Israele con la scusa dei tre coloni rapiti ha aperto un'altra cruenta offensiva contro i palestinesi
Autore: federica pitoni
Andiamo con
ordine e proviamo a ricapitolare alcuni ultimi fatti, che possono sembrare
slegati tra loro, ma proverò a spiegarvi perché invece tutto è collegato.
Agli inizi di questo mese, dopo una serie di difficili colloqui e un lavorio
diplomatico interno, in Palestina si è dato vita a un nuovo governo di
riconciliazione, comprendete le due fazioni palestinesi più grandi: Fatah e
Hamas. Lavorio diplomatico difficile, in quanto ormai da anni le due fazioni si
guerreggiavano, militarmente e politicamente, senza esclusione di colpi. Questo
governo dovrebbe portare a breve termine, qualche mese al massimo, a nuove
elezioni. Cosa non da poco, dato che da anni ci si trovava di fronte a una
situazione per cui Hamas di fatto impediva lo svolgersi di elezioni,
rifiutandole, e giustamente l'Anp non voleva, andando a elezioni solamente in
Cisgiordania, porre nei fatti quella impossibile e scandalosa divisione del
territorio palestinese, tanto cara al governo di Tel Aviv, ma che nessun
palestinese può accettare. E questo creava una situazione di stallo
inaccettabile ormai.
Questo nuovo governo di riconciliazione stava ridando delle pur labili speranze
al popolo palestinese, e soprattutto aveva incassato un risultato non da poco:
il riconoscimento da parte di tutte le nazioni, Stati Uniti compresi. Israele,
quindi, si era per la prima volta forse, trovato in un momento di grave
isolamento politico, con gravi difficoltà di politica interna e nudo davanti al
mondo che cominciava a vedere come la politica degli insediamenti illegali, per
esempio, aveva minato nel profondo ogni possibilità di colloqui di pace. Persino
l'amministrazione statunitense dava segni di imbarazzo per la protervia nella
politica degli insediamenti del governo Netanyahu.
C'era poi stata la visita del Papa nella regione, una visita da molti
sottovalutata, ma che ha avuto un peso politico non piccolo. Innanzitutto la
scelta del Vaticano di andare sia in Israele che in Palestina: praticamente una
dichiarazione politica. La Palestina riconosciuta ufficialmente come Stato dal
Vaticano. E poi dei segnali, apparentemente piccoli, ma di grande importanza: in
visita in Palestina, il Papa, dovendo raggiungere Betlemme per la messa, ha
fatto saltare ogni protocollo e ha voluto fare una visita al muro di divisione
israeliano. Una presa di posizione politica, se la si sa leggere: fermarsi lì,
farsi fotografe di fronte al muro simbolo dell'occupazione della Palestina, far
vedere al mondo intero quello che normalmente non viene visto, portare l'intera
stampa mondiale a dover raccontare del muro e a parlare di Palestina. Tutto il
resto del viaggio, le visite, gli incontri, fanno parte di un protocollo
strettissimo cui non ci si può sottrarre. Quel passaggio, no. Per questo anche
ha valore. Ha messo Israele di fronte alle sue responsabilità. Senza dire parole
che non avrebbe potuto pronunciare, ha trovato una modalità di condanna
dell'occupazione. Bene, questo è lo scenario in cui si trovava Israele fino a
qualche giorno fa: politicamente difficile, con un isolamento che non aveva mai
vissuto.
Cosa è accaduto poi? E' notizia questa che avete certamente letto su tutti i
giornali: tre adolescenti israeliani, tre coloni, sono scomparsi nel nulla.
Immediatamente Israele ha gridato al rapimento. Immediatamente. La cosa
singolare in questa vicenda è che tutte le notizie che si hanno in merito, anche
le presunte rivendicazioni, vengono da fonte israeliana. Infatti non ha tardato
ad arrivare una rivendicazione da parte di Hamas. O per lo meno così ci hanno
raccontato gli israeliani.
E ora la parte che meno si conosce, perché nessuno l'ha raccontata. In tutta la
Palestina si è scatenato l'inferno. Qui non si tratta di normali ricerche di
presunti rapiti, ma di deliberati atti di terrorismo. No, non parlo di guerra,
perché una guerra è dichiarata e si combatte almeno su due fronti. Qui ci
troviamo di fronte a raid, rastrellamenti, perquisizioni, devastazioni,
limitazioni di movimento, giacché le principali città e moltissimi villaggi sono
stati immediatamente dichiarati zona militare chiusa. Spostarsi in Palestina è
divenuto impossibile. E la notte si trema, perché è di notte che si scatenano
nelle loro rappresaglie.
Un po' di numeri per capire l'entità di quel che sto raccontando: dall'inizio
della campagna israeliana, neanche dieci giorni, sono stati uccisi 5 palestinesi
e ne sono stati arrestati ad oggi 529 (mentre scrivo è questa la cifra, ma
cresce sensibilmente di ora in ora, soprattutto di notte in notte): 179 a Hebron,
87 a Nablus, 75 a Betlemme, 52 a Jenin, 49 a Ramallah, 36 a Gerusalemme, 23 a
Tulkarem, 13 a Qalqilya, 7 a Tubas, 7 a Salfit e uno a Gerico. Già questi numeri
ci danno un'idea della sproporzione della reazione israeliana. E' straziante
vedere ogni giorno quel che accade: il conteggio degli arrestati, gli
assassinati (sì, assassinati, perché un ragazzino di 13 anni che stava vendendo
dolci per le strade di Hebron, o un ragazzo che si accingeva ad andare al
lavoro, o un altro ragazzo che pascolava le pecore, uccisi con colpi da distanza
ravvicinata, fanno più pensare a veri e propri omicidi che ad altro), e le foto
delle devastazioni delle case perquisite, delle città messe a ferro e fuoco, e
ancora dei funerali dove partecipano sempre migliaia di persone, e i volti delle
madri e dei figli, il dolore e la rabbia. E' difficile spiegare cosa si prova di
fronte a tutto questo. La sensazione e la paura, che tutti hanno, soprattutto in
Palestina, è che Israele, come sua consuetudine, voglia attuare di nuovo la
politica del fatto compiuto: annettersi tutta la Palestina e mettere il mondo di
fronte a questo fatto. Il pretesto? La sicurezza dei propri confini, che sempre
più si allargano.
Ecco, dietro alla vicenda dei tre coloni sionisti scomparsi (e che ci auguriamo,
ovviamente possano tornare a casa, mentre purtroppo non torneranno a casa i
palestinesi assassinati da Israele), c'è tutto questo e molto altro ancora. E
c'è il dolore e la rabbia di un popolo che lotta da più di 66 anni per veder
riconosciuti i propri diritti.