TRA RIVALITÀ TRIBALI E INTERVENTI OCCIDENTALI
Benché la fine del regime di Muammar Gheddafi confermi l’impeto delle rivolte nel mondo arabo, molto resta ancora da fare per costruire la pace. Il Consiglio nazionale di transizione, che promette elezioni, dovrà prima smontare a uno a uno i pilastri del regime e imparare a collaborare con le tribù – in particolare quelle dell’Ovest,il cui ruolo è stato decisivo per la vittoria.
di PATRICK HAIMZADEH *
* Ex diplomatico francese a Tripoli (2001-2004), autore dell’opera Au coeur de la Libyede Kadhafi, Jean-Claude Lattès, Parigi,2011.
Dopo le rivolte tunisina ed egiziana, che in poche settimane avevano provocato le dimissioni di due dittatori, molti osservatori hanno pensato che anche la rivolta libica del 17 febbraio 2011 avrebbe avuto lo stesso esito in un tempo altrettanto rapido. In effetti, all’inizio di marzo, di fronte alle immagini diffuse da tutti i canali satellitari dei ribelli della Cirenaica che si lanciavano con i loro pickup sulla strada desertica verso ovest, non si poteva che restare commossi dall’entusiasmo e dal coraggio di questi giovani combattenti che affermavano con fierezza di poter «liberare» Tripoli in due giorni.
E invece, dopo più di sei mesi di guerra civile e ottomila missioni di bombardamento dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), i fronti di Brega e Misurata si erano mossi di poco. Sul piano militare, le azioni decisive che in pochi giorni hanno portato alla caduta di Tripoli non sono state condotte dalle popolazioni dell’Est, ma principalmente da quelle di alcune città dell’Ovest guidate da una grande tribù araba delle montagne (lo djebel Nefoussa): gli Zintan.
Per capire questa guerra civile e le grandi sfide dell’era post-Gheddafi, bisogna riflettere sulle più importanti caratteristiche di un regime durato quarantadue anni. Il sistema di potere jamahiriano – da Jamahiriya, «stato delle masse» – basava la propria legittimità su tre pilastri: rivoluzionario, militare e tribale. Tre cardini che ne hanno garantito la longevità, ma che hanno continuato a funzionare, anche se con difficoltà, negli ultimi sei mesi.
Tre fonti di legittimità
Primo pilastro: i comitati rivoluzionari, per certi aspetti simili ai partiti Baath dell’Iraq di Saddam Hussein e della Siria degli Al-Assad. Presenti all’interno delle strutture statali e delle grandi imprese, dovevano essere i garanti della dottrina jamahiriana e della mobilitazione delle masse sul modello delle Guardie rosse cinesi o dei Guardiani della rivoluzione iraniana. I membri dei trentamila comitati rivoluzionari, cooptati, godevano di promozioni e gratifiche materiali. A loro si deve la repressione della prima manifestazione, il 15 febbraio 2011 a Bengasi, che ha provocato, due giorni più tardi, l’inizio dell’insurrezione. I comitati rivoluzionari erano collegati a diverse milizie presenti in tutto il paese, riunite sotto il nome generico di «guardie rivoluzionarie». Armati e operanti in tenuta civile, questi uomini hanno avuto un ruolo dissuasivo, se non repressivo, fino al momento della vittoria.
Il secondo pilastro era costituito dalle guardie pretoriane a cui era affidata la protezione del colonnello Muammar Gheddafi e della sua famiglia. Prima dell’insurrezione il loro numero era calcolato in quindicimila uomini suddivisi in tre grandi battaglioni detti «di sicurezza » (fra questi quello di Bengasi, che dopo un iniziale sbandamento ha ripiegato con un buon numero di quadri e soldati in Tripolitania) e tre brigate interarma. I membri di queste unità venivano reclutati per lo più all’interno di due grandi tribù del centro e del sud della Libia ritenute fedeli al regime (Kadhafa e Magariha). Godevano di notevoli vantaggi economici o in natura (auto, viaggi all’estero). Queste unità si sono battute per quasi sei mesi sui tre fronti (Brega, Misurata e djebel Nefoussa) e sono intervenute costantemente nelle città della Tripolitania (Zauia, Sabratha, Zuara) per reprimere le prime rivolte a febbraio e marzo. L’ultimo figlio del colonnello Gheddafi, Khamis, comandava una delle tre brigate sul fronte di Misurata; mentre un’altra sembra fosse guidata dal fratello maggiore Mu’tassim.
