STRATEGIA SEGRETA DEL TERRORE
30 mar
2016 — Manlio Dinucci
«Il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra» (come lo definì
nel 2001 il presidente Bush) continua a mietere vittime, le ultime a Bruxelles.
È il terrorismo, un «nemico differente da quello finora affrontato», che si
rivelò in mondovisione l’11 settembre con l’immagine apocalittica delle Torri
che crollavano.
Per eliminarlo, è ancora in corso quella che Bush definì «la colossale lotta del
Bene contro il Male». Ma ogni volta che si taglia una testa dell’Idra del
terrore, se ne formano altre. Che dobbiamo fare? Anzitutto non credere a ciò che
ci hanno raccontato per quasi quindici anni.
A partire dalla versione ufficiale dell’11 settembre, crollata sotto il peso
delle prove tecnico-scientifiche, che Washington, non riuscendo a confutare,
liquida come «complottismo».
I maggiori attacchi terroristici in Occidente hanno tre connotati.
Primo, la puntualità. L’attacco dell’11 settembre avviene nel momento in cui gli
Usa hanno già deciso (come riportava il New York Times il 31 agosto 2001) di
spostare in Asia il centro focale della loro strategia per contrastare il
riavvicinamento tra Russia e Cina: nemmeno un mese dopo, il 7 ottobre 2001, con
la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden mandante dell’11 settembre,
gli Usa iniziano la guerra in Afghanistan, la prima di una nuova escalation
bellica. L’attacco terroristico a Bruxelles avviene quando Usa e Nato si
preparano a occupare la Libia, con la motivazione di eliminare l’Isis che
minaccia l’Europa.
Secondo, l’effetto terrore: la strage, le cui immagini scorrono ripetutamente
davanti ai nostri occhi, crea una vasta opinione pubblica favorevole
all’intervento armato per eliminare la minaccia. Stragi terroristiche peggiori,
come a Damasco due mesi fa, passano invece quasi inosservate.
Terzo, la firma: paradossalmente «il nemico oscuro» firma sempre gli attacchi
terroristici. Nel 2001, quando New York è ancora avvolta dal fumo delle Torri
crollate, vengono diffuse le foto e biografie dei 19 dirottatori membri di al
Qaeda, parecchi già noti all’Fbi e alla Cia. Lo stesso a Bruxelles nel 2016:
prima di identificare tutte le vittime, si identificano gli attentatori già noti
ai servizi segreti.
È possibile che i servizi segreti, a partire dalla tentacolare «comunità di
intelligence» Usa formata da 17 organizzazioni federali con agenti in tutto il
mondo, siano talmente inefficienti? O sono invece efficientissime macchine della
strategia del terrore?
La manovalanza non manca: è quella dei movimenti terroristi di marca islamica,
armati e addestrati dalla Cia e finanziati dall’Arabia Saudita, per demolire lo
Stato libico e frammentare quello siriano col sostegno della Turchia e di 5mila
foreign fighters europei affluiti in Siria con la complicità dei loro governi.
In questo grande bacino si può reclutare sia l’attentatore suicida, convinto di
immolarsi per una santa causa, sia il professionista della guerra o il piccolo
delinquente che nell’azione viene «suicidato», facendo trovare la sua carta di
identità (come nell’attacco a Charlie Hebdo) o facendo esplodere la carica prima
che si sia allontanato.
Si può anche facilitare la formazione di cellule terroristiche, che
autonomamente alimentano la strategia del terrore creando un clima da stato di
assedio, tipo quello odierno nei paesi europei della Nato, che giustifichi nuove
guerre sotto comando Usa.
Oppure si può ricorrere al falso, come le «prove» sulle armi di distruzione di
massa irachene mostrate da Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 5
febbraio 2003. Prove poi risultate false, fabbricate dalla Cia per giustificare
la «guerra preventiva» contro l’Iraq.
(il manifesto, 29 marzo 2016)