DOSSIER: BILANCIO DI UN INTERVENTO OCCIDENTALE

L’Iraq, dieci anni dopo

Se, come confermano documenti recentemente declassificati, l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati uniti aveva come obiettivo il controllo del petrolio, si può dire che essa si conclude con una bruciante sconfitta. La guerra ha inoltre causato centinaia di migliaia di vittime e destabilizzato lo stato. Dietro l’apparenza di una sorprendente normalità, a Baghdad persistono tensioni politiche e confessionali

di PETER HARLING*

 * Ricercatore, ha vissuto a Baghdad dal 1998 al 2004.

DOPO SPAVENTOSE violenze che hanno distrutto centinaia di migliaia di vite e lasciato quasi tutti con una storia tragica da raccontare, l’Iraq entra in una nuova normalità, priva tuttavia di un chiaro orientamento, tale da permettere agli iracheni di progettare un futuro. «Come raccontare gli ultimi dieci anni?, si chiede un romanziere che, appunto, ci sta provando. Il problema non è il punto di partenza, ma il punto d’arrivo. Per scrivere la storia della guerra di Algeria, si è dovuto attendere che finisse. Qui, viviamo in un continuo susseguirsi di avvenimenti di cui non si vede la fine.» La struttura stessa del libro in cantiere, di cui ogni capitolo situa il racconto in rapporto alle vicende di un anno in particolare, lo rende dipendente da un sistema politico che continua ad alimentare la suspence. Un decennio dopo l’invasione americana che ha messo fine al regno di Saddam Hussein, l’Iraq è ancora in crisi. Ma per rendersene conto, Baghdad è l’ultimo posto da visitare. Gli attentati sanguinari, senza i quali il paese cesserebbe, per così dire, di esistere per i media, sono diventati molto più rari di qualche anno fa, quando la resistenza contro l’occupazione e le milizie confessionali facevano grande uso di autobomba, kamikaze e altri ordigni di vario tipo.

Migliora la circolazione, che il proliferare di check-point e muri di cemento aveva reso un incubo. Tornano in gran numero gli iracheni che, nel 2006 in particolare, per sfuggire alle violenze si erano rifugiati in Kurdistancomunque fuori dalle frontiere. Chi aveva «collaborato» con gli Stati uniti torna a occupare il suo posto nella società. L’alto costo della vita non impedisce a schiere di nuovi beneficiari della manna petrolifera di dedicarsi a un consumismo frenetico. Così il dinamismo appare più intenso nelle vie commerciali che non dietro le quinte del mondo politico, dove personaggi di ogni tipo sembrano affrontare l’ultimo conflitto in atto con la noncuranza degli habitué.

Il primo ministro, Nouri al-Maliki, vede moltiplicarsi i detrattori man mano che si afferma come uomo forte del paese. Il braccio di ferro con la leadership curda, che controlla il nord-est del paese, sulla divisione delle rendite petrolifere e l’attribuzione dei territori contesi (1), lo ha aiutato a garantirsi il sostegno della popolazione araba, sia sciita che sunnita, presentandosi come il difensore dei suoi interessi e, più in generale, dell’integrità nazionale. Ma ha poi abusato del tema del «terrorismo» per allontanare politici come Rafi Al-Issawi, vice primo ministro sunnita di un primo ministro sciita, come vuole un sistema politico basato sulla ripartizione etno-confessionale delle cariche. Da quel momento, una vasta mobilitazione popolare ha unificato il fronte sunnita all’opposizione, mentre il moltiplicarsi delle manifestazioni ha costretto le figure politiche cooptate da Maliki a dissociarsene.

Ne deriva quasi meccanicamente una reazione identitaria sciita, in una società che vive ancora sotto lo shock delle violenze interconfessionali che l’hanno devastata, in particolare dal 2006 al 2008. Eppure, Maliki non conta solo alleati nel mondo sciita pluralista (2), poiché il suo potere personale aumenta diminuendo l’influenza dei suoi rivali, come avviene nei vasi comunicanti.

Quando gli Stati uniti fanno dell’Iraq una parodia di se stesso

IL PRIMO MINISTRO si trova così sorprendentemente isolato. Fragile di fronte ai curdi, costretto a un gioco settario, e al tempo stesso insicuro delle sue retrovie comunitarie, da cui ha cercato di prendere le distanze giocando la carta del nazionalismo. Gli restano tuttavia dei punti di forza: il controllo delle risorse statali; l’incapacità degli avversari, molto eterogenei, di accordarsi su un successore; una singolare concordanza americano-iraniana sul primato della stabilità (i primi per dimenticare le sconfitte in Iraq e i secondi per timore di aggravare le perdite in Siria); la ferrea legge dell’opportunismo cinico che struttura il sistema politico forse più di ogni altro fattore; e una grande stanchezza della popolazione che potrebbe portare al riflusso della mobilitazione.

E tuttavia, al contrario, è anche possibile che si arrivi a uno scontro, vista l’intensità delle frustrazioni nel mondo sunnita, il riemergere di polarizzazioni settarie e le carenze, tanto materiali quanto morali, di un apparato di sicurezza inadatto a strategie contro-insurrezionali e sprovvisto di legittimità nazionale. Non è da escludere uno scenario di vuoto politico in cui Maliki sarebbe paralizzato o addirittura costretto alle dimissioni senza accordo sul suo successore.

La natura del regime politico resta inoltre indefinibile. Il primo ministro agisce secondo una logica che gli avversari denunciano come autoritaria, concentrando i poteri esecutivi al punto che anche una semplice richiesta di visto può trovarsi a passare per i suoi uffici. Il suo stile virile di uomo provvidenziale si inscrive in una lunga tradizione alla quale gli iracheni restano sensibili. Sotto di lui, gli abusi contro i diritti umani ripetono una grammatica presa in prestito dall’infernale sintassi dell’ex regime. Ma, nonostante tutto, il premier si confronta con un pluralismo ormai ben saldo, che rende pressoché illusoria qualsiasi ambizione tirannica.

Al momento, il potere di Maliki si oppone all’emergere di un vero parlamentarismo, appoggiandosi piuttosto sull’ambiguïtà delle regole del gioco politico, come base di una ridistribuzione fluida delle risorse e delle alleanze in un clima di conflittualità permanente. Per l’ex vicepresidente Adel Abdel Mahdi, «non si può più immaginare un sistema in cui regni una setta, un partito, o un uomo. I sunniti ci hanno provato, e gli sciiti possono fare altrettanto, ma non funzionerà. A questo punto, non si può neppure scommettere su un sistema che si basi su una cittadinanza deconfessionalizzata. Pluralismo, decentramento, o anche federalismo sono inevitabili nella fase attuale. Ci serve quindi un sistema parlamentare. Ma oggi non siamo in alcun sistema in particolare. Le istituzioni funzionano male, e la Costituzione non è realmente applicata.»

La situazione rappresenta una delle due dimensioni condizionanti del lascito americano in Iraq. Tra un’invasione concepita come un «taglio chirurgico» esente da responsabilità connesse, e la partenza accelerata auspicata dal presidente Barack Obama allo scopo di disfarsi al più presto dei malaugurati impegni del predecessore George W. Bush, si è assistito ad alcuni anni d’ingegneria politica che meriterebbero, al massimo, l’appellativo di bricolage. Sorvoliamo sui peccati originali: criminalizzazione e smantellamento integrale delle strutture dell’ex regime, concezione settaria del sistema politico, promozione esclusiva di politici esiliati e quindi distanti dalla società, trattative segrete in vista di una Costituzione che riflette l’accordo tra sciiti e curdi a scapito dei sunniti, e moltiplicazione di elezioni che ne consacrano la marginalizzazione.