Infine il terzo pilastro: il senso di appartenenza tribale, che rimarrà un elemento fondamentale. Nei primi anni della Libia rivoluzionaria, dal 1969 al 1975, il potere non faceva riferimento alle tribù. Ma, nel 1975, il Libro verde le ha riportate in primo piano dedicando loro un intero capitolo(1). In seguito avrebbero rappresentato un inscindibile elemento di quel clientelismo che era il fulcro del sistema. Per non mettere a rischio la pace sociale, o addirittura l’unità del paese, era indispensabile ripartire la rendita petrolifera rispettando gli equilibri tra tribù e regioni.
Lungi dall’essere una struttura monolitica o piramidale, la tribù libica in tempo di pace si presenta come una rete di solidarietà flessibile, che permette di accedere a risorse o a posti di lavoro e autorizza progetti personali o collettivi. A seconda della vicinanza o meno di uno dei suoi membri con il raìs, l’appartenenza a una tribù procurava vantaggi o, al contrario, rappresentava un ostacolo. Così gli abitanti di Misurata (2) – o almeno le grandi famiglie della città, anche se non formano una tribù in senso stretto (3) – sono stati nelle grazie di Gheddafi fino al 1975. Poi, a causa di divergenze personali e ideologiche con il colonnello Omar al-Mheichi, uno dei compagni della prima ora, originario della città, il principe ha rotto l’alleanza e si è rivolto ai loro avversari storici, i Warfalla, originari di Bani Walid. Da allora, gli abitanti di Misurata sono stati allontanati dalle funzioni sensibili (guardie pretoriane, servizi di sicurezza) e relegati a posti da tecnocrati.
In tempo di guerra, le tribù possono costituire uno strumento di mobilitazione particolarmente efficace sia nelle zone rurali che nelle città, dove le popolazioni originarie di una stessa regione si raggruppano per quartiere. Qui ripropongono la suddivisione in diverse decine di sotto-insiemi, ognuno dei quali fa riferimento a uno sceicco. È così che,all’inizio del conflitto, si sono potute vedere le due fazioni invocare i giuramenti di fedeltà ricevuti da sceicchi di una stessa tribù: i membri della tribù Kadhafa residenti a Bengasi, ad esempio, nsecondo alcuni si sarebbero alleati con il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), pur evitando di sostenerlo militarmente. Le liste di tribù alleate al Cnt o a Gheddafi comparse sulla stampa all’inizio del conflitto non si possono quindi considerare affidabili.
Al centro, all’ovest e al sud del paese, le campagne e le città popolate a maggioranza da membri di grandi tribù molto coinvolte nel sistema Gheddafi non sono state particolarmente attive nella rivolta. Anzi, alcune hanno fornito al regime combattenti e miliziani. È quanto è successo in particolare nelle regioni di Bani Walid, feudo dei Warfalla; di Tarhuna, feudo dell’importante Sirte, feudo dei Kadhafa; del Fezzan, feudo delle popolazioni kadhafa, magariha, hassauna e tuareg (da molto tempo pagate e reclutate dal regime); di Taurgha, i cui abitanti manifestano un’antica diffidenza verso quelli di Misurata; o ancora di Ghadames, alla frontiera algerina, la cui popolazione, in maggioranza jaramna, è rimasta finora fedele al potere.
Altre regioni, benché simpatizzanti del regime, hanno scelto di restare neutrali in attesa di vedere chi avrebbe vinto: le città di Mizda, feudo dei Machachiya e degli Aulad Bou Saif; le oasi di Aoujila, Waddan, Hun, Sukna e Zliten, i cui abitanti aulad shaikh diffidano di quelli di Misurata.
Da un villaggio all’altro, si ritrovano quindi strategie diverse, spiegabili con antagonismi che a volte risalgono alla colonizzazione italiana. Come, ad esempio, quello che oppone gli Zintan ai loro grandi rivali storici, i Machachiya. Prima della rivolta, i membri delle due tribù convivevano pacificamente nella città di Mizda, benché fossero vietati i matrimoni. Quando la città di Zintan si è ribellata, gli zintan di Mizda hanno raggiunto i loro compagni, facendo però attenzione a non attaccare la città, mentre i Machachiya sono rimasti neutrali… al contrario di quelli di altri villaggi che si sono invece uniti ai gheddafisti. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma la cosa da sottolineare è che i tradizionali meccanismi di negoziazione hanno permesso di limitare la violenza e di evitare situazioni irreversibili che avrebbero reso più difficile la ricostruzione di una comunità nazionale alla fine del conflitto.
Quanto alla capitale, Tripoli, l’assenza di una rivolta generalizzata fino all’arrivo dei contingenti provenienti dalle città «liberate» della Tripolitania si spiega con due fattori: da una parte il peso specifico dell’apparato di sicurezza e repressivo, dall’altra, la sociologia stessa della città. Al contrario di Bengasi, