civili e, soprattutto, che lo faccia in maniera pacifica. Del resto, i palestinesi hanno già due modelli da emulare: la prima insurrezione di massa della fine degli anni ’80, che ha preceduto la creazione dell’Autorità palestinese e le proteste degli ultimi anni portate avanti dalle comunità rurali, come quelle di Bel’in e Nabi Saleh, contro il muro di divisione che mangia la terra palestinese.
Fino a ora, ogni villaggio palestinese è stato lasciato solo a combattere per difendere le sue terre dalla potenza dell’esercito israeliano. Ma se il Movimento del 15 Marzo, basato nelle città, riuscirà a comporre alleanze più ampie e a coordinarsi con le lotte popolari dei villaggi, peraltro imparando da queste, il risultato potrebbe davvero essere sorprendente. Uno degli organizzatori del Movimento, Fadi Quran,ha suggerito proprio questo affermando che i giovani della rivolta vogliono utilizzare nuovi strumenti per combattere l’occupazione attraverso la disobbedienza civile, le proteste di massa, e la strategia del Bds – boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.
Di conseguenza, l’esercito israeliano si sta preparando per l’avvento di un tale scenario – anche se, in base alle sue valutazioni, è improbabile che quest’ultimo si materializzi prima di settembre. Le forze armate israeliane hanno costituito gruppi speciali di risposta rapida, dislocati in punti sopraelevati con vista sui villaggi palestinesi della Cisgiordania, per riuscire a schiacciare le proteste di massa sin dalle prime fasi. La preoccupazione principale è quella che le proteste possano marciare verso gli insediamenti, i checkpoint o il muro di separazione. Di fronte a questo, i comandanti israeliani hanno già avvertito che apriranno il fuoco, a prescindere dal carattere pacifico o violento delle marce stesse.
note:
* Giornalista, vive a Nazareth, Israele. Il suo ultimo libro, La Palestina che
scompare, è pubblicato in arabo da Edizioni Sutour, Il Cairo. (Traduzione
dall’inglese di L. R.)
ALGERI A Misure economiche e sociali • Stanziamento di 20 milioni di euro per varie misure sociali, in particolare prestiti a interesse zero per i giovani. • Fine della repressione sul commercio informale.• Lo stipendio dei professori universitari è stato quasi quadruplicato, da 50.000 a 200.000 dinari (da500 a circa 2.000 euro).• Aiuti diretti sono previsti per giovani disoccupati.• I cancellieri, in sciopero, hanno ottenuto unaumento salariale del 110%.• Secondo il ministro dell’interno, Daho OuldKablia, otto delle quattordici rivendicazioni avanzate dalle guardie comunali (che supportano la gendarmeria) sono state soddisfatte, in particolarel’aumento di salari e premi e il pagamento dei congedi e degli straordinari.• Riduzione delle tasse sullo zucchero.• Previsti investimenti per infrastrutture per unammontare di 112 miliardi di euro.Misure politiche • Revocato lo stato d’emergenza, in vigore da diciannove anni.• «Importanti riforme politiche» sono state annunciate, il 19 marzo, dal presidente Abdelaziz Bouteflika, che non fornisce ulteriori precisazioni.
ARABIA SAUDITA Misure economiche e sociali • A febbraio era stato presentato un primo piano per 25,6 miliardi di euro. Il 18 marzo il re ne ha annunciato un secondo, per decine di miliardi di dollari, che prevede: un’una tantum equivalente a due mesi di stipendio per tutti i funzionari; un sussidio di 375 euro per i disoccupati; l’aumento 560 euro del salario minimo dei sauditi; crediti per la costruzione di 500.000 alloggi; 3 miliardi di dollari destinati alla sanità.• I stituzione di una commissione per la lotta alla corruzione.• Assunzione di 60.000 funzionari di polizia. Misure politiche • Nessuna.
BAHREIN Misure economiche e sociali • Riduzione del 25% del rimborso dei prestiti per i beneficiari dei programmi di alloggio (circa 35.800 famiglie).• Il ministro dell’interno ha annunciato la creazione di 20.000 posti di lavoro, il re una sovvenzione di 1.790 euro a famiglia. Misure politiche • Inizialmente, il potere ha liberato i prigionieri politici, allontanato diversi ministri, accettato il principio di un Parlamento provvisto di reali poteri. Di fronte al rifiuto dei manifestanti di accettare concessioni di facciata, il 15 marzo il re ha fatto appello alle truppe dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, ha proclamato lo stato d’emergenzae arrestato numerosi oppositori.
GIORDANIA Misure economiche e sociali • Aumenti salariali per gli impiegati del settore pubblico e i militari• Creazione di 21.000 posti di lavoro nel settore pubblico, 6.000 di questi nella polizia e gendarmeria. • Riduzione delle tasse su carburanti e prodotti alimentari • Aumento dei crediti previsti per progetti riguardanti lo sviluppo delle regioni più povere. Misure politiche • Il 1° febbraio, il re Abdallah II ha nominato primo ministro Marouf Bakhit in sostituzione di Samir Rifai, di cui i manifestanti chiedevano le dimissioni.• Il 20 febbraio, ha chiesto a governo, Parlamento e giustizia di dare vita a «reali riforme politiche».
KUWAIT Misure economiche e sociali • Ogni cittadino riceverà 2.647 euro, una tantum.• Distribuzione gratuita di razioni alimentari per un valore totale di 600 milioni di euro.
LIBIA Misure economiche e sociali • Concessione di una sovvenzione di 324 euro a famiglia, i salari di alcune categorie del settore pubblico aumenteranno del 150%.• Abolizione di imposte e dogana sui prodotti alimentari.
MAROCCO Misure economiche e sociali • Un supplemento di 15 miliardi di dirham (circa 1,5 miliardi di euro) verrà concesso alla cassa incaricata di sovvenzionare i beni di consumo, in particolare petrolio e gas. L’organizzazione vede così quasi raddoppiato il suo bilancio.Misure politiche • Nel discorso del 9 marzo, il re Mohammed VI ha annunciato una riforma costituzionale che rafforzerà il ruolo del primo ministro (scelto in seno al partito vincitore delle elezioni), lo stato di diritto, l’indipendenza della giustizia e riconoscerà nel testo la componente «berbera amazigh».
OMAN Misure economiche e sociali I l sultano Qabous ha promesso la creazione 50.000 posti di lavoro e un sussidio mensile di 350 euro per i disoccupati. Aumento del salario minimo da 261 euro a 373euro.Misure politiche Destituzione di dieci ministri. Quattro dei nuovi ministri provengono dal Consiglio consultivo i cui membri sono eletti Annuncio del trasferimento di alcune competenze legislative al Consiglio di Oman (Parlamento bicamerale, i membri della camera alta sono designati dal sovrano), i cui poteri saranno precisati da un emendamento alla Costituzione redatto da una commissione posta sotto il controllo del sovrano.
SIRIA Misure economiche e sociali S bloccati 187 milioni di euro a favore della parte più povera della popolazione. Inoltre, l’aiuto mensile per il riscaldamento domestico passerà da 14,70 a 23,50 euro, è il primo aumento dal 2001. Riduzione delle tasse su caffè e zucchero, così come dei diritti doganali sui prodotti alimentari Aumento del 30% del salario dei funzionariMisure politiche Annuncio di una rapida interruzione dello stato d’emergenza e di una riforma delle leggi su partiti e stampa Promessa dell’istituzione di una giustizia indipendente.
YEMEN Misure politiche Il presidente Ali Abdallah Saleh ha annunciato che non si ricandiderà alle elezioni del 2013; ha anche fatto sapere che non intende trasferire i poteri a suo figlio. Promesse elezioni anticipate sia presidenziali che legislative prima della fine del 2011 Il 20 marzo verrà sciolto il gabinetto del presidente
fonte |
Il petrolio libico passa di mano in mano Ripercorrendo la storia del petrolio emergono le battaglie condotte per il controllo di questa risorsa strategica e il modo in cui le compagnie occidentali si sono create un feudo in Libia.Molto prima dell’intervento. di JEAN-PIERRE SÉRÉNI *
A priori, la faccenda è incomprensibile. I suoi rari partner lo consideravano imprevedibile, incoerente e umorale. Nel 1986, il presidente Ronald Reagan l’aveva definito il «cane pazzo del Medioriente (1)», prima d’inviare la VI flotta a bombardare la Libia e imporle un pesante embargo petrolifero. All’epoca, il personaggio era trattato da paria… Eppure, vent’anni dopo, il colonnello Mouammar Gheddafi è riuscito a riportare il suo paese nel gruppo di testa degli esportatori di petrolio greggio, grazie, tra l’altro, alle grandi compagnie petrolifere americane. Com’è stata possibile una simile impresa? Forse «Gheddafi il petroliere» ha dato prova di maggiore razionalità nella conduzione degli affari di questo settore, che non in quella delle altre sue iniziative politiche, interne o estere, – magari proprio perché se n’è occupato meno. Forse, sono stati i petrolieri di tutto il mondo che hanno imparato a vivere – e a fare soldi, tanti soldi – nel mondo libico, particolarmente instabile quando non ostile. Ma così è andata. Il paradosso viene da lontano. Nel 1951, la Libia, a lungo chiamata il «regno del vuoto», arriva all’indipendenza nella più completa povertà. È il risultato dell’anacronistica fusione tra un imperialismo britannico declinante e una tribù musulmana sahariana, la Senussi (di cui il re è originario). L’unica esportazione? Rottami di ferro raccolti sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale. Lo «sceicco rosso» manovra le compagnie mettendo le une contro le altre Il lavoro dei geologi italiani negli anni ’30 – proseguiti poi dagli esperti dell’esercito americano – indicano la presenza di petrolio nel sottosuolo del grande paese (un milione e settecentomila chilometri quadrati). La legge petrolifera, adottata nel 1955, segna la rottura della regola del concessionario unico per ciascun paese, che era stata adottata fino ad allora in Medioriente: l’Anglo-Iranian in Iran, l’Aramco in Arabia saudita o l’Irak petroleum company in Iraq (2). Al contrario, in Libia, le concessioni vengono limitate nel tempo (cinque anni) e nello spazio. Quando sgorga il petrolio, la scelta si rivela felice. La ricerca parte alla grande, con una decina di compagnie. Sei anni dopo, nel 1961, Exxon inaugura il terminale di Marsa el-Brega: il primo carico viene imbarcato. In meno di cinque anni, la produzione supera il milione di barili al giorno, cosa mai vista. Nel 1962, sono al lavoro diciannove compagnie tra cui Exxon, Shell, Bp, Eni, che diventano trentanove nel 1968. È nato un nuovo modello petrolifero, che a poco a poco si imporrà nel resto del mondo. Appena arrivato al potere – a seguito di un colpo di stato, il 1° settembre 1969 –, il colonnello Gheddafi cambia strategia. Vuole strappare un prezzo più alto per il suo greggio. Su consiglio del primo ministro saudita degli affari petroliferi, Abdallah Tariki, detto lo «sceicco rosso» – poi estromesso dal re Faysal (1964-1975) per la sua temerarietà –, comincia a manovrare le compagnie le une contro le altre, opponendo all’inizio la più grande, la Esso, a una piccola indipendente, l’Occidental, obbligandole a ridurre della metà la loro produzione quotidiana allo scopo di strappare un maggior guadagno per il Tesoro. La Esso può sostituire il greggio locale con la produzione in altri paesi. La seconda però, che non possiede nulla fuori dalla Libia, è l’anello debole, tanto più che le majors, le sette più grandi compagnie del mondo (3), rifiutano di cederle anche un solo barile. «Ha tutte le uova nello stesso paniere» si rallegrano i negoziatori libici (4). La compagnia si arrende. Con il canale di Suez chiuso, il Cartello (5) deve capitolare e nel settembre 1970 prezzi e imposte aumentano di colpo del 20%. Per gli altri paesi esportatori è la prova provata che è molto meglio trattare con più operatori che con uno solo e molto più saggio equilibrare la presenza di grandi compagnie internazionali con quella di altre società più modeste, prive di risorse alternative. Le società indipendenti e quelle statali europee compaiono sulla scena petrolifera mondiale. Gheddafi e il suo Consiglio di comando della rivoluzione, da bravi discepoli del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, sono ben decisi a recuperare le ricchezze nazionali. Ma devono anche riflettere su varie esperienze sfortunate: quella del primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq, rimosso dalla Cia nel 1953 per aver osato scontrarsi con l’Anglo-Iranian; quella del colonnello algerino Houari Boumediene, vittima di un oneroso embargo, nel 1971, per aver nazionalizzato i giacimenti delle compagnie francesi. Ancora una volta Tripoli lavora di cesello. Nel dicembre 1971, i soldati iraniani dello scià hanno occupato, nel Golfo, le isole di Abu-Mussa e della Grande e Piccola Tumb, alla vigilia dell’evacuazione della regione da parte delle truppe britanniche. Per punire il Regno unito di aver lasciato occupare questi territori, il governo libico nazionalizza la British petroleum (Bp). Il pretesto è debole, ma la partita importante: Bp possiede la maggioranza dei giacimenti di Sarir, il più importante del paese. Dopo una disputa tempestosa, si conclude un accordo: la Libia riprende il controllo di tutto il giacimento… A ogni prova di forza si ripete lo stesso scenario. I tecnici stranieri devono sopportare soprusi e molestie, il lavoro sulle piattaforme rallenta e la produttività ne risente. Stanchi, Gulf, Philips, Amoco, Texano, Socal e altri abbandonano poco alla volta i giacimenti (e lasciano il paese). La società pubblica, la Lybian national oil company (Lnoc), formata alla scuola americana, riprende la produzione senza troppe difficoltà. In dieci anni, il reddito del paese si moltiplica per cinque fino a toccare i 10.000 dollari a testa nel 1979. Le difficoltà arrivano sul versante politico. Nel dicembre 1979, gli Stati uniti pubblicano il primo elenco degli stati che appoggiano il terrorismo. La Libia vi figura in buona posizione, in particolare per l’aiuto a movimenti palestinesi radicali. Poco dopo, Washington chiude l’ambasciata a Tripoli, poi proibisce ai residenti americani l’acquisto di greggio libico. Infine, nel giugno 1986, viene dichiarato fuori legge l’intero commercio con la Jamahiriya (neologismo creato a partire da due parole arabe: «repubblica» e «masse popolari»). L’attentato contro il Boeing 747 della PanAm nei cieli di Lockerbie, il 21 dicembre 1988, poi quello contro il Dc10 della compagnia francese Uta, nel novembre 1989, sfociano in sanzioni internazionali che danneggiano l’industria petrolifera libica. A questo si aggiungono altri problemi, come il ribasso dei corsi mondiali del greggio, il peso di cantieri faraonici o la disorganizzazione dell’economia nazionale a seguito dell’applicazione delle raccomandazioni del Libro verde – un lungo e astruso manifesto anarco-collettivista commissionato dalla Guida della rivoluzione, che sogna una «terza via universale», a mezza strada tra capitalismo e marxismo. La priorità è accordata ai petrolieri d’oltre Atlantico La Lnoc non ha difficoltà a trovare nuovi mercati in Europa, Turchia e Brasile per rimpiazzare gli sbocchi persi oltre Atlantico, ma l’embargo silura i piani di sviluppo nel campo della ricerca, della petrolchimica e del gas naturale. Nell’impossibilità di attirare capitali occidentali, tecnologia, know-how e attrezzature made in America, i grandi progetti si bloccano. Naturalmente si avviano progetti per aggirare l’embargo via Tunisia e Egitto, ma bisogna pagare a caro prezzo i faccendieri da reclutare all’uopo sulle due rive del Mediterraneo. Tutto costa da cinque a sei volte più caro che prima del 1986. I giacimenti invecchiano e diventa decisiva la ricerca di nuovi, se si vuole evitare il crollo della produzione. Il periodo 1992-1999 è particolarmente duro. Rallenta notevolmente la crescita dell’economia (+ 0,8% all’anno) e il reddito pro capite cala del 20%. Il malcontento incombe, scoppiano rivolte, in particolare in Cirenaica, e si moltiplicano i tentativi di rovesciare il regime. Per Gheddafi è tempo di cedere. Perso ogni pudore, consegna alle autorità britanniche i suoi stessi agenti accusati per l’attentato di Lockerbie, e indennizza profumatamente le duecentosettanta vittime (un po’ meno le centosettanta del Dc10 della Uta). Dopo l’11 settembre 2001, Tripoli si allinea a Washington tra i partigiani di un intransigente antiterrorismo islamico. Infine, nel 2003, qualche giorno dopo l’ingresso dei blindati americani a Baghdad, Gheddafi rinuncia pubblicamente a dotare il suo paese di armi nucleari. Il 13 novembre 2003, vengono rimosse le ultime sanzioni internazionali e si apre la strada al rilancio petrolifero. Gheddafi sogna di raddoppiare rapidamente la produzione per arrivare a più di tre milioni di barili al giorno, il che porterebbe la Libia al livello dell’Iran e ne farebbe un membro influente dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), il cartello che indirizza i prezzi dell’oro nero. Nell’agosto 2004, la Lnoc mette all’asta quindici permessi di prospezione. È l’assalto. Centoventi compagnie manifestano interesse, tra cui i giganti americani e britannici che nel 1986 avevano lasciato la Libia senza essere stati nazionalizzati. Undici dei quindici «blocchi» sono assegnati ad americani (Occidental, Amerada Hess, Chevron Texaco). La priorità del potere è evidentemente quella di associare ancora una volta i petrolieri d’oltre Atlantico alla propria industria, a scapito delle società europee come la Total, che pure l’avevano sostenuta al momento delle sanzioni (6). Da parte loro, i petrolieri internazionali fremono impazienti, malgrado le condizioni siano severe – 133 milioni di dollari da versare alla firma, un minimo di 300 milioni di spese di prospezione – e la resa modesta. Secondo gli esperti del settore, resterà nelle loro mani il 38,9% della produzione, ma più verosimilmente solo il 10,8%. Come si spiega questa reciproca e duratura attrazione tra le compagnie, dalle più piccole alle più grandi, e un paese per loro tanto difficile come la Libia? Certo, il suo greggio è di qualità eccellente e i giacimenti sono vicini ai centri di raffinazione europei, tra i più importanti del mondo. Attualmente il petrolio libico rappresenta circa il 15% del consumo francese e meno del 10% di quello dell’Unione europea.Ma, soprattutto, in mezzo secolo si è capovolto il rapporto di forze. Nel 1960, le majors, in maggioranza anglosassoni, controllavano la maggior parte della produzione non comunista. Oggi, le società nazionali dei paesi produttori le hanno sostituite (7). Ormai proprietarie del sottosuolo, ne controllano l’accesso, pur continuando ad avere bisogno delle compagnie internazionali per un passaggio essenziale dell’attività petrolifera: la ricerca e la prospezione di nuovi giacimenti. Cercare petrolio è rischioso, costa molto caro, necessita di capitali enormi e di competenze tecnologiche avanzate. Le società nazionali mancano dell’uno e delle altre. Il grosso del denaro che guadagnano è speso fuori dall’industria petrolifera nazionale (la famiglia Gheddafi – cinque figli e una figlia –prende abbondantemente la sua parte) e la loro zona d’attività non supera le frontiere. Per questo, al di là delle espulsioni, rivoluzioni e nazionalizzazioni, il ritrovarsi degli uni con gli altri è inevitabile, con o senza Gheddafi.
note:
Da Tripoli a Bengasi, la lunga strada della rivolta La rivolta libica non è nata dal nulla. È stata preparata sia dalle promesse di riforma del regime che dalle coraggiose iniziative di alcuni attivisti.
di RACHID KHECHANA * In un’intervista concessa al canale televisivo Al-Arabiya, il 19 febbraio, Saif Al-Islam, figlio di Muammar Gheddafi, ha dichiarato di stare progettando, con l’aiuto del padre, importanti riforme del sistema politico. Ha aggiunto che una settimana prima dello scatenarsi della rivolta, la «Guida» aveva incontrato alcuni oppositori ai quali aveva promesso riforme radicali riguardanti la Costituzione, la convocazione di libere elezioni e la promulgazione di nuove leggi. Dimenticava solo di ricordare che l’apertura da lui stesso tentata nel 2003 era fallita nel 2008 (1). Otto anni fa, infatti, Saif Al-Islam aveva proposto un progetto di riforma della costituzione da realizzarsi entro il 1° settembre 2008. Tra le tante misure, erano previste ventuno leggi fondamentali, una delle quali sugli investimenti e il codice penale e un’altra sulle procedure civili e commerciali. Erano riforme, a suo dire, che si inserivano nel quadro di un tentativo volto a far uscire la Libia dall’isolamento internazionale. Inoltre aveva auspicato l’edificazione di una società civile in cui sviluppare ogni tipo di organizzazione indipendente: sindacati, federazioni, leghe, associazioni giuridiche e professionali. L’obiettivo era quello di conferire al regime una legittimità costituzionale che sostituisse la legittimità rivoluzionaria e tribale su cui si era basato il colonnello fin dalla sua ascesa al potere. Tuttavia, queste leggi non sono mai state sottoposte all’approvazione del parlamento, il Congresso popolare generale. In realtà, sembra che l’iniziativa fosse solo una manovra con l’obiettivo di guadagnare tempo e offrire un’immagine migliore del regime alle capitali occidentali. Il giudice incaricato di redigere la costituzione ha dichiarato di essersi ispirato sostanzialmente al Libro verde – il piccolo manuale dei pensieri della Guida – e che la sua missione non era quella di cambiare la natura del regime…, ma di riorganizzare i testi ufficiali preesistenti. La scadenza fissata per l’organizzazione delle elezioni e l’istituzione di una Costituzione non è stata rispettata. Quando la «guida» si ispira a Jean-Jacques Rousseau Per capire il rinvio sine die, bisogna risalire nella storia e individuare le basi del pensiero del colonnello Gheddafi. Quando gli «ufficiali liberi» prendono il potere il 1° settembre 1969, la Libia – molto ricca di petrolio e gas – conta due milioni e mezzo di abitanti che formano una società tribale composta al 75% da beduini. Allora ci sono solo tre città importanti: Tripoli, Bengasi e Misurata. I cambiamenti più importanti operati dai nuovi governanti consistono nell’abolire la monarchia, instaurare la Repubblica araba e consacrare «il potere del popolo» nel corso di un congresso che si tiene nel marzo del 1973. Fin dal 1972, la legge n. 17 bandisce il pluralismo politico e proibisce la creazione di partiti politici, in linea con la parola d’ordine: «Chi aderisce a un partito è un traditore.» L’Unione socialista araba – poi trasformata nei comitati popolari – costituisce allora la spina dorsale del sistema e, paradossalmente, rinsalda il suo orientamento socialista, mentre il colonnello Gheddafi vuole esplorare «una terza via» tra capitalismo e comunismo. Il ricercatore tunisino Taoufik Mestieri sostiene che Gheddafi sarebbe stato influenzato dal filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (2): ne avrebbe fatto il suo riferimento per instaurare in Libia una «beduinocrazia». Un sistema caratterizzato dall’assenza di uno stato, di un presidente (sostituito da una «guida») e dei partiti (sostituiti da comitati popolari che dirigono l’amministrazione) e, come contropartita, dalla creazione di comitati rivoluzionari (così come di comitati di controllo, a cui spetta il compito di regolare le controversie tra comitati popolari e comitati rivoluzionari). Il funzionamento di queste strutture è tutt’altro che trasparente, visto che nessuno sa come vengono nominati i membri. Gheddafi è stato costantemente protetto dalla sua tribù, Al-Kadhafa. Così, quando il colonnello pretendeva di viaggiare all’estero con la sua famosa tenda, era per ricordare alla tribù che, anche fuori dal paese, se ne sentiva parte. La questione sembra folcloristica, ma costituisce invece un messaggio forte per i beduini, i quali lo hanno scelto non come presidente, ma come leader, un status rivendicato da Gheddafi ogni volta che spiega di non poter essere destituito. Nel corso del suo mandato, il colonnello è passato dall’arabismo al nazionalismo e al tribalismo, contestando la civiltà urbana. Ha fatto della khaima (tenda) la sua casa ed escluso tutti i ministri cittadini. Nel 1977, ha abolito la direzione collegiale che caratterizzava il Consiglio del comando della rivoluzione (Ccr), l’organismo che nel 1969 aveva conquistato il potere. Non solo ha represso gli oppositori progressisti, islamisti e nazionalisti, ma ha anche allontanato uno a uno i suoi compagni d’armi, gli «ufficiali liberi». Il comandante Abdessalem Jallud, numero due nel putsch del 1969, si è rifugiato, dal 1993, presso la sua tribù, Al-Mhergua. I comandanti Mohamed Nejib e Mokhtar Karoui furono i primi a dare le dimissioni dal Ccr, nel 1972, in segno di protesta contro il rifiuto di riconsegnare il potere ai civili. Nel corso dello stesso anno, il colonnello Mohamed Al-Meguerief è stato processato in condizioni non chiare. Bechir Al-Huadi e Yaudh Hamza sono stati uccisi nel 1975; Omar Mehichi nel 1984. Da un quarto di secolo, Abdelmonem Al-Huni si è unito ai dissidenti, per riconciliarsi recentemente con il colonnello e rompere di nuovo a seguito della rivolta del febbraio 2011. I sei figli di Gheddafi hanno sostituito i collaboratori del padre Su dodici membri del Ccr, ne sono rimasti solo tre: Abu Baker Yunes Jaber, il comandante Khuildi Hamidi e il generale Mustapha Kharrubi. Tutti e tre sono confinati in incarichi marginali. Progressivamente, i figli di Gheddafi hanno sostituito i collaboratori del padre. Così, il ministro della difesa, Yunes Jaber – che oggi si è unito agli insorti –, comandava solo unità marginali, mentre le forze meglio armate sono sotto la direzione di quattro dei figli di Gheddafi: Saadi, Moatissim, Mohammed e Khamis. Dopo il fallimento dell’«apertura», nell’ottobre 2010, il colonnello Gheddafi ha sorpreso tutti nominando il figlio Saif Al-Islam «coordinatore dei poteri popolari» – funzione che ne fa un capo di stato virtuale in quanto dirige le principali istanze del potere: il Congresso popolare generale (Parlamento), il Comitato popolare generale (governo) e le forze di sicurezza. La decisione ha coinciso con la demolizione, nell’aprile 2010, del complesso carcerario di Abu Salim, alla periferia di Tripoli. Lo scopo era quello di cancellare ogni traccia del massacro avvenuto nel 1996, quando, secondo le organizzazioni non governative (Ong), vi sarebbero stati assassinati milleduecento detenuti politici. Demolendolo, si faceva fallire ogni possibilità di inchiesta su questo crimine. In un clima politico così soffocante, la semplice idea di organizzare una manifestazione pacifica esponeva il suo autore a pesanti pene detentive. Il militante politico Jamel Al-Hajji e il suo compagno Frej Humid sono stati condannati dal tribunale di sicurezza dello stato rispettivamente a dodici e quindici anni di carcere per avere pianificato, con altri dieci accusati, una manifestazione pacifica a Tripoli, nel febbraio 2007, per commemorare la morte di alcuni manifestanti avvenuta un anno prima a Bengasi nel corso di violenti scontri con le forze di sicurezza. Lo stesso tribunale, nel 2007, aveva condannato a venticinque anni di carcere anche l’oppositore Idriss Bufayed, accusato di complotto contro il potere e spionaggio a favore di un paese straniero, per avere contattato un diplomatico americano accreditato a Tripoli. Esasperate dai soprusi e dall’assenza di libertà, le élite cominciano ad alzare la voce e a criticare apertamente il dittatore, i suoi sbirri e il controllo da parte del potere. Durante una conferenza tenuta nell’agosto 2010, a Bengasi, sul tema «La tribù e il tribalismo in Libia», Amel Laabidi, professoressa del dipartimento di scienze politiche all’università Gar Yunis (Tripoli), ha criticato il peso dell’appartenenza tribale in campo politico. Come testimonia la creazione, all’inizio degli anni ’90, della «direzione popolare sociale», con il compito di erigere la tribù a istituzione ufficiale e farne un partner politico. In assenza di istituzioni statali, l’arroccamento tribale ha provocato fenomeni di corruzione, mancato rispetto della legge e costituisce una minaccia per la sicurezza del paese. Il fermento della società civile annuncia la ribellione Da parte sua, l’ex presidente dell’ordine degli avvocati, Mohamed Ibrahim Al-Allagui, nel settembre 2010 ha criticato il potere assoluto in mano ai comitati popolari, auspicando la loro sottomissione alla legge e la realizzazione di un vero pluralismo politico. Nello stesso periodo, ha attaccato in pubblico il segretario incaricato delle questioni riguardanti le unioni, i sindacati e le leghe professionali al Congresso, Mohamed Jibril (vero ministro dell’interno), accusandolo di influenzare i risultati delle elezioni agli uffici delle associazioni civili. Lo stesso Jibril, la scorsa estate, ha proibito al sindacato degli avvocati di Bengasi di tenere l’assemblea ordinaria, che avrebbe dovuto rinnovare il consiglio dell’ordine degli avvocati, il cui mandato era scaduto da un anno. In un articolo comparso il 10 settembre 2010 sul quotidiano Oya, Ezzat Kamel Al-Makhur, figlia dell’ex ministro degli affari esteri, ha difeso il diritto dei cittadini di creare sindacati indipendenti. Ha criticato la legge del 2001 sulle associazioni civili, che le sottrae al controllo dei giudici per porle sotto la vigilanza del potere esecutivo, giudicandola «poco rispettosa dei diritti umani» e «più severa e dissuasiva delle precedenti». Di fronte a tanto fermento critico, il potere a volte è diviso, a volte, soprattutto se sono in gioco i suoi interessi, si mostra unito. L’aggressione contro il giornalista Mohamed Larbi Essarit, avvenuta a Bengasi a fine settembre 2010, ne è una prova. Noto per i suoi scritti critici, è stato gravemente ferito e quindi ricoverato, ma, nonostante il suo stato, la polizia lo ha portato via per interrogarlo. La Fondazione Gheddafi Internazionale per la Carità e lo Sviluppo, diretta da Saif Al-Islam, tramite la sua associazione per i diritti umani, si è affrettata a negare qualsiasi responsabilità da parte delle forze di sicurezza in questa vicenda. L’autismo del potere, l’appropriazione da parte della famiglia Gheddafi di tutti i centri decisionali e i posti strategici nell’istituzione militare, il ferreo controllo sulla popolazione e il bavaglio imposto alla stampa hanno chiuso la porta a qualsiasi cambiamento pacifico e spinto il popolo all’insurrezione. note: * Giornalista di Al Jazeera, responsabile del Maghreb. (1) Leggere Helen De Guerlache, «La Libia riapre le frontiere del mondo», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2006. (2) Cfr. «Mu’ammar Kadhafi», Encyclopædia Universalis, Parigi. (Traduzione di G. P.)
Le molteplici trappole della guerra umanitaria Da vari mesi, le rivolte arabe rimescolanole carte politiche, diplomatiche e ideologiche nella regione Una dinamica che la repressione in Libia metteva a repentaglio. Ora la guerra occidentale autorizzata dalle Nazioni unite ha introdotto in questo paesaggio un dato dalle conseguenzeimprevedibili.
di Serge Halimi Anche un orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno. Il fatto che il Consiglio di Sicurezza abbia preso una risoluzione per autorizzare il ricorso alla forza contro il regime libico su iniziativa degli Stati uniti, della Francia e del Regno unito non è un motivo sufficiente per ricusarlo a priori. Può accadere che un movimento di ribellione disarmato, confrontato con un regime del terrore, sia ridotto a rivolgersi a una polizia internazionale poco raccomandabile. Concentrato sul proprio dramma, non rifiuterà il suo soccorso solo perché non ha risposto agli appelli di altre vittime – ad esempio i palestinesi. E dimenticherà anche la sua reputazione, che non è quella un’associazione di solidarietà, bensì piuttosto di una forza di repressione. Ma ciò che logicamente è servito da bussola gli insorti libici, in una situazione di pericolo estremo, non basta a legittimare questa nuova guerra delle potenze occidentali in terra araba. L’intervento di paesi membri dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), sia pure in funzione di un fine auspicabile (la caduta di Muammar Gheddafi) costituisce un mezzo irricevibile. Se la sua pertinenza è apparsa evidente nel momento in cui si ingiungeva a ciascuno di «scegliere» tra i bombardamenti occidentali e il massacro dei libici in rivolta, è soltanto perché si erano scartate altre possibili vie: ad esempio l’intervento al loro fianco di una forza egiziana o panaraba, sotto l’egida dell’Onu. Un bilancio degli interventi attuati finora dagli eserciti non consente in alcun modo di dar credito ai motivi generosi addotti in questa occasione. Chi mai può credere che un qualsivoglia stato spenda le proprie risorse e impegni le proprie forze armate per il conseguimento di obiettivi democratici? Peraltro, la storia recente ci ricorda anche troppo che se le guerre lanciate con questo pretesto raggiungono in un primo tempo successi folgoranti – oltre che ampiamente mediatizzati – le tappe successive sono assai più caotiche e condotte in sordina. In Somalia, in Afghanistan e in Iraq i combattimenti non sono mai cessati, benché Mogadiscio, Kabul e Baghdad siano «cadute» ormai da anni. Gli insorti libici non avrebbero chiesto di meglio che rovesciare da soli un potere dispotico, sull’esempio dei loro vicini egiziani e tunisini. L’intervento militare franco-anglo-americano minaccia di renderli debitori nei riguardi di potenze che non si sono mai preoccupate della loro libertà. Ma il primo responsabile di questa eccezione regionale è innanzitutto lo stesso Gheddafi: senza la furia repressiva del suo regime, passato nell’arco di quarant’anni dalla dittatura anti-imperialista al dispotismo filo-occidentale, senza le sue filippiche che bollano tutti gli oppositori come «agenti di al Qaeda» o «ratti assoldati dai servizi segreti stranieri», la sorte della sollevazione in Libia non sarebbe stata affidata ad altri che al suo popolo. Anche se servirà forse a impedire che una rivolta inficiata dalla penuria di mezzi militari venga soffocata nel sangue, la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza che autorizza i bombardamenti sulla Libia assomiglia molto a un ballo degli ipocriti. Se i bombardamenti hanno colpito le truppe di Gheddafi, non è perché quel dittatore fosse il peggiore e il più sanguinario di tutti, ma perché era più debole di altri, non dotato di armi nucleari e senza amici potenti in grado di proteggerlo da un attacco militare, o di difenderlo al Consiglio di Sicurezza. La decisione dell’intervento conferma che il diritto internazionale non si fonda su principi chiari, corredati da sanzioni applicabili ovunque in caso di violazione. Nel campo della diplomazia – un po’ come in quello della finanza e del riciclaggio di denaro sporco – basta un minuto di virtù per cancellare decenni di turpitudini. Ecco che dopo aver ricevuto il dittatore libico nel 2007, quando la natura del suo regime era nota a tutti, il presidente francese fa bombardare il suo ex partner d’affari. Detto questo, saremo comunque grati a Nicolas Sarkozy di non aver proposto a Gheddafi il «savoir faire» delle forze di sicurezza francesi, offerto nel gennaio scorso al presidente tunisino Zine El-Abidine Ben Ali. Dal canto suo Silvio Berlusconi, «amico intimo» della Guida dei libici, che lo ha visitato undici volte a Roma, si è accodato, benché a malincuore, alla coalizione virtuosa. Le forze progressiste del mondo intero si dividono sulla questione libica Anche se ai suoi vertici siede una maggioranza di gerontocrati contestati dalla marea montante della democrazia, la Lega araba si affianca al movimento dell’Onu, per poi fingersi costernata non appena partono i primi missili americani. Russia e Cina avevano il potere di opporsi alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza, o di emendarla per ridurne la portata e i rischi di escalation. Bastava che lo avessero fatto per non dover poi «deplorare» l’uso della forza. Infine, per dare tutta intera la misura della coerenza e della rettitudine della «comunità internazionale» in questa vicenda, va rilevato che nella risoluzione 1973 si accusa la Libia di «detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate, torture, esecuzioni sommarie»: tutte cose ovviamente mai viste né sentite in luoghi come Guantanamo, la Cecenia o la Cina. La «protezione dei civili» non è semplicemente un’esigenza irrecusabile, ma impone anche, in periodi di conflitto armato, il bombardamento di obiettivi militari, cioè di soldati (che spesso sono civili ai quali si è chiesto di indossare un’uniformeÂ…) a loro volta frammisti alla popolazione inerme. D’altra parte, controllare una «no fly zone» significa correre il rischio che gli aerei inviati a pattugliarla siano abbattuti e i loro piloti catturati, il che giustificherebbe la decisione di inviare truppe di terra a liberarli (1). Per quanto si voglia giocare col vocabolario, gli eufemismi a lungo andare non bastano per mascherare la guerra. Ora, in ultima analisi, una guerra appartiene a chi l’ha decisa e a chi la combatte, non a chi la raccomanda, sperando che si risolva in una scampagnata. Pianificare a tavolino, nel salotto di casa propria, una guerra impeccabile, esente dall’odio e senza sbavature può essere un esercizio affascinante; ma la forza militare incaricata di metterla in atto si muoverà in funzione delle proprie inclinazioni, dei propri metodi e delle proprie esigenze. In altri termini, i cadaveri dei soldati libici mitragliati durante la ritirata vanno ascritti alla risoluzione 1973 delle Nazioni unite, allo stesso titolo dell’esultanza delle folle di Bengasi. Le forze progressiste del mondo intero si dividono sulla questione libica: mentre gli uni insistono sulla solidarietà con un popolo oppresso, gli altri pongono l’accento sull’opposizione a una guerra occidentale. Questi criteri di giudizio sono entrambi necessari, ma non si può sempre pretendere di vederli soddisfatti simultaneamente. Al momento di scegliere, resta da vedere fin dove si può lasciare che un popolo soffra ogni giorno in nome di un label «anti-imperialista» ottenuto nell’arena internazionale. Nel caso della Libia, il silenzio di vari governi di sinistra latinoamericani (Venezuela, Cuba, Nicaragua, Bolivia) sulla repressione ordinata da Gheddafi è sconcertante, soprattutto considerando che il suo anti-occidentalismo è di pura facciata. Il dittatore libico denuncia un «complotto imperialista» ai suoi danni, al tempo stesso si rivolge alle ex potenze coloniali assicurando: «Condividiamo tutti la stessa lotta contro il terrorismo: i nostri servizi di intelligence cooperano. In questi ultimi anni vi abbiamo aiutato molto (2)». Sulla falsariga di Hugo Chávez, Daniel Ortega e Fidel Castro, Gheddafi sostiene che l’attacco di cui è oggetto si spiega con la volontà di «controllare il petrolio» – il quale però è già sfruttato dalle compagnie americane Occidental Petroleum (Oxy), dalla britannica BP e dall’italiana Eni (leggere in proposito l’articolo di Jean-Pierre Séréni alle pagine 1213). non più di qualche settimana fa, il Fondo monetario internazionale (Fmi) salutava peraltro «la grande performance macro-economica della Libia e i suoi progressi nel rafforzamento del ruolo del settore privato (3)». Anche Ben Ali, amico di Gheddafi, aveva ricevuto complimenti dello stesso tipo nel novembre 2008, serviti personalmente dal direttore generale del Fmi Dominique Strauss-Kahn, arrivato di fresco da… Tripoli (4). L’antica patina rivoluzionaria e anti-imperialista di Gheddafi, restaurata a Caracas e all’Avana, dev’essere sfuggita anche ad Anthony Giddens, teorico della «terza via» blairista. Fu lui ad annunciare, nel 2007, che in un futuro prossimo la Libia si sarebbe trasformata in una «Norvegia del Nordafrica, prospera, egualitaria, tesa al futuro (5)». Come si vede, Gheddafi è riuscito a gettare polvere negli occhi alle persone più diverse: a fronte di un elenco tanto eclettico, come continuare a considerarlo semplicemente un pazzo? L’abbaglio preso dai governi di sinistra latinoamericani si spiega in vari modi. Hanno voluto vedere in Gheddafi il nemico del loro nemico (gli Stati uniti) – anche se ciò non poteva bastare a fare di lui un loro amico. La loro scarsa conoscenza della situazione nell’Africa del Nord – Hugo Chávez ha detto di aver ricevuto dallo stesso Gheddafi le sue informazioni sulla Tunisia – li ha poi indotti a contrapporsi alla «colossale campagna di menzogne orchestrata dai media» (dixit Fidel Castro). Anche perché la vicenda li riportava ai loro personali ricordi, la cui pertinenza era però discutibile nel caso di specie. «Non so perché – ha dichiarato ad esempio il presidente venezuelano a proposito della Libia – ciò che è accaduto laggiù mi fa pensare a Hugo Chávez l’11 aprile». Quel giorno del 2002 si era tentato di rovesciarlo con un colpo di stato sostenuto dai media, con l’uso di informazioni manipolate. L’antica patina rivoluzionaria di Gheddafi ha ingannato la sinistra latinoamericana Altri fattori hanno contribuito a un’analisi errata della situazione libica: una griglia di lettura costruita in decenni di interventi armati e di atti di tracotanza Usa in America latina; l’aiuto offerto dalla Libia per consentire al Venezuela di prendere piede in Africa; il ruolo dei due stati in seno all’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) e ai Vertici America del Sud-Africa (Asa); e infine la mossa geopolitica di Caracas tendente a riequilibrare la propria diplomazia nel senso di un più stretto rapporto Sud-Sud. A tutto ciò va aggiunta oltre tutto la tendenza del presidente Chávez a ritenere che i legami diplomatici del suo paese comportino per lui un rapporto personale con i capi di stato: «Sono stato amico del re Fahd dell’Arabia saudita, sono amico del re Abdallah che è stato qui a Caracas (...) Amico dell’emiro del Qatar, del presidente della Siria, un amico, anche lui è venuto qui. Amico di Bouteflika (6)». Quando il regime di Gheddafi («mio amico di lunghissima data») ha ordinato la repressione del suo popolo, quest’amicizia ha pesato nel senso peggiore. In definitiva, Hugo Chávez ha perso l’occasione di presentare le rivolte del continente africano come sorelle minori dei movimenti di sinistra latinoamericani che ben conosce. Al di là di questi fraintendimenti, in tutti i paesi la diplomazia rappresenta indubbiamente il campo ove emergono con maggior chiarezza le pecche di un esercizio solitario del potere, fatto di decisioni opache, al di fuori di ogni controllo parlamentare o deliberazione popolare. Quando poi, come nel caso del Consiglio di Sicurezza, la diplomazia presume di difendere la democrazia con la guerra, il contrasto è inevitabilmente eclatante. Dopo aver toccato, non senza successo, il tasto geopolitico anti- occidentale, facendo leva sull’argomento progressista della difesa delle risorse naturali, il leader libico non ha resistito a lungo alla tentazione di giocare anche la carta finale, quella dello scontro tra religioni. «Le grandi potenze cristiane – ha spiegato il 20 marzo scorso – si sono impegnate in una seconda crociata contro i popoli musulmani, e in primis quello libico, con l’obiettivo di cancellare l’islam [dalla carta geografica]». Tuttavia tredici giorni prima Gheddafi aveva comparato la propria azione repressiva a un’operazione che fece 1.400 vittime palestinesi. «A Gaza anche gli israeliani hanno dovuto ricorrere ai carri armati per combattere questo tipo di estremisti. E così è stato per noi (7)». Un’uscita che non deve aver giovato alla popolarità della Guida nel mondo arabo. Ma quest’ultimo testa-coda ha almeno un pregio: quello di ricordare la nocività politica di un’impostazione che riproduce, rovesciandola, la tematica neo-conservatrice delle crociate e degli imperi. Le sollevazioni arabe, che hanno accomunato laici e religiosi sull’uno e sull’altro fronte, riusciranno forse a farla finita una volta per tutte con un discorso che si proclama anti-imperialista, mentre è soltanto anti-occidentale. E confonde nella sua avversione il peggio dell’«Occidente» – la politica delle cannoniere, il disprezzo verso le popolazioni indigene, le guerre di religione – con quanto la cultura occidentale ha prodotto di meglio, dalla filosofia dei Lumi alla previdenza sociale. A soli due anni dalla rivoluzione iraniana del 1979 il pensatore radicale siriano Sadik Jalal Al-Azm aveva compilato un elenco di posizioni da ricusare: quelle di un «orientalismo alla rovescia», che rifiutando la via del nazionalismo laico e del comunismo rivoluzionario incitava a combattere l’Occidente col ritorno all’autenticità religiosa. Secondo i principali postulati di quest’analisi «culturalista», riassunti da Gilbert Achcar ai fini di un successivo esame critico, «il grado di emancipazione dell’Oriente non può e non deve essere misurato secondo i parametri dei valori e dei criteri “occidentali”, quali la democrazia, la laicità e la liberazione delle donne; non si può guardare all’Oriente musulmano con gli strumenti epistemologici delle scienze occidentali; qualunque analogia con i fenomeni occidentali non è pertinente; il fattore che muove le masse musulmane è culturale, cioè religioso, e la sua importanza supera quella dei fattori sociali ed economici che condizionano le dinamiche politiche occidentali; la sola via verso la rinascita dei paesi musulmani passa per l’islam; infine, i movimenti che brandiscono l’insegna del “ritorno all’islam” non sono di natura reazionaria o regressiva come appaiono agli occidentali, ma al contrario sono progressisti, in quanto resistono al dominio culturale dell’Occidente (8)». Questa concezione fondamentalista della politica non ha detto forse la sua ultima parola. Ma dopo l’onda d’urto in Tunisia la sua pertinenza appare intaccata dai quei popoli arabi che non vogliono essere «né contro l’Occidente, né al suo servizio (9)»; e lo dimostrano scagliandosi ora contro un alleato degli Stati uniti (l’Egitto) ora un loro avversario (la Siria). C’è dunque un movimento di popolo arabo che oggi, lungi dal vedere in concetti quali la libertà individuale, la libertà di coscienza, la democrazia politica, il sindacalismo, il femminismo soltanto priorità «occidentali» truccate da universalismo emancipatore, vuole appropriarsene in nome del rifiuto dell’autoritarismo, delle ingiustizie sociali, dei regimi polizieschi che infantilizzano i popoli, diretti come sono da governi gerontocratici. E questa via, che ci richiama alla mente altri grandi moti rivoluzionari, e giorno dopo giorno riesce a strappare conquiste sociali e democratiche altrove oramai desuete, la stanno percorrendo con slancio, nel momento preciso in cui l’«Occidente» sembra in bilico tra la paura del declino da un lato, e dall’altro la sua stanchezza davanti a una sistema democratico in stato di necrosi, dove i governi si succedono senza che nulla cambi, sempre al servizio dei soliti noti. Benché nulla assicuri che questo slancio, questo coraggio continueranno a fare passi avanti, gli eventi del mondo arabo ci hanno già rivelato possibilità inesplorate. Ad esempio, con l’articolo 1973 della sua risoluzione il Consiglio di Sicurezza «si dichiara deciso a vigilare affinché i beni [libici] congelati [in applicazione di una precedente risoluzione] siano posti, in una tappa ulteriore, appena possibile, a disposizione del popolo della jamahiriya araba libica e utilizzati a suo vantaggio». Sarebbe quindi possibile congelare beni finanziari e consegnarli ai cittadini di un paese! Scommettiamo che questa lezione sarà tenuta in debito conto: gli stati hanno il potere di soddisfare i popoli. Da alcuni mesi il mondo arabo ce ne ricorda un’altra, non meno universale: i popoli hanno il potere di piegare gli stati al loro volere.
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