NON TUTTE LE RIBELLIONI SONO DELLE RIVOLUZIONI
APRILE 2014 Le Monde diplomatique il manifesto
Sessant’anni di conflitti
Febbraio 1954. Nikita Kruscev annette la Crimea all’Ucraina.
Agosto 1991. Indipendenza.
Giugno 1993. Statuto speciale di autonomia per la Crimea.
21 novembre 2004. Inizio della «rivoluzione arancione», che porta alla presidenza Viktor Yushenko.
Agosto 2006. Viktor Yanukovich diventa primo ministro di Yushenko.
Febbraio 2010. Yanukovich è eletto presidente a scapito di Julija Tymošenko.
21 novembre 2013. Rifiuto dell’accordo di associazione con l’Unione europea. Inizio delle manifestazioni a Kiev.
20 febbraio. Giornata di sangue a Kiev.
21 febbraio. Firma dell’accordo tra Yanukovich, l’opposizione e i ministri europei.
22 febbraio. Fuga di Yanukovich, che grida al «colpo di stato».
23 febbraio. Il Parlamento abroga la legge sulle lingue.
27 febbraio. Alcuni miliziani, sostenuti da soldati russi senza divisa, prendono il controllo della Crimea.
16 marzo. Referendum in Crimea; il 96,7% dei voti è favorevole all’annessione alla Russia
L’Ucraina passa da un’oligarchia all’altra
Con la secessione della Crimea, il nuovo potere ucraino deve far fronte a una situazione economica, demografica e sociale disastrosa. Il sistema oligarchico messo in piedi negli ultimi vent’anni consolida la povertà, i rancori e le paure. E niente lascia pensare che verrà effettivamente rimesso in discussione.
dai nostri inviati speciali JEAN-ARNAULT DÉRENS e LAURENT GESLIN*
VICINO ALLA PIAZZA LENIN di Donec’k, il Donbass Palace è l’hotel più lussuoso dell’Ucraina orientale. Una camera costa 350 euro per notte, molto più di un salario medio mensile, in questa vetrina dell’impero di Rinat Akhmetov. L’uomo più ricco del paese è stato vicino a Viktor Yanukovich, il presidente desti-tuito, e sostiene prudentemente il potere emerso dall’insurrezione di Kiev. Oltre a quest’hotel e a diversi beni immobiliari, il miliardario possiede la squadra di calcio della città, il Shakhtar Donetsk, e soprattutto miniere, acciaierie, fabbriche. Fra i clan dell’oligarchia nazionale, le fortune più ingenti sono nate in questo bacino industriale e minerario del Don. Questi territori compresi negli oblasts (regioni) di Donec’k e di Luhans’k erano già uno dei centri industriali e minerari dell’ex Unione sovietica.
Il Donbass fornisce ancora oggi un quarto delle entrate monetarie dell’Ucraina, nonostante rimangano ufficialmente solo 95 miniere ancora in attività, contro le 230 di vent’anni fa. Nello stesso periodo, il paese ha perso sette milioni di abitanti. In seguito all’indipendenza, della fine del 1991, di fronte al caos economico e alla chiusura delle prime miniere di stato, gli uomini hanno cominciato a raschiare la terra per sopravvivere. «Qui, è sufficiente scavare un metro in profondità per trovare del carbone», spiega un vecchio minatore di Thorez, la città industriale vicina, che porta ancora il nome del vecchio dirigente comunista francese (1). Nelle gallerie artigianali, puntellate da tronchi di legno, gli incidenti sono numerosi. Spinti dalla speranza di guadagnare 200 o 300 euro al mese, i minatori accettano il rischio di scomparire nelle viscere della terra. Con l’arrivo di Yanukovich alla presidenza nel 2010, la rete dei kopanki, queste miniere illegali, si è data una struttura e un’organizzazione.
«Il carbone estratto dai kopanki veniva ceduto a basso prezzo alle miniere pubbliche, poi rivenduto da queste ultime a prezzo di mercato», racconta Anatoly Akimochin, vicepresidente del sindacato indipendente dei minatori ucraini. A questi profitti si sommavano le sovvenzioni concesse dal governo per assicurare artificialmente la solvibilità delle miniere pubbliche. «Una buona parte di queste somme spariva nelle tasche degli uomini del regime», rivela Akimochin. Stando agli esperti nazionali, il 10% del carbone prodotto dal paese negli ultimi anni proveniva da questi sfruttamenti illegali. Dietro questa rete si profila l’ombra di Alexander Yanukovich, primogenito dell’ex presidente, che si era assunto il rischio di fare concorrenza ai proprietari delle miniere private, in primo luogo ad Akhmetov.
«Una rivoluzione ? No, una semplice redistribuzione delle carte». A poche settimane dalla fuga di Yanukovich e dall’instaurazione del nuovo regime, il sociologo Vladimir Ishchenko, direttore del Centro di ricerca sulla società di Kiev, non nasconde l’amarezza. «Questo governo difende gli stessi valori del precedente: il liberismo economico e l’arricchimento personale. Non tutte le ribellioni sono rivoluzioni. È poco probabile che il movimento di Majdan promuova dei cambiamenti profondi, tali da assicurargli il titolo di rivoluzione. Il candidato più serio alle elezioni presidenziali del 25 maggio altri non è che Petro Poroshenko, il “re del cioccolato”, uno degli uomini più ricchi del paese…» Mentre i manifestanti cadevano ancora sotto i colpi delle armi da fuoco a Majdan, la piazza dell’Indipendenza, epicentro della collera popolare dal 22 novembre, nelle anticamere dei palazzi si negoziava una strana transizione con i potenti uomini d’affari che hanno preso il controllo dell’Ucraina.
Negli ultimi vent’anni, la Repubblica ha avuto una forma di sviluppo particolare, spesso definita «pluralismo oligarchico». Molti uomini d’affari, che hanno costruito immense fortune acquistando a basso prezzo le miniere o le fabbriche privatizzate dopo la fine dell’Urss, sono scesi in politica. Così, i venditori di petrolio e di gas possono diventare ministri o assumere la direzione delle grandi amministrazioni pubbliche. L’ex primo ministro Julija Tymošenko, figura di spicco della «rivoluzione arancione» del 2004, elevata dagli occidentali al rango di martire dopo la sua incarcerazione nell’agosto 2011, ha costruito la sua fortuna nell’industria del gas.
Fra gli affari e le cariche istituzionali si costruiscono carriere di rilievo. Altri potenti imprenditori si accontentano di una posizione più discreta, finanziando le campagne di uomini politici incaricati di rappresentare i loro interessi e diventandone così debitori. Questo sistema, consacrato dalla presidenza di Leonid Kučma (1994-2005), suppone una continua ricomposizione, in funzione degli interessi contrapposti di questi magnati, delle loro alleanze e delle loro rotture.
A due passi dal Donbass Palace, in cima al sontuoso palazzo che accoglie le sedi di Metinvest e di Dtek, due società di Akhmetov, svettava l’insegna luminosa di Mako, la holding registrata in Svizzera da Yanukovich figlio per esportare il carbone ucraino. Pochi giorni dopo la caduta del padre, è stata discretamente smontata, segno che l’alleanza che univa il padrone del Donbass e gli uomini del presidente aveva fatto il suo corso.
I poliziotti non sanno più a chi obbedire
DAL 2010, il presidente Yanukovich, considerato dagli anni 1990 il rappresentante politico del clan di Donec’k, aveva deciso di prendesi dei margini di autonomia rispetto al suo potente protettore. Aveva messo i suoi uomini di fiducia – i membri della sua «famiglia», come gli ucraini l’hanno presto rinominata – nei posti chiave dello Stato. Tra loro Serhiy Arbuzov, considerato il suo banchiere personale, ha preso il comando della banca centrale alla fine del 2010. Nel momento più grave della crisi, il 28 gennaio scorso, dopo le dimissioni di Mykola Azarov, è stato brevemente designato primo ministro. Il presidente ha potuto fare affidamento anche su Vitaly Zakharchenko, caro amico del figlio Alexander, nominato alla testa dell’amministrazione fiscale nel dicembre 2010 e promosso poi ministro degli esteri nel novembre 2011. Infine, dal suo arrivo al potere, ha agevolato gli affari di un altro uomo influente, Dmytro Firtash, che a suo tempo deteneva il monopolio dell’importazione del gas russo, prima di diversificare i suoi investimenti nella chimica e nel settore bancario. Zakharchenko è scappato in Russia, mentre Firtash è stato arrestato a Vienna il 13 marzo.
La «famiglia» ha inoltre favorito l’affermazione del gruppo detto dei «giovani oligarchi», di cui Serhiy Kurchenko era l’astro nascente. Questo giovanissimo (nato a Charkiv nel 1985), considerato dalla stampa la «rivelazione» del mondo degli affari nel 2012, è il proprietario della compagnia Gas Ucraina, che controllava il 18% del mercato del gas liquido, con una cifra d’affari globale di 10 miliardi di dollari. Kurchenko, nel 2012, si è concesso come regalo la raffineria di Odessa oltre alla squadra di calcio della sua città natale, il Metalist Kharkiv. Questa folgorante ascesa è strettamente legata ai rapporti che intratteneva con il figlio dell’ex procuratore generale Viktor Pshonka, altro eminente membro della «famiglia». Con l’acquisto della raffineria di Odessa, il giovane proprietario di Gas Ucraina era entrato in aperta rivalità con Igor Kolomoisky, terzo uomo più ricco del paese, molto attivo sul mercato del petrolio. «La concorrenza era falsata – spiega la giornalista Anna Babinets – perché Kurchenko aveva l’appoggio del regime».
Con la caduta della «famiglia», Kurchenko, e i Pshonka padre e figli, sono scappati in Russia. Il 2 marzo 2014, il suo rivale Kolomoisky, è stato nominato governatore dell’oblast di Dnipropetrovs’k dalle nuove autorità. Lo stesso giorno, Serhei Taruta, attore centrale del settore siderurgico, proprietario dell’Unione industriale del Donbass (Ids), veniva designato governatore dell’oblast di Donec’k. L’uomo è stato uno dei finanziatori della «rivoluzione arancione», ma si è sempre guardato dall’ostentare i propri impegni politici. «Taruta e Akhmetov non non sono mai stati amici. Ma, dopo molti conflitti, hanno stretto un accordo per il controllo della nostra regione, spiega il politologo Valentin Kokorski, professore all’università di Donec’k. È inconcepibile che Akhmetov non non abbia dato l’avvallo alla nomina del suo rivale». Tuttavia la battaglia tra i due è stata feroce e Akhmetov aumentava i propri prezzi per costringere Taruta a cedere il controllo della sua società.
Uno dei rari vantaggi del sistema oligarchico doveva essere la preservazione del paese dall’influenza dei capitali russi (2). «Tuttavia – precisa Kokorski – sarebbe illusorio immaginare un’economia ucraina, specialmente nel Donbass, svincolata dalla Russia. Tutte le nostre industrie di trasformazione sono rivolte verso quel mercato e, molto spesso, non rispettano le norme dell’Unione europea. I nostri oligarchi sanno molto bene che l’Ucraina può salvarsi solo assumendo appieno la funzione di ponte tra l’Unione europea e la Russia». La fortuna di Akhmetov, per esempio, trova le sue radici nella terra del Donbass, ma si estende fino alla Russia e a diversi paesi dell’Unione (Bulgaria, Italia, Gran Bretagna). L’oligarca oltre a possedere fabbriche ha anche un buon numero di società di comodo e di partecipazioni incrociate.
Taruta, invece, proviene dalla minoranza greca delle rive del mar d’Azov. La sua città natale, il grande porto di Mariupol’, è un bastione del gruppo Akhmetov. Quest’ultimo possiede i kombinat metallurgici Azovstal e Illitch, oltre alla fabbrica di vagoni e locomotive Azovmach, che Ceesporta pressoché tutta la produzione in Russia. Pochi giorni dopo la sua nomina, Taruta si è recato a Mariupol’ per incontrare i rappresentanti degli ambienti economici. «La riunione è stata proficua. Nessuno ha interesse alla frammentazione del paese», assicura Nikolai Tokarski, direttore dell’influente quotidiano locale Priazovskii rabochii, presente all’incontro. Il giornale appartiene alla holding Skm di Akhmetov. Tokarski è anche deputato al Parlamento dell’oblast di Donec’k dove, come «indipendente», rappresenta direttamente gli interessi degli oligarchi. Assumendosi il rischio di scontentare i propri lettori, molto sensibili al richiamo russo, il Priazovskii rabochii milita per l’«integrità territoriale» dell’Ucraina, formalizzando così l’avvicinamento di Akhmetov alle nuove autorità di Kiev.
Il governo conta sugli oligarchi per tentare di ovviare al fallimento e alla quasi scomparsa dell’apparato statale. Mettendo l’accento sui danni che subirebbero i loro interessi nel caso di un lungo conflitto, cerca soprattutto di coinvolgerli nella difesa dalla «minaccia russa». Akhmetov e Taruta sembrano ben coscienti del pericolo e hanno moltiplicato gli appelli alla calma. Dopo i violenti scontri del 13 marzo, che nel centro di Donec’k sono costati la vita a un manifestante, Akhmetov si è addirittura sbilanciato con la diffusione di un comunicato per dire che «il Donbass è una regione responsabile», in cui vive un «popolo coraggioso e operoso», che non cederà ai demoni della violenza.
«Pace alle capanne, guerra ai palazzi!»
PER TUTTO il mese di marzo, una strana battaglia ha contrapposto manifestanti pro-russi e forze dell’ordine per il controllo dei palazzi dell’amministrazione pubblica nell’Est. Occupati dai dimostranti, sono stati liberati pochi giorni dopo dalla polizia. Quando la protesta ha raggiunto la sede dell’amministrazione regionale di Luhans’k, il 9 marzo, trecento poliziotti in assetto antisommossa, invece di difendere l’edificio, ne sono usciti acclamati da una folla di duemila persone, prevalentemente donne e pensionati. Molti poliziotti mostravano un sorriso connivente verso quanti li stavano scacciando. Questo scenario si è ripetuto in altre occasioni a Donec’k. «I poliziotti non sanno più a chi obbedire. I loro capi erano al servizio delle precedenti autorità», spiega Denis Kazanski, celebre blogger di Donec’k.
Le catene di comando sono incerte a tutti i gradi delle forze di sicurezza. Le amministrazioni centrali, in cui sono stati nominati nuovi quadri, non sono diventate più efficienti: «Sulla corruzione, la procura conta sulle informazioni che noi giornalisti possiamo trasmetterle perché gli archivi sono scomparsi», spiega Babynets. Mentre l’esercito ucraino disporrebbe, secondo il presidente della Repubblica ad interim, Oleksandr Turčynov, di soli «seimila uomini in condizione di combattere», il 13 marzo, il Parlamento ha votato l’istituzione di una guardia nazionale. Questa truppa, che potrebbe accogliere i nazionalisti più radicali, come quelli del gruppo di estrema destra Pravyj sektor (3), ha poche possibilità di rispondere alle sfide della sicurezza e rischia invece di aumentare la sfiducia delle popolazioni dell’Est. Il 14 marzo, nella città di Charkiv, uno scontro tra militanti di Pravyi sektor e pro-russi è finito nel sangue.
In realtà, mentre si ha l’impressione di assistere allo smembramento dello Stato, la storia della «rivoluzione» ucraina può già considerarsi un’occasione mancata. Responsabile del Partito delle regioni nella città di Luhans’k, a una trentina di chilometri dalla frontiera russa, Alexander Tkachenko riconosce di esser rimasto scioccato, «come tutti», dalle immagini della sfarzosa villa di Yanukovich, con i suoi famosi sanitari in oro massiccio: «Da giovani, siamo cresciuti con il vecchio slogan “Pace alle capanne, guerra ai palazzi!” – sospira. Ma la corruzione ha consumato il paese nel suo insieme».
Le popolazioni dell’Est avrebbero certamente potuto unirsi a quelle dell’Ovest in un movimento comune contro l’oligarchia e la corruzione. Ma l’esaltazione del nazionalismo ucraino ha provocato un allontanamento dei russofoni della parte orientale, mentre i sostenitori dell’ex presidente Yanucovich agitano lo spauracchio della «minaccia fascista». In poche settimane si è assistito alla manipolazione delle paure e dei sentimenti identitari, che sta conducendo il paese sull’orlo della guerra civile.
JEAN-ARNAULT DÉRENS e LAURENT GESLIN
(1) Maurice Thorez è stato segretario generale del Partito comunista francese dal 1930 al 1964.
(2) Slawomir Matuszak, «The oligarchic democracy: The influence of business groups on Ukrainian politics», Centre for Eastern Studies Varsovie, settembre 2012.
(3) Emmanuel Dreyfus, «In Ucraina, gli ultrà del nazionalismo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2014.
(Traduzione di A.C.)
I BUONI, IL BRUTO E LA CRIMEA
L’ossessione antirussa
Con l’annessione della Crimea al territorio russo, approvata il 18 marzo da Vladimir Putin, e le sanzioni decise contro il Cremlino, la crisi ucraina ha assunto le dimensioni di un terremoto geopolitico. Capire questo conflitto implica prendere in considerazione i punti di vista concorrenti di tutti gli attori. Ma, nelle cancellerie occidentali, sovente i proclami morali soppiantano l’analisi politica.
di OLIVIER ZAJEC *
IN QUESTE ultime settimane, il modo di trattare le vicende ucraine da parte dei media lo ha confermato: per una parte della diplomazia occidentale, le crisi non tradiscono più un’asimmetria fra interessi e percezioni da parte di attori dotati di ragione, ma sono scontri finali fra il bene e il Male, nei quali si gioca il senso della storia. La Russia si presta a meraviglia a questa rappresentazione, che ha il merito della semplicità. Per molti commentatori, quello Stato barbaro governato dai cosacchi ha le sembianze di un altrove semi-mongolo retto dagli epigoni del Kgb, che ordiscono oscuri complotti al servizio di zar nevrotici i quali sguazzano nelle gelide acque del calcolo egoista (1). Reclusi, tagliati fuori dalla loro epoca, questi autocrati spostano lentamente i pedoni sulle scacchiere d’avorio invece di leggere The Economist. Di tanto in tanto, affondano un sottomarino nucleare per il piacere di inquinare il mar di Barents, in attesa di provocare un referendum illegale nel loro «straniero vicino» per ricostituire l’Urss. A tentare una sintesi dei luoghi comuni apparsi sui giornali occidentali – non solo dall’inizio della crisi ucraina ma da 15 anni a questa parte –, questa Chromo folcloristica è più o meno quello che ricava il lettore normale a proposito della politica dell’attuale Federazione russa Questa percezione globalmente negativa, che degenera in caricatura, risale a una tradizione ben radicata. Essa si fonda su analisi che sottolineano la compulsione totalitaria e «menzognera» della cultura russa (2), e sulla presunta continuità fra Joseph Stalin e Vladimir Putin – tema prediletto dagli editorialisti francesi e dai think-thank conservatori statunitensi (3). Le sue origini risalgono ai racconti dei viaggiatori europei del Rinascimento, che facevano già un accostamento fra i russi «barbari» e i feroci Sciti dell’antichità (4). Gli avvenimenti di piazza Maidan a Kiev sono un esempio degli inconvenienti analitici prodotti da questa demonologia persistente. Divisa dal punto di vista linguistico e culturale fra Est e Ovest, l’Ucraina può garantire le sue attuali frontiere solo mantenendo un eterno equilibrio fra Lviv e Donetsk, simboli rispettivamente del suo polo europeo e del suo polo russo. Sposare l’uno o l’altro equivarrebbe a negare quel che la fonda, e dunque a sancire il meccanismo senza ritorno di una partizione alla cecoslovacca (5). Kiev è un’eterna fidanzata geopolitica. L’Ucraina non può «scegliere». Così, si limita a farsi regalare costosi anelli: 15 miliardi di dollari promessi dalla Russia nel dicembre 2013, e contemporaneamente 3 miliardi dall’Unione europea per accompagnare l’accordo di associazione abortito. A ogni pretendente, dà assicurazioni revocabili: gli accordi di Kharkov che, nel 2010, prolungavano fino al 2042 l’affitto della base navale di Sebastopoli alla Russia, e la concessione di terre coltivabili ai magnati dell’agricoltura europea. Riducendo questo ménage à trois geoculturale a un matrimonio forzato con Mosca, gli esperti vittime di quella che bisogna pur chiamare ossessione antirussa rivelano una grave insufficienza analitica. Mentre rimproverano a Putin di limitarsi al campo ristretto della politica di potenza, danno prova di un’emiplegia non meno condannabile, limitando il proprio orizzonte narrativo all’assorbimento liberatore dell’Ucraina nella comunità euro-atlantica. Contrariamente a quanto è stato scritto, la rottura degli equilibri interni di questa nazione fragile non si è verificata il 27 febbraio 2014, quando uomini armati hanno assunto il controllo del Parlamento e del governo della Crimea – un colpo di scena che sarebbe la risposta di Putin alla fuga del presidente ucraino Viktor Yanukovich il 22 febbraio. In realtà, il cambiamento si è verificato fra l’uno e l’altro di questi due eventi, e precisamente il 23 febbraio, con l’assurda decisione dei nuovi dirigenti ucraini di abolire lo status del russo come seconda lingua ufficiale nelle regioni dell’est del paese – un atto che il presidente a interim ha finora rifiutato di firmare. Si è mai visto un condannato allo squartamento frustare i cavalli per incitarli? Putin non poteva sognare di meglio che questa sciocchezza per avviare la sua manovra in Crimea. La rivoluzione che ha portato alla caduta di Yanukovich (eletto nel 2010), e poi all’uscita della Crimea russofona dall’orbita di Kiev è dunque solo l’ultima manifestazione in ordine di tempo della tragedia culturale consustanziale a questo Belgio d’Oriente chiamato Ucraina.
Fantasmi bipolari e romanzi di spionaggio
A DONETSK come a Sinferopoli, gli ucraini russofoni sono generalmente meno sensibili di quanto non si creda alla propaganda del grande fratello russo: decifrare con ironia fatalista è ormai quasi una seconda natura. La loro aspirazione a un vero Stato di diritto e alla fine della corruzione è la stessa di quella dei loro concittadini di Galizia. Putin lo sa. Ma sa anche che quelle popolazioni, che tengono alla propria lingua, non baratteranno Pushkin e i ricordi della «grande guerra patriottica» – il nome sovietico della seconda guerra mondiale – con un abbonamento alla La Règle du Jeu, la rivista di Bernard-Henri Lévy. Nel 2011, il 38% degli ucraini parlava russo in famiglia. La decisione azzardata e vendicativa del 23 febbraio ha di colpo reso veritiero il discorso di Mosca: per l’Est ucraino, il problema non è che il nuovo governo del paese sia arrivato al potere rovesciando un presidente eletto, ma che la sua prima decisione sia stata quella di far chinare la testa a quasi la metà dei suoi cittadini. È allora che Maidan ha perduto la Crimea: nessuno dimentica che essa fu «offerta» da Nikita Kruscev all’Ucraina nel 1954 (si legga la cronologia). Per questo, il 17 marzo, dopo il plebiscito con il quale la popolazione della Crimea ha deciso per la riunione con la Russia, Mikhail Gorbacev ha affermato: «Allora, la Crimea fu unita all’Ucraina sulla base delle leggi sovietiche (…), senza chiedere il consenso al popolo, oggi quel popolo ha deciso di correggere l’errore. Bisogna approvare, non annunciare sanzioni (6)». Queste affermazioni sono arrivate come una doccia fredda a Bruxelles, dove si stavano preparando, in coordinamento con Washington, una serie di misure di ritorsione contro Mosca (restrizione del diritto di viaggiare e congelamento dei beni per responsabili ucraini e russi). Se quel che vuole la Russia è ingiustificabile, sarebbe interessante capirne le ragioni, prima di eventualmente condannare. Tanto più che l’Ucraina potrebbe perdere altro oltre alla Crimea, se la frequentazione prolungata con la cortesissima Victoria Nuland (7) la spingesse ad aderire all’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico(Nato). Alcuni uomini forti del nuovo governo, che registra quattro ministri del partito nazionalista Svoboda (8), condividono il progetto. Sarebbe forse il caso di bandire l’espressione «guerra fredda» dagli articoli dedicati alla Russia. Storicamente inoperante, questa scorciatoia serve soprattutto a giustificare l’espressione pavloviana di fantasmi bipolari triti e ritriti. John McCain, ex candidato repubblicano alla Casa bianca e noto esperto internazionale dell’Arizona, ne ha dato un esempio significativo fustigando dalle colonne del New York Times Putin, «imperialista russo e apparatčik del Kgb» ringalluzzito dalla «debolezza» di Barack Obama. Il quale, senza dubbio troppo occupato dalla riforma della sanità in patria, non realizza che «l’aggressione in Crimea (…) rende più audaci altri aggressori, dai nazionalisti cinesi ai terroristi di al Qaeda, ai teocrati iraniani» (9). Che fare? «Dobbiamo riarmarci moralmente e intellettualmente, risponde l’ex avversario di Sarah Palin, per impedire che le tenebre del mondo di Putin si abbattano ancor di più sull’umanità.» Un discorso che, per denunciare dei teocrati, si avvale del registro teologico. A Washington e a Bruxelles, con uno stile analogo, sembra che ci si sia messi d’accordo per soffiare continuamente sul fuoco della crisi ucraina invece di spegnerlo. Lontana da questi eccessi, l’impavida Angela Merkel telefona (in russo) a Putin. Quei due non si ascoltano soltanto: si capiscono. Le loro posizioni sono su linee opposte? Lo vedono come l’occasione non per insultarsi, ma per dialogare e negoziare, su un piede di parità. A Londra, Parigi o Washington, rileggono i romanzi di spionaggio di Tom Clancy. A Berlino e Mosca, capitali «fredde» legate dall’economia, dall’energia (il 40% del gas tedesco è di origine russa) e dal ricordo dell’ordalia militare del fronte orientale, i rispettivi governi consultano le carte di una Mitteleuropa della quale solo loro, oggi, padroneggiano davvero le linee di forza. Le parole dure della cancelliera verso Mosca non le impediscono di percepire da una parte le ragioni obiettive del nervosismo di Putin e dall’altra la realtà delle sue capacità di manovra. In questo Merkel è diversa da Yanukovich, il quale non ha capito granché della psicologia del suo «protettore»: «La Russia deve agire, tuonava il 28 febbraio dal suo esilio. E, conoscendo il carattere di Vladimir Putin, mi chiedo perché egli sia così riservato e stia in silenzio.» Ecco il fondo del problema: il deposto presidente ucraino agisce e parla senza troppo informarsi, senza tener conto del lungo periodo né chiedersi che cosa pensino i cittadini del suo paese. Così arriva a tirare in ballo Putin, il cui carattere distintivo, sotto apparenze rudi, è essere capace di non spingersi troppo in là – al contrario di Ianukovich, ma anche dei sostenitori dell’espansione infinita della Nato e dell’Unione europea. Il presidente russo ha giocato la carta militare solo indirettamente, infiltrando in Crimea truppe russe senza uniforme a scopo di dissuasione, insieme alle manovre lungo la frontiera, per poi meglio spostare la controffensiva sul terreno della controversia giuridica. Con il referendum del 16 marzo, la questione del separatismo della penisola è ormai una faccenda di diritto internazionale sulla quale pesa l’ombra giurisprudenziale del Kosovo, peccato originale che pone gli occidentali di fronte alle proprie contraddizioni (10). È URGENTE calcolare gli equilibri geopolitici di lungo periodo per gestire gli «effetti di cambiamento». Detto in altro modo, si tratta di accettare di pensare alla nozione di interazione (wechselwirkung) che, secondo l’esperto di strategia Carl von Clausewitz, era alla base di tutti i duelli logici che si regolano con la forza o la minaccia del ricorso alla forza. Nella logomachia occidentale c’è un rifiuto panico delle «variabili instabili» (11) che denota una pratica della diplomazia oggi ridotta alo stato di riflesso spasmodico. La Russia giudica che nelle relazioni internazionali si stiano usando due pesi due misure. La Cina fa un’analisi simile e il 16 marzo si è astenuta, in occasione del voto al Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) di una risoluzione che condannava la politica russa in Crimea. L’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011 sarebbero l’opera altruista di potenze visionarie alle quali si potrebbe al massimo rimproverare una foga liberatrice un po’ maldestra. Al contrario, gli altri attori difenderebbero solo i propri interessi a prezzo di aggressioni riprovevoli. Per François Hollande, il referendum del 16 marzo è una «pseudo - consultazione, perché non conforme al diritto interno ucraino e al diritto internazionale» (dichiarazione del 17 marzo). Il 17 febbraio 2008, nove anni dopo un’operazione militare decisa senza l’avallo dell’Onu, il Parlamento kosovaro albanese votava l’indipendenza della provincia autonoma serba del Kosovo, contro la volontà di Belgrado, con il sostegno della Francia e degli Stati uniti. La Russia, ma anche la Spagna, hanno rifiutato – e tuttora rifiutano – di riconoscere questa stortura rispetto al diritto internazionale. Proprio come…l’Ucraina. Tre sfide prioritarie attendono gli ucraini: l’equilibrio geopolitico fra Russia ed Europa; l’eguaglianza culturale e linguistica fra cittadini dell’Est e dell’Ovest; la fine della corruzione delle élites. Che fossero «democratiche» o «pro-russe», esse hanno attinto dalle stesse casse, rivolgendosi perfino agli stessi consiglieri della comunicazione (12). Solo a questo patto diventerà «intangibile» un’integrità territoriale che, malgrado le affermazioni di diplomatici dalla memoria corta, non lo è oggi più di quella della Serbia nel 1999, della Cecoslovacchia nel 1992 e del Sudan nel 2011. La sfida ucraina non è esterna ma interna. Come ha fatto notare il sociologo Georg Simmel, «la frontiera non è un fatto spaziale che implica conseguenze sociologiche, ma un fatto sociologico che si esprime sotto forma spaziale (13)». La questione non è sapere se Putin sia la reincarnazione di Ivan il Terribile, ma se le «élite» ucraine si mostreranno all’altezza del loro compito e saranno in grado di compiere un’opera di ingegneria sociale per ristabilire l’unità in un paese plurale. Quel giorno, auspicabile, l’Ucraina meriterà davvero le sue frontiere.
OLIVIER ZAJEC
(2) Alain Besançon, Sainte Russie, Editions de Fallois, Parigi, 2014.
(3) Steven P. Bucci, Nile Gardiner, Luke Coffey, «Russia, the West, and Ukraine: Time for a strategy – not hope», Issue Brief, no° 4159, The Heritage Foundation, Washington, DC, 4 marzo 2014.
(4) Cfr. Stéphane Mund, Orbis Russiarum, Droz, Ginevra, 2003.
(5) La «rivoluzione di velluto» del 1989 portò nel 1992 alla scissione dello Stato in due entità, su base etnolinguistica.
(6) Dichiarazione all’agenzia Interfax, 17 marzo 2014.
(7) Durante una conversazione telefonica con l’ambasciatore statunitense in Ucraina resa pubblica in febbraio, la sottosegretaria al dipartimento di Stato incaricata dell’Europa ha esclamato: «L’Unione europea vada a farsi f… !»
(8) Si legga Emmanuel Dreyfus, «In Ucraina, gli ultrà del nazionalismo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2014.
(9) John McCain, «Obama has made America look weak», The New York Times, 14 marzo 2014.
(10) Si legga Jean-Arnault Dérens, «Indipendenza del Kosovo, una bomba a scoppio ritardato», Le Monde diplomatique/ilmanifesto, marzo 2007.
(11) Cfr. I lavori di Robert Kehoane sull’importanza delle percezioni nella teoria delle relazioni internazionali.
(12) Lo statunintense Paul Manafort è stato consigliere di Yanukovich dal 2004 al 2013. In precedenza aveva lavorato con Ronald Reagan, George W. Bush… e McCain. Cfr. Alexander Burns,Maggie Haberman, «Mystery man: Ukrain's Us political fixer», Politico, 5 marzo 2014, www.politico.com
(13) Cfr. Georg Simmel, «Soziologie des Raumes», in Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft, XXVII, Lipsia 1903.
(Traduzione di M.C.)