Tutti errori che lentamente avrebbero potuto essere corretti, ma gli Stati uniti hanno peccato soprattutto per omissione. Il ritiro è avvenuto, contrariamente agli obiettivi da loro stessi fissati, senza alcun accordo su tutte le questioni che assilleranno ancora a lungo l’Iraq: revisione della Costituzione, assegnazione dei territori contesi, ripartizione delle risorse, rapporti tra potere centrale e province, prerogative del primo ministro, istituzionalizzazione dei contropoteri, funzionamento interno del Parlamento, struttura dell’apparato repressivo, ecc. Tutto è ancora da negoziare e rinegoziare, di crisi politica in crisi politica. Una problematica che del resto gli interessati hanno perfettamente interiorizzata. «Le difficoltà che attraversiamo sono la normale espressione di circostanze anormali, riassume un consigliere vicino a Maliki. Proseguiamo nel processo di transizione.»

Il secondo aspetto dell’eredità americana riguarda l’architettura identitaria, deforme e incompleta, nella quale al momento gli iracheni sono invischiati. Proiettando una visione rudimentale della società, applicando agli iracheni concetti grossolani quali baathismo, «saddamismo», terrorismo, settarismo o tribalismo, e erigendo una costruzione politica fondata su questi cliché, gli Stati uniti hanno fatto dell’Iraq una parodia di se stesso (3). Il fenomeno evoca l’effetto performativo di un immaginario coloniale, benché l’invasione americana non abbia mai avuto vocazione a «colonizzare» in senso stretto.

Trattando i sunniti come se fossero tutti partigiani di Saddam, l’occupante li ha compattati contro di sé e marginalizzati nel sistema politico, spingendoli a rimpiangere un’epoca in cui al contrario anche loro avevano sofferto. Gli americani hanno voluto vedere «buoni» e «cattivi» anche tra gli sciiti, aggravando una semplice divisione di classe con l’alienarsi il movimento proletario detto «sadrista (4)», accusato a torto di appoggiare Teheran. I curdi, invece, sono apparsi come alleati naturali e questo ha rafforzato in loro desiderio di autonomia e le ambizioni sui territori contesi.

Gli iracheni restano in parte prigionieri di una loro immagine costruita negli Stati uniti, e che gli americani si sono lasciati dietro. Di fatto, le identità più esibite sono spesso caricaturali. Gli islamisti di ogni confessione proclamano la propria appartenenza specifica con lo stile di barba e capelli – barba corta o lunga, con o senza baffi, capelli rasati o no. I soldati e i poliziotti hanno acquisito dai loro «partner» una civettuola attenzione per il «look», il che, alla moda irachena, si traduce in particolare in ginocchiere portate sistematicamente alle caviglie. Quasi tutti i quartieri di Baghdad ostentano un’abbondanza di marcatori identitari – ritratti di «martiri», bandiere e graffiti – che annunciano senza possibili ambiguità il loro colore comunitario, ormai omogeneoPurtroppo, neppure le istituzioni statali sono al riparo da questo fenomeno, in un paese in cui i simboli nazionali vengono eclissati da emblemi più particolaristici. È così che le bandiere sciite sventolano sulla maggior parte dei posti di blocco della capitale.

Manifestazioni identitarie che rafforzano i preconcetti

DISCORSI SONO intrisi dello stesso esplicito settarismo, presente nella società anche prima del 2003, ma assente nello spazio pubblico. I pregiudizi reciproci si esprimono ormai apertamente. Ben lontano dagli interminabili discorsi convenzionali che si tenevano un tempo sulla fraternità nazionale, un interlocutore preso a caso ci metterà pochi minuti a gettare la maschera, accusare i manifestanti dell’ovest dell’Iraq di essere un miscuglio di baathisti, membri di al Qaeda e agenti infiltrati, e decretare che «ogni epoca ha il suo uomo, e ora tocca a noi, sciiti, regnare». Non possono certo contraddirlo le bandiere e i canti dell’opposizione, che richiamano personaggi legati al vecchio regime, a una cultura jihadista e ispirata a spirito di rivincita confessionale. Spesso, il repertorio dipende non tanto dalla professione di fede quanto dalla volontà di provocazione gratuita, ma non importa: le manifestazioni identitarie degli uni come degli altri confermano e rafforzano i preconcetti reciproci.

Eppure, in uno spazio pubblico saturo di rappresentazioni oleografiche, sono tanti i richiami agli intrecci identitari iracheni. È così per un gruppo di giovani composto da una miscellanea solidale di sunniti, sciiti e curdi, che si riunisce ogni sera affrontando conversazioni a volte settarie. Un artista fotografo che ha dovuto fuggire le violenze del 2006 e rifugiarsi in un quartiere esclusivamente sciita, resta esplicitamente più ateo che mai. Un medico sciita racconta il suo calvario nelle mani di una milizia della stessa confessione, mentre un collega sunnita ricorda i rischi che correva attraversando zone controllate da Al Qaeda. In alcuni casi, le logiche di classe sociale trascendono ancora i riflessi comunitari e, fino a oggi, la pratica dei matrimoni misti non è del tutto scomparsa.

Quale incarnazione del divario tra discorsi affabulatori e pratiche effettive, ecco un uomo d’affari di un sunnismo fanatico che pretende manifestazioni sempre più settarie e soprattutto violente, ma poi non si dà la pena di seguirle sui media … perché, in fondo, non gli interessano veramente. Le amicizie durature permettono anche confronti interessanti: un intellettuale oggi islamista moderato e sostenitore di Maliki, facendo visita a vecchi compagni pregherà, come se fosse la cosa più naturale del mondo, nella sede del Partito comunista.

Insomma, sono molti i fattori che possono intervenire per appianare le identità più radicali. Ciò che manca perché queste modulazioni si esprimano in modo più fattivo, è un po’ di tempo, di calma, di rilassatezza. Lo spettro delle «giornate nere» o degli «episodi di settarismo», cioè di una violenza spesso molto intima che gli eufemismi tentano di esorcizzare, plana sulla città. In ognuno s’iscrive una mappa dei luoghi familiari, rassicuranti, «consolidati», e zone inquietanti dove non si osa più tornare. Gli abitanti di un quartiere ormai tranquillo si stupiscono che sia considerato uno scannatoio da coloro che non ci mettono più piede, ma proiettano i loro timori su altre zone, in genere pacificate anch’esse. Distanze e rifiuti che si ripropongono a livello politico, perché sempre più raramente si va in province affiliate al campo avversario. Diffidenze che sono anche risorse e rilanci per il gioco politico che non manca di stimolare la paura dell’Altro, le reazioni identitarie e tutto un repertorio di protezione degli interessi comunitari.

In attesa di una reale normalizzazione, ancora lontana, gli iracheni si costruiscono alla meglio una loro normalità, e si orientano piuttosto bene nel dedalo di un sistema politico contorto, di una società sconvolta, di una città destrutturata e di un’economia complicata da mille e una forma di predazione. Ad esempio, la maggior parte della case si alimenta da tre fonti di elettricità – la rete governativa, poche ore al giorno, il generatore privato del quartiere, e un piccolo motore di supporto per far fronte alle numerose interruzioni di corrente – in un sistema tanto aberrante quanto perfettamente rodato. La corruzione ai check-point – la cui unica finalità, a volte, è solo finanziare il racket – è ormai parte integrante della quotidianità. In un paese abituato alle lacerazioni e alle incongruità, il vocabolario vernacolare continua ad arricchirsi di tutti i termini necessari a dar conto delle novità e ammansire l’assurdo – come la parola basica e intraducibile hawasim, derivata dalla propaganda di Saddam nel 2003, che in origine esprimeva il concetto di «carattere decisivo», ma che in seguito ha descritto i molti comportamenti delittuosi resi possibili dal disordine ambientale. Anche l’umorismo scende in campo. Ma è una creatività che non scalfisce la resistenza dei vecchi punti di riferimento ai quali gli iracheni sembrano più attaccati che mai. Gli indirizzi delle migliori pasticcerie restano gli stessi, e i caffè famosi non passano di moda. Quanto alla tradizione del pesce grigliato alla masguf, si può dire che rasenti l’ossessione.

Più sconcertante, l’atteggiamento della classe politica che si adatta alla situazione, più di quanto non provi a cambiarla. Il nuovo regime si è come infilato nei panni del vecchio. I responsabili occupano abusivamente le opulente residenze dei loro predecessori, di cui si sono appropriati all’indomani di un periodo al quale volevano porre fine. A Baghdad, in dieci anni non è stata costruita quasi nessuna infrastruttura, ad eccezione della sede del comune, della strada dell’aeroporto e qualche raccordo automobilistico. Sulle garitte destinate a proteggere i poliziotti agli incroci è stampigliato «regalo del municipio», in una logica che evoca la prodigalità (makarim) di un Saddam – sostituto personalizzato di ciò che dovrebbe attenere a una politica anonima. I salari della funzione pubblica, sempre insufficienti, spingono gli addetti a cercare redditi supplementari, legali o meno. La corruzione ad alto livello è tollerata, provata e utilizzata come mezzo di pressione alla bisogna. Arrivismo, nepotismo, incompetenza devastano le istituzioni.

«Oggi sono in molti al potere e con una fame insaziabile»

NEL CENTRO di Baghdad, il palazzo repubblicano, diventato «zona verde» quando l’occupazione americana ne fece il suo centro nevralgico, incarna i peggiori aspetti del nuovo ordine, come al tempo del vecchio regime. Immenso perimetro più o meno securizzato, si tratta soprattutto di una zona politica esclusiva, di uno spazio di privilegi, di un universo che fa il possibile per dissociarsi dal resto della società. Si è creata tutta una gamma di permessi di accesso che definiscono una nuova elite e status gerarchizzati. La chiusura dell’asse Karrada-Mansour, che attraversa la zona verde, obbliga la gente comune a giri incredibili. La riapertura richiederebbe una ristrutturazione magari fattibile, ma il punto è un’altro: la zona verde sembra essere diventata, per così dire, la prerogativa inalienabile di una casta che vuole soprattutto non dover rendere conto a nessuno.

Tutto questo ricorda ciò che per molti costituiva la realtà insopportabile del vecchio regime. Le loro critiche, del resto, ripropongono spesso le formule utilizzate in passato. Il parallelo non è tabù, neppure tra chi per niente al mondo tornerebbe indietro. Come l’uomo che affermava «ora, tocca a noi»: «Saddam era solo e sazio. Il problema è che oggi sono in molti al potere e con una fame insaziabile.»

Alla fine, sorge una domanda dolorosa: l’Iraq ha subito un nuovo decennio di sofferenze per niente? Certo, la caduta del regime era necessaria per uscire dallo stallo, e ha permesso una certa ridistribuzione delle carte. Il quartiere degli ufficiali di Yarmouk versa in stato di abbandono, mentre quello di Hay Al-Jawadein, un tempo miserabile, inaugura un asilo nido e, chi lo avrebbe creduto, un campo da tennis. Ma che prezzo da pagare per scambiare qualche palla … o anche qualche posto nell’apparato statale. Troppo spesso, emigrazione o arricchimento personale restano il solo orizzonte di una società che fatica a darsi un’ambizione collettiva. Più che colpevole di questa situazione, la nuova elite ne è il prodotto, in un paese il cui presente s’iscrive in una serie troppo lunga di rotture.

Tuttavia, i nostalgici del vecchio regime hanno la memoria corta. Non si ricordano, ad esempio, i battitori utilizzati da Uday Saddam, il figlio degenere del tiranno, per catturare, nei luoghi di villeggiatura frequentati dagli iracheni, ragazze di buona famiglia da violentare in completa impunità. Bisognava andare avanti, cosa che Saddam Hussein e il suo entourage non avevano sicuramente né i mezzi né la voglia di fare. Ancora oggi tutto si può sperare, perché tutto è da fare. Quanto meno, esistono sia il potenziale che le risorse. Il paese è ricco di petrolio, benché la corruzione faccia in modo che così non sembri; la fuga dei cervelli potrebbe un giorno invertirsi, quando l’apparato statale deciderà nuovamente di servirsi delle competenze invece di ingrassare clienti, amici e cugini. Bisogna solo uscire dal nuovo stallo di un sistema politico la cui indeterminatezza provoca una precarietà persistente

PETER HARLING

(Traduzione di G. P.)

note

  1.  Zone di popolazione mista, formata in particolare da arabi e curdi, oggetto di un larvato conflitto tra il governo di Baghdad e le autorità locali, ampiamente autonome, del Kurdistan iracheno. Le tensioni riguardano soprattutto lo statuto della città di Kirkuk e lo sfruttamento delle risorse petrolifere nei sottosuoli dei territori in questione.

  2.  Si legga «Unità di facciata degli sciiti iracheni», Le Monde Diplomatique/il manifesto, settembre 2006

  3.  Cfr. «Les dynamiques du conflit Irakien», Critique internationale, n. 34, Parigi, 2007/1.

  4. Il sadrismo è una corrente nata attorno alla figura di Mohamed Sadek Al-Sadr, leader religioso populista che negli anni ’90 si è fatto rappresentante dei gruppi sociali più sfavoriti e trascurati dall’establishment sciita. La coraggiosa opposizione al regime ha provocato il suo assassinio nel 1999. Dal 2003, uno dei suoi figli, Moqtada, cerca di rilanciare il movimento.

Contare i morti

Nel solo 2012, e malgrado il ritiro degli americani, sono stati censiti più di quattromilacinquecento morti civili iracheni. Tuttavia, il bilancio dei dieci anni di conflitto resta difficile da valutare.

Si conosce, quasi all’unità, il numero dei soldati americani caduti in Iraq tra l’inizio dell’invasione (marzo 2003) e il ritiro dei GI (fine 2011): 4.484. Il numero dei civili iracheni uccisi è invece molto incerto. Varia da poco più di centomila a un milione. L’Iraq body count project ha tentato una stima, tenendo conto solo dei morti che ha potuto documentare con precisione: come dire che si è molto al di sotto della realtà. Il bilancio oscillerebbe tra i centoquindicimila e i centotrentamila. A questo, andrebbero aggiunti ventiquattromila militari e insorti. Il 28 marzo del 2007, il quotidiano britannico The Guardian citava uno studio dell’università Johns Hopkins di Baltimora secondo cui seicentocinquantamila iracheni sarebbero morti in seguito all’intervento americano.

Una lenta agonia

Dopo le operazioni militari, continuano le morti premature (Agnès Stienne, «Irak: après les feux de la guerre, les cancers», Visions cartographiques, 5 dicembre 2012, http://blog.mondediplo.net)

.Nel 2009, i medici dell’ospedale generale di Falloujah, sgomenti per quanto constatavano col passare degli anni, inviano una lettera collettiva alle Nazioni unite per reclamare investigazioni indipendenti:«Nel settembre 2009, su centosettanta nuovi nati, il 24% è morto nella prima settimana di vita, il 75% di questi presentava gravi malformazioni». Alcuni mesi più tardi, a Falluja e a Bassora vengono condotte inchieste parziali i cui risultati saranno pubblicati nel Bulletin of Environmental Contamination and Toxicology dell’università del Michigan. Gli autori riassumono le loro osservazioni in una frase che spiega tutto: «Il tasso di cancro, leucemia e mortalità infantile osservato a Falluja è più alto di quello riscontrato a Hiroshima e Nagasaki nel 1945.» Viene ricordato che l’esposizione ai metalli tossici (i cui effetti patologici sono riconosciuti) è fonte di severe complicazioni per le donne in gravidanza e per lo sviluppo del feto. La cosa più probabile è che all’origine di queste tragedie ci siano le munizioni utilizzate per i bombardamenti nelle due città.

Legalizzazione della tortura

Nella loro inchiesta Au nom du 11 septembre... Les démocraties à l’épreuve de l’antiterrorisme (La Découverte, 2008), i ricercatori francesi Didier Bigo, Laurent Bonelli e Thomas Deltombe analizzano la questione delle libertà individuali, rimesse in discussione in nome degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Esaminano in particolare le detenzioni indefinite e l’uso della tortura.

Per quanto riguarda Guantánamo, sono spesso persone «comuni», vittime delle circostanze, che hanno pagato il prezzo delle detenzioni indefinite. Coloro che sono stati rilasciati, in maggioranza non erano combattenti legati ad Al Qaeda, ma stranieri arrestati sul posto, in Afghanistan (dove si trovavano per turismo, o per motivi matrimoniali, religiosi e, in alcuni casi, d’impegno politico), i quali sono stati venduti agli americani per riscuotere i premi. È il caso di Murat Kurnaz, un giovane tedesco di origine turca, arrestato a Peshawar (Pakistan) durante un normale controllo stradale e consegnato dalla polizia pakistana alle forze americane per la modica somma di 3.000 dollari. O ancora di Abdullah Al-Ajmi, del Kuwait, rimandato nel suo paese nel novembre 2005. Degli otto cittadini del Kuwait liberati da Guantánamo e rimpatriati, cinque sono stati assolti da tutte le accuse che pesavano su di loro.Nel gennaio 2002, il giurista americano Alan Morton Dershowitz ha tentato di giustificare la tortura «legale» facendo il caso – come prima di lui i militari francesi durante la guerra d’indipendenza algerina – del terrorista che conosce la localizzazione di una bomba prossima a esplodere e rifiuta di rivelarla. Una situazione poco realistica, ma la cui sola evocazione è servita a legittimare pratiche in cui l’informazione che si cerca di «estrarre» è «sconosciuta». A volte, non c’è neanche più l’obiettivo di conoscere, ma semplice routine.

Impunità

Si può essere assolti per l’assassinio di ventiquattro civili? Se il colpevole è un soldato americano e le vittime sono civili iracheni, è possibile (Le Monde, 27 gennaio 2012).

L’espediente giudiziario che ha consentito di sfuggire al carcere al sergente dei marines americani Frank Wuterich, accusato della morte di ventiquattro civili iracheni nel novembre 2005 a Haditha (tra cui dieci donne e bambini uccisi a bruciapelo), ha fatto inorridire l’Iraq. Dichiarandosi colpevole davanti a una corte marziale di Camp Pendleton, Wuterich rischia solo la degradazione e una pena massima di tre mesi agli arresti [alla fine, non è stato condannato ad alcuna pena detentiva]. Il presidente della commissione dei diritti umani del Parlamento iracheno, Salim Al-Joubouri, ha denunciato un «attacco alla dignità degli iracheni».

Informazione «giusta ed equilibrata»Il

Il grande canale d’informazione americano Fox News non finge obiettività. I direttori distribuiscono memorandum per spiegare come proporre l’attualità del giorno. Alcuni se ne sono andati.

 Il presidente fa quello che pochi dei suoi predecessori hanno tentato: esige che un vertice arabo si pronunci sulla questione della pace in Medio oriente. Il suo coraggio politico e la sua abilità tattica dovranno essere sottolineati nei nostri reportage del giorno (3 giugno 2003). L’incessante carneficina in Iraq, e soprattutto la morte di sette soldati americani a Sadr City, non lascia altra scelta all’esercito americano che punire i colpevoli. Quando questo avverrà, dovremo essere capaci di ricordare il contesto che ha portato alle rappresaglie (4 aprile 2004).Non cadete nella trappola di lamentare le perdite americane e chiedervi cosa stiamo a fare in Iraq. Gli Stati uniti sono in Iraq per aiutare un paese che è stato brutalizzato per trent’anni e condurlo sulla strada della democrazia. Alcuni iracheni non vogliono che questo accada. Ed è per questo che i GI muoiono. Ed è questo che dobbiamo ricordare ai nostri telespettatori (6 aprile 2004).Quando mostriamo i marines, chiamiamoli «tiratori scelti» piuttosto che snipers. Sniper ha una connotazione negativa (28 aprile 2004).

DAGLI ARCHIVI di LE MONDE DIPLOMATIQUE / FEBBRAIO 1991

Una televisione lontana dal fronte

di IGNACIO RAMONET *

* Direttore di Le Monde diplomatique dal 1990 al 2008.

 Nel febbraio 1991, Ignacio Ramonet analizzava la mistificazione del «sistema Cnn»: giornalisti lontani dal fronte che commentano un conflitto sul quale non hanno alcuna informazione di prima mano.

NEL CONFLITTO del Golfo, le manovre censorie sono di­ventate imposizioni esplicite; l’esercito francese, richia­mandosi a un’ordinanza del 1944, ha ormai proibito ufficialmen­te ai giornalisti di entrare «in contatto con la linea del fuoco». I direttori dei telegiornali dei canali francesi hanno accettato che le immagini dal fronte siano filmate da operatori dell’Ecole du cinéma et de la presse des armées (Ecpa) e supervisionate, prima della diffusione, dal Service d’information et de relations publiques des armées (Sirpa), dirette dal generale [Raymond] Germanos (1).I giornalisti americani, soggetti alle regole appena meno se­vere imposte dal Pentagono, hanno querelato il governo e di­chiarato: «Queste restrizioni equivalgono a una politica di cen­sura, la prima nella storia della guerra moderna (2).»

In realtà, non è la prima volta che vengono imposte delle limi­tazioni, ma è effettivamente la prima volta che il Pentagono le riconosce pubblicamente.

Vengono così privati delle immagini dal fronte dei canali che hanno inviato decine di giornalisti nella regione (ciascuna delle quattro grandi reti americane Abc, Cbs, Nbc e Cnn ne ha in­viati più di un centinaio spendendo, in media, quasi 5 milioni di dollari a settimana...). La guerra del Golfo resta invisibile, e i telespettatori, abituati alla frenetica copertura degli avveni­menti dell’Est, manifestano una grande delusione. Dopo i primi due giorni d’informazione «in continuo», i canali hanno dovuto constatare di non avere granché da mostrare in diretta e che il gran numero di telefonate a corrispondenti privi di informa­zioni, a loro volta costretti a guardare la Cnn per sapere cosa stesse succedendo, aveva finito con lo stancare i telespettatori penalizzando ancora di più, agli occhi dei cittadini, la figura del giornalista (3).

Il modello Cnn, che tanto affascina certi conduttori televisivi, è apparso come una mistificazione. Essere sul posto, provvisti di decine di chili di materiale elettronico, molto spesso bloc­cati in un monolocale o in una camera d’albergo, impedisce al giornalista di muoversi alla ricerca d’informazioni e lo riduce, al meglio, al ruolo di semplice testimone. Deve allora fare, e i te­lespettatori con lui, la constatazione di Fabrice a Waterloo: es­serci non basta per capire. Il reporter della Cnn John Holliman (che lavora in équipe con i due migliori giornalisti del canale, Bernie Shaw e il famoso Peter Arnett) resterà celebre per ave­re annunciato per primo, la notte del 17 [gennaio 1991], l’inizio dei bombardamenti su Baghdad. L’ha fatto al telefono, mentre guardava dalla camera d’albergo, senza sapere con precisio­ne chi bombardasse, con quali mezzi, su quali obiettivi e quale fosse la risposta degli iracheni. In breve, nessuna informazione, se non quella che avrebbe potuto dare un qualsiasi abitante di Baghdad, che fosse stato al telefono in quel momento ...

  1.  Libération, Parigi, 11 gennaio 1991, e Le Figaro, Parigi,12 gennaio 1991

  2. Le Monde, 12 gennaio 1991. Si legga anche International Herald Tribune, Neuilly-sur-Seine, 5 gennaio 1991.

  3.  Le Monde, 12 gennaio 1991.

Tratta dal Dvd – Rom Archives, 1954 – 2011, www.monde-diplomatique.fr/archives

Fallimento di una guerra per il petrolio

I responsabili americani lo hanno sostenuto a lungo: l’invasione dell’Iraq non mirava a impossessarsi del petrolio. Tuttavia, documenti recentemente declassificati raccontano un’altra storia

di JEAN-PIERRE SÉRÉNI *

* Giornalista.

 PER LA POPOLAZIONE  irachena, è un’evidenza; per i «falchi» del Pentago­no, un controsenso. La guerra in Iraq, che dal marzo 2003 ha fatto almeno seicento­cinquantamila morti, un milione ottocentomila esiliati e altrettanti profughi, è stata una guerra per il petrolio? Grazie a una serie di documen­ti americani recentemente declassificati (1), e nonostante i dinieghi di George W. Bush, del vicepresidente Richard («Dick») Cheney, del ministro della difesa Donald Rumsfeld, così come del fedele alleato Anthony Blair, primo ministro britannico al momento dell’invasione, uno storico può ormai rispondere in modo af­fermativo alla domanda. Nel gennaio 2001, quando arriva alla Casa bianca, Bush deve affrontare un problema già presente: il divario tra la domanda di petrolio, che cresce rapidamente a causa dell’aumentata richiesta dei grandi paesi emergenti come Cina o India, e un’offerta insufficiente. L’unica solu­zione possibile va cercata nel Golfo, dove si tro­va il 60% delle riserve mondiali, con tre giganti, Arabia saudita, Iran e Iraq, e altri due produtto­ri importanti, Kuwait e Emirati arabi uniti

.Nessun dipendente di Exxon è pronto a «farsi ammazzare per un pozzo»

PER RAGIONI sia finanziarie che politi­che, la produzione ristagna. Nella penisola araba, le tre ricchissime famiglie regnanti, gli Al-Saud, gli Al-Sabah e gli Al-Nahyan, si ac­contentano del livello molto confortevole (tenu­to conto della scarsità della popolazione) degli incassi, e preferiscono conservare il greggio sotto terra. L’Iran e l’Iraq, che insieme dispon­gono di quasi un quarto delle riserve mondiali di idrocarburi, potrebbero colmare la differen­za tra domanda e offerta, ma sono soggetti a sanzioni – unicamente americane per Tehran, internazionali per Baghdad – che li privano delle attrezzature e dei servizi petroliferi indi­spensabili. E Washington, che li classifica tra gli «stati canaglia» (rogue state), si rifiuta di abrogarle.Ma allora, come aumentare il petrolio estrat­to dal Golfo senza mettere in pericolo la su­premazia americana nella regione? I neocon­servatori – in origine, intellettuali democratici convertiti a un imperialismo disinibito dopo la caduta dell’Unione sovietica – credono di aver trovato la soluzione. Non hanno mai accettato la decisione del presidente George Bush senior, nel 1991, al momento della prima guerra del Golfo, di non rovesciare Saddam Hussein. In una lettera aperta al presidente William Clinton che si richiama al loro «Progetto per un nuovo secolo americano» (Pnac), prevedono fin dal 1998 un cambiamento di regime in Iraq. La linea dei neoconservatori è semplice: bisogna fare uscire con la forza Saddam da Baghdad e fare entrare le major americane in Iraq. Diver­si firmatari del Pnac si ritrovano, a partire dal 2001, nelle équipe della nuova amministrazione repubblicana.L’anno successivo, è uno di loro, Douglas Feith, giurista di professione e secondo di Rumsfeld al ministero della difesa, a sovrinten­dere il lavoro degli esperti sul futuro dell’indu­stria petrolifera irachena. La sua prima decisio­ne è di affidarne la gestione, dopo la vittoria, a Kellog Brown & Root (Kbr), una filiale del gruppo petrolifero americano Halliburton che Cheney ha diretto per molti anni. Il programma prevede di mantenere la produzione irachena al livello dell’inizio del 2003 (2,84 milioni di bari­li/giorno) per evitare un crollo che turberebbe il mercato mondiale.L’altra grande questione che divide gli specia­listi riguarda la privatizzazione del petrolio ira­cheno. Dal 1972, le compagnie straniere sono escluse da un settore che gli iracheni gestiscono con successo. Nonostante due guerre – con l’I­ran (1980-1988) e contro il Kuwait (1990-1991) – e più di quindici anni di sanzioni, nel 2003 hanno toccato un livello di produzione pari a quello del 1979-1980, quando fu raggiunto il re­cord, ma in un contesto normale e pacifico.Due le possibili opzioni per i decisori di Wa­shington e Londra: ritornare di fatto al regime delle concessioni in vigore prima della naziona­lizzazione del 1972, o vendere le azioni dell’I­raki National Oil Company (Inoc) sul modello russo, dando alla popolazione dei buoni (vou­chers) cedibili. In Russia, questo sistema ha portato molto rapidamente alla vendita all’asta degli idrocarburi della Federazione, a vantag­gio di una manciata di oligarchi diventati ric­chissimi dall’oggi al domani. Il piano messo a punto dal Pentagono e dal dipartimento di stato viene approvato dal pre­sidente Bush nel gennaio 2003. Un vecchio generale, coperto di medaglie ma abbastan­za superato, Jay Garner, assume il controllo dell’amministrazione militare (Ufficio per la ricostruzione e l’assistenza umanitaria) incari­cata di governare l’Iraq del dopo Saddam. Si at­tiene a misure di breve termine, senza decidere tra le opzioni proposte dai tecnici. Nel frattempo, le grandi compagnie inter­nazionali non restano inattive. Lee Raymond, presidente di ExxonMobil, la più grande società petrolifera americana, è amico di lunga data di Cheney. Ma, all’audacia dei politici, oppone la prudenza degli industriali. Certo, il progetto è allettante e offre l’occasione di aumentare le ri­serve di Exxon, stagnanti da diversi anni. E tut­tavia un dubbio aleggia su tutta la faccenda: il presidente Bush è capace di creare le condizio­ni che permettano a Exxon di istallarsi in Iraq in tutta sicurezza? Nessuno all’interno della compagnia è pronto «a farsi ammazzare per un pozzo». Gli ingegneri di Exxon sono molto ben pagati e sognano un lussuoso pensionamento al sole della Florida o della California, non certo una casamatta in Iraq. La sicurezza deve essere anche giuridica: cosa valgono contratti firmati da un’autorità di fatto, quando si investono mi­liardi di dollari il cui ammortamento richiede anni? Di conseguenza, Exxon mantiene una prudente distanza. A Londra, la Bp (ex British Petroleum) si preoccupa della quota che le sarà riservata. Fin dall’ottobre 2002, i suoi rappresentanti comuni­cano al ministero del commercio il loro timore che la Casa bianca conceda troppi vantaggi alle compagnie petrolifere francesi, russe e cinesi, in cambio della rinuncia dei rispettivi governi a far uso del diritto di veto al Consiglio di si­curezza delle Nazioni unite. «Total ci sorpasse­rebbe!», protesta il rappresentante di Bp (2). Nel febbraio 2003, sono preoccupazioni ormai su­perate: il presidente Jacques Chirac pone il veto alla risoluzione sostenuta dall’amministrazione americana, e la terza guerra d’Iraq si farà senza la copertura delle Nazioni unite. Non si pone più il problema di rispettare gli accordi firmati da Saddam con Total e altre compagnie, accordi che non hanno avuto concreta attuazione a cau­sa delle sanzioni, ma i cui piani erano pronti. Per rassicurare le compagnie anglosassoni, alla vigilia dell’invasione il governo americano nomina due loro membri a seguire il dossier: Gary Vogler (ExxonMobil) e Philip J. Carrol (Shell). Nell’ottobre 2003 saranno sostituiti da altri due professionisti: Rob McKee (Conoco­Philips) e Terry Adams (Bp). Si tratta di con­trobilanciare il predominio del Pentagono e, per suo tramite, dei neoconservatori, che hanno piazzato loro uomini in tutti i posti o quasi, ma che sono contestati all’interno stesso dell’am­ministrazione. Il che non aiuterà a chiarire le ambizioni americane, che oscilleranno costan­temente tra due poli. Da una parte, gli ideologi moltiplicano le idee fantasiose: vogliono co­struire un oleodotto per convogliare il greggio iracheno verso Israele, smantellare l’Organiz­zazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), o ancora fare dell’Iraq «liberato» il banco di prova di un nuovo modello petrolifero destinato ad essere poi applicato in tutto il Medioriente. Dall’altra parte, gli ingegneri e gli uomini d’af­fari, alla ricerca di profitti e risultati, danno pro­va di un realismo più terra terra. Lo shock dell’invasione è devastante per l’in­dustria petrolifera irachena. Non tanto per il diluvio di bombe e missili lanciati dall’aviazio­ne americana, quanto per il saccheggio genera­lizzato di cui è vittima lo stato in tutte le sue espressioni: amministrazioni, scuole, universi­tà, archivi, biblioteche, banche, ospedali, mu­sei, imprese sono sistematicamente spogliati, svuotati, saccheggiati. Gli impianti di trivella­zione vengono smantellati per gli ipotetici pez­zi di rame in essi contenuti, non ne restano che carcasse svuotate e inutili. I saccheggi durano dieci settimane, dal 20 marzo alla fine di mag­gio del 2003. Un terzo dei danni è stato inflitto all’industria petrolifera durante i combattimen­ti, i due terzi successivamente.

«Il saccheggio è stato generalizzato, il materiale è stato rubato, gli edifici incendiati»

TUTTO SI SVOLGE sotto il naso della Task force rio (Restore Iraq Oil), inquadrata dal prestigioso US Corps of engineers (corpo degli ingegneri) e dei suoi cinquecento subappaltato­ri, peraltro preparati e allenati in particolare a proteggere le installazioni petrolifere. Solo la rapidità delle operazioni militari ha impedito ai fedeli di Saddam di far saltare i pozzi, ma, fin dall’inizio del giugno 2003, erano cominciati i sabotaggi. Unico edificio protetto, il complesso che ospita il gigantesco ministero del petrolio, dove lavorano quindicimila funzionari che controlla­no ventidue filiali. Perché difendere i giacimen­ti e il ministero, ma non lo State oil marketing organisation (Somo), che commercializza il greggio esportato, o le attrezzature? Le riserve petrolifere costituiscono per gli occupanti il solo vero tesoro dell’Iraq. Non interessano né le istallazioni né il personale. Il ministero sfugge all’incuria, in extremis, solo perché contiene i dati geologici e sismici degli ottanta giacimenti conosciuti, che racchiudono centoquindici mi­liardi di barili di greggio. Tutto il resto potrà sempre essere sostituito con attrezzature più moderne made in Usa, e utilizzando la profes­sionalità delle compagnie internazionali, che il saccheggio rende ancor più indispensabili.Thamir Abbas Ghadban, il più giovane diret­tore generale del ministero, si presenta tre gior­ni più tardi davanti all’edificio vuoto e diven­ta – in mancanza di un legittimo ministro del petrolio, dal momento che non c’è un governo iracheno – il numero due dell’istituzione, sotto l’ondivaga direzione di Michael Mobbs, altro neoconservatore che gode della fiducia del Pen­tagono. Un proconsole pretenzioso, Paul Bre­mer, che si è visto affidare i pieni poteri per un anno (maggio 2003-giugno 2004), presiede la peggiore annata che il settore petrolifero abbia conosciuto dagli inizi, settant’anni prima. La ri­duzione della produzione di un milione di barili al giorno, cioè un terzo del livello di prima della guerra, rappresenta una perdita secca di più di 13 miliardi di dollari.Le installazioni, sorvegliate da soli tremila­cinquecento vigilanti senza mezzi, sono ogget­to di sabotaggi continui (centoquaranta tra il maggio 2003 e il settembre 2004) il cui costo stimato è di 7 miliardi di dollari. «Si è trattato di un saccheggio generalizzato, il materiale è stato rubato e gli edifici spesso incendiati», ci confida Ghadban. La raffineria di Daura, vi­cino a Baghdad, veniva rifornita solo in modo intermittente a causa dei danni subiti dalle mi­gliaia di chilometri di canalizzazioni che per­corrono il territorio. «C’era una sola cosa da fare: lasciare bruciare fino all’ultimo litro il greggio contenuto nella sezione dell’oleodotto sabotata, poi riparare…» Malgrado tutto, Dau­ra continua a funzionare. Una vera prodezza, considerato che il personale non è più pagato.Il colpo più duro sarà sferrato contro il grup­po dirigente dell’industria petrolifera. Fino al 1952, praticamente tutti i quadri dell’Irak petro­leum company (Ipc) erano stranieri. Sui cantie­ri regnava un «apartheid» di fatto; ai dirigenti erano riservati le ville e i prati ben curati dei compound (gruppi di abitazioni) accuratamen­te recintati e sorvegliati, mentre la manodopera irachena viveva poco lontano in bidonville. Nel 1952, la tensione con il vicino Iran di Moham­mad Mossadegh portò l’Ipc a rivedere in parte le sue relazioni con Baghdad. Una delle clauso­le del nuovo trattato riguardava la formazione di quadri iracheni. Vent’anni dopo, i tre quarti dei circa mille posti di lavoro qualificato era­no occupati da locali, il che spiega il successo della nazionalizzazione: nel 1972, la compagnia nazionale, l’Inoc, recupera la totalità dei giaci­menti del paese. La produzione raggiungerà li­velli sconosciuti ai tempi dell’Ipc.

Sostenuto dall’opinione pubblica, il parlamento si mobilita e resiste alla privatizzazione

MAL CONSIGLIATO dal precedente del­la denazificazione della Germania dopo la sconfitta nel 1945, Washington impone una «debaathizzazione» più rigorosa della purga riservata al tempo ai dirigenti nazisti. La sem­plice appartenenza al partito unico, il Baath, al potere dal 1968 al 2003, viene sanzionata con un licenziamento, un pensionamento o peggio. Diciassette dei ventiquattro direttori generali della compagnia nazionale vengono cacciati, così come diverse centinaia di ingegneri, gli stessi che per venticinque anni avevano garan­tito la produzione in circostanze estremamente difficili. Il gruppo dei padri fondatori dell’Inoc viene liquidato dalla commissione di debaathiz­zazione diretta da esiliati quali l’attuale primo ministro Nouri El Maliki, assente dal paese da ventiquattro anni, che li sostituisce con i suoi uomini, tanto fedeli quanto incompetenti. McKee, successore di Carrol nel posto chiave di consigliere petrolifero del proconsole ameri­cano constata al suo arrivo, nell’autunno 2003: «Le persone in carica sono delle nullità e sono state nominate dal ministero per motivi religio­si, politici o di cricca. Quelli che hanno fatto funzionare l’industria petrolifera sotto Saddam Hussein, e che l’hanno poi riportata in vita dopo la liberazione del paese, sono stati siste­maticamente allontanati (3)Non sorprende che l’epurazione apra una via privilegiata a consiglieri di ogni genere, arrivati essenzialmente da oltre Atlantico. Si imposses­sano delle direzioni del ministero del petrolio e moltiplicano note, circolari e rapporti ispirati direttamente al modo di lavorare dell’industria petrolifera internazionale, senza preoccuparsi troppo della loro applicazione sul campo... La redazione di due testi fondamentali, la nuova Costituzione e la legge petrolifera, darà loro l’occasione insperata di sconvolgere le re­gole del gioco. La sopravvivenza di uno stato centralizzato è condannata a priori: Washing­ton è contraria, in nome della lotta contro il totalitarismo e dei crimini perpetuati contro i curdi al tempo di Saddam. Il nuovo regime, fe­derale o anche confederale, sarà quindi decen­trato al punto da esserne destrutturato. Basta ottenere due terzi dei voti in una delle tre pro­vince del paese per esercitare il diritto di veto sulle decisioni del governo centrale. Ma solo il Kurdistan ne ha i mezzi e la volon­tà. Il potere in materia petrolifera sarà di fatto diviso tra Baghdad e Erbil, sede del governo regionale del Kurdistan (Kurdistan regional government, Krg), che impone la «sua» lettu­ra della Costituzione in materia: i giacimenti in corso di sfruttamento resteranno sotto il con­trollo del governo federale, ma la concessione di nuovi permessi diventa di competenza delle province. Una forte chicaya (contesa) si svilup­pa tra le due capitali, tanto più che il Krg offre alle compagnie straniere condizioni molto più favorevoli di Baghdad: le major che investi­ranno sul suolo curdo godranno di un diritto su una parte della produzione che potrà essere molto rilevante nei primi anni di sfruttamento. È la formula che gli americani, sia i politici che i petrolieri, volevano imporre fin dal loro arrivo. Non ci riusciranno. Sostenuto da un’opinione pubblica che non ha dimenticato il precedente dell’Ipc, il parla­mento, per altri versi tanto criticato, si oppone. Tariq Shafiq, il padre della compagnia naziona­le Inoc ha spiegato davanti al Congresso degli Stati uniti le ragioni tecniche del rifiuto (4). I giacimenti sono noti e delimitati; non c’è quin­di alcun rischio per le compagnie straniere: per definizione, i costi di prospezione non esistono, e lo sfruttamento è uno dei meno cari al mondo. A partire dal 2008, Baghdad offrirà alle major contratti di servizio molto meno interessanti: 2 dollari a barile per i giacimenti più grandi, e nessun diritto sui giacimenti stessi.Tuttavia, ExxonMobil, Bp, Shell, Total, ma anche gruppi russi, cinesi, angolani, pakistani o turchi si precipitano, nella speranza che le cose evolvano in senso positivo per loro. Il 24 maggio 2010, Newsweek titola sul «miracolo iracheno» e scrive: «Il paese ha il potenzia­le per diventare la prossima Arabia saudita.» Due anni dopo, benché la produzione aumenti (più di tre milioni di barili/giorno nel 2012), i petrolieri sono scontenti delle condizioni offer­te: gli investimenti sono pesanti, la redditività resta mediocre e i barili sotto terra non entrano nelle loro riserve private, il che deprime i corsi di Borsa.

Compagnie straniere e governo turco tentano di giocare la carta del Kurdistan

NONOSTANTE l’ordine tassativo del go­verno federale, che minaccia di far deca­dere i diritti delle compagnie che si lasciassero sedurre dai contratti di ripartizione della produ­zione del Kurdistan, ExxonMobil prima, Total poi, non se ne danno per intesi. Peggio, la com­pagnia americana risponde alla minaccia con una provocazione aggiuntiva: mette in vendita il suo contratto di servizio su West Qurna, il più grande giacimento del paese, dove doveva investire 50 miliardi di dollari raddoppiando la produzione attuale del paese. Baghdad è sotto pressione: se insiste nel rifiutare le condizioni richieste, il Kurdistan gli sarà preferito, benché le sue riserve siano un terzo di quelle del sud del paese… La Turchia, che non fa niente per migliorare i rapporti con Baghdad, promette un oleodotto diretto tra il Kurdistan e il Mediterra­neo. Ricatto? Per certi versi, forse. Ma, senza la guerra, le compagnie avrebbero avuto la possi­bilità di mettere gli iracheni in concorrenza tra loro? Comunque sia, si è lontani dagli obietti­vi che si erano fissati gli Stati uniti. Anche nel settore petrolifero, la guerra è stata per loro un enorme fallimento. Alan Greenspan, che ha diretto la Riserva federale, la banca centrale americana, dal 1987 al 2006, e che quindi ben conosce l’importan­za del petrolio nell’economia internazionale, ha forse detto la cosa più vicina alla verità su que­sta sanguinosa questione: «Mi rammarico che sia politicamente scorretto riconoscere quello che tutti sanno: uno dei grandi asset della guer­ra in Iraq era il petrolio della regione (5).»

JEAN-PIERRE SÉRÉNI

  1. (1) I documenti (libri, rapporti, ecc.) che abbiamo utilizzato sono consultabili all’indirizzo: www.monde-diplomati­que.fr/48797

  2. (2) Greg Muttitt, Fuel on the Fire. Oil and Politics in Occu­pied Iraq, Vintage Books, Londra, 2011

  3. (3) Ibidem.

  4. (4) «Reconstruction in Iraq’s oil sector: Running on emp­ty?», deposizione di Tariq Shafiq davanti alla commis­sione parlamentare americana per gli affari esteri sul Medioriente e l’Asia del sud, Washington, 18 luglio 2007.

  5. (5) Alan Greenspan, L’era della turbolenza, Sperling & Kupfer, Milano, 2007.

(Traduzione di G. P.)

Il precedente del 1991

Firmato in particolare da Alain Finkielkraut, Pierre-André Taguieff e Alain Touraine, un testo collettivo riunisce i principali argomenti di chi approvava l’intervento militare (Libération, 21 febbraio 1991).

In quanto intellettuali diciamo: la guerra condotta contro l’Iraq dalla coalizione internazionale è necessaria, è giusta, deve proseguire fino alla fine. (…) Credere che sia possibile evitare la guerra, significa cullarsi in illusioni come quelle degli accordi di Monaco; (…) il rifiuto di combattere vuol dire differire uno scontro inevitabile, per esservi costretti più tardi in condizioni peggiori. (…) Che la coalizione internazionale sia guidata dalle grandi potenze occidentali e diretta contro un paese del terzo mondo non cambia la questione. (…) Il diritto non si identifica necessariamente con quello del «povero», del «più debole». (…) L’intervento contro l’Iraq di Saddam Hussein è legale (autorizzato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu) e legittimo (destinato a liberare il Kuwait). (…) Sarebbe politicamente irresponsabile abbandonare le risorse [petrolifere della regione] nelle mani di un despota che (…) tenta di dotarsi di armi nucleari e promette di annientare Israele. (…) [L’«umiliazione» e la «disperazione delle masse arabe»] non possono giustificare questi sogni di pogrom, quest’esaltazione che li spinge ad acclamare un tiranno, purché prometta di gassare gli ebrei.

Tutti americani?

Direttore del quotidiano Libération, Serge July denuncia l’antiamericanismo di chi si oppone alla guerra (Libération, 26 marzo 2003).

Si diffonde un’isteria antiamericana che finisce per mettere sullo stesso piano Saddam e Bush, quando non inverte semplicemente i termini, cioè Bush ancor peggio di Saddam. (…) Nella globalizzazione, le sconfitte politiche americane sono sconfitte della democrazia che, in più, rafforzano i suoi avversari e in particolare tutti gli integralismi. Se domani, a seguito di una sconfitta politica, a questa America unilateralista dovesse succedere un’America isolazionista, ne rimpiangeremmo amaramente l’assenza negli scontri decisivi del mondo.

Convinzione granitica

Il catastrofico sviluppo dell’operazione americana (assenza di armi di distruzione di massa, morti civili, torture, ecc.) non modifica l’analisi degli intellettuali favorevoli alla guerra (Marianne, 17 maggio 2004).

La stragrande maggioranza degli iracheni è felice di essere stata liberata da Saddam Hussein. Ciò che accade non modifica la mia analisi. In guerra accadono sempre porcherie come queste. Bisognava essere al fianco degli americani, come in Kosovo, per influenzarli.

Bernard Kouchner

Gli europei non agiscono mai, con la deplorevole conseguenza di indurre gli americani a intervenire da soli, facendo così le stesse cose che si sono fatte nelle nostre guerre francesi, in Algeria e in Indocina.

 Jean-François Revel

Non ho mai creduto alle armi di distruzione di massa. Per me la cosa più importante era rovesciare un regime sul modello delle passate dittature fasciste europee. Il fatto che gli americani abbiano liberato l’Europa dal fascismo, rende tanto più difficile credere oggi che gli eccessi dei suoi soldati siano commessi su ordinazione.

Robert Redeker

«Un vecchio paese» si oppone al conflitto

Il 14 febbraio 2003, Dominique de Villepin, allora primo ministro francese, prende la parola al Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni unite per spiegare perché la Francia rifiuta la guerra.

Ci sono due opzioni. L’opzione della guerra può sembrare a priori la più rapida. Ma non dimentichiamo che dopo avere vinto la guerra, bisogna costruire la pace. E non nascondiamoci la verità: sarà un percorso lungo e difficile, perché bisognerà preservare l’unità dell’Iraq, ristabilire in modo duraturo la stabilità in un paese e una regione duramente colpiti dall’intrusione della forza. A fronte di questa prospettiva, c’è l’alternativa offerta dalle ispezioni, che permette di avanzare giorno dopo giorno sulla via di un disarmo efficace e pacifico dell’Iraq. A conti fatti, non è questa la scelta più sicura e più rapida? (…) Signor Presidente, a chi si domanda con angoscia quando e come cederemo alla guerra, vorrei dire che niente, in nessun momento, all’interno di questo Consiglio di sicurezza sarà dovuto a precipitazione, incomprensione, sospetto o paura.In questo tempio delle Nazioni unite, noi siamo i guardiani di un ideale, siamo i guardiani di una coscienza. La pesante responsabilità e l’immenso onore che ci competono devono indurci a dare la priorità al disarmo nella pace. Ed è un vecchio paese, la Francia, di un vecchio continente come il mio, l’Europa, che ve lo dice oggi, avendo conosciuto guerre, occupazione, barbarie. Un paese che non dimentica e sa quanto deve ai combattenti della libertà venuti dall’America e da altri luoghi. E che pure non ha cessato di restare saldo di fronte alla storia e agli uomini. Fedele ai suoi valori, vuole agire con decisione insieme a tutti i membri della comunità internazionale. Crede nella nostra capacità di costruire insieme un mondo migliore.

I lobbisti di Washington

Nelle sue memorie, l’ex presidente francese Jacques Chirac ricorda le pressioni di cui fu oggetto all’inizio delle operazioni americane (Le Temps présidentiel. Mémoires, tomo 2, in collaborazione con Jean-Luc Barré, Nil, Parigi, 2011).

Per quanto riguarda il nostro paese, la posizione da me presa e difesa costantemente dall’inizio della crisi gode di un sostegno massiccio e quasi unanime da parte del popolo francese, unito come sa esserlo nelle circostanze decisive della sua storia.

È invece da parte delle elite o presunte tali che si fanno sentire voci più discordanti. Tra alcuni diplomatici tende a diffondersi una preoccupa­zione sommessa, ma percepibile circa il rischio di un isolamento della Francia. Dal Medef [Movimento delle imprese di Francia] e da al­cuni esponenti del CAC 40 arrivano messaggi più insistenti, in cui mi si raccomanda di dare prova di maggiore flessibilità nei confronti de­gli Stati uniti, per non far perdere alle nostre imprese mercati importanti. Ricordo il barone Seillière [Ernest-Antoine Seillière, allora pre­sidente del Medef] venuto a farsi interprete delle lamentele dei suoi colleghi. Non sono da meno le correnti più atlantiste, tanto all’interno della maggioranza come dell’opposizione, che denunciano, a viso più o meno aperto, la mia ostinazione nel sembrare di voler sfidare gli americani.

(Traduzione di G. P.)

 

Nadir Dendoune e «l’occhio della verità»

IL 14 FEBBRAIO, dopo più di tre settimane di detenzione, il giornalista francese Nadir Dendoune è stato liberato su cauzione dalle autorità di Baghdad. Dendoune si trovava in Iraq con un visto da giornalista e l’accreditamento di Le Monde diplomatique. Si era già recato in quel paese nel 2003 per fare da «scudo umano» di fronte alla minaccia di guerra. Era accusato di avere scattato, senza autorizzazione, fotografie di luoghi sensibili (quale luogo in Iraq non è sensibile?). L’arresto ha provocato un’ampia mobilitazione.

Il sindacato nazionale dei giornalisti iracheni ha subito sottolineato che il caso di Dendoune riflette la dura realtà locale: «Chiediamo alle forze di sicurezza di smettere d’impe¬dire ai nostri giornalisti di lavorare, anche quando usano un apparecchio fotografico, che serve semplicemente a mostrare la vita quotidiana della gente e a fondare solide basi per la democrazia. Il giornalista serve inoltre al rispetto della legge, delle libertà. Un apparecchio fotografico non è un candelotto di dinamite o una mina artigianale, ma un’arma che serve a gridare la verità. È l’occhio della verità.»

In Francia, un comitato di sostegno per la sua liberazione organizzato dagli amici, in particolare quelli di Seine-Saint-Denis, e dalla famiglia, si è mosso con grande energia. Inoltre, un movimento animato tra l’altro da Reporters sans frontières (Rsf) ha mobilitato i colleghi di lavoro. Un appello di cinquanta giornalisti è apparso simultaneamente su tutti i quotidiani francesi. Molte radio e televisioni hanno ripreso la notizia dell’arresto e richiesto la sua liberazione. A Parigi come a Baghdad, a più riprese, le autorità ufficiali francesi han¬no espresso la loro preoccupazione.

Le Monde diplomatique si è ovviamente associato a tutte queste iniziative. Si è mosso nei confronti dell’ambasciata irachena a Parigi, delle autorità irachene, del ministero degli affari esteri e dell’’Eliseo. Dendoune ha pubblicato diversi libri, tra cui, in forma autobiografica, Lettre ouverte à un fils d’immigré (Danger public, Parigi, 2007). Ha anche realizzato un film, Palestine, proiettato per la prima volta all’Institut du monde arabe il 31 gennaio.

ALAIN GRESH

(Traduzione di G. P.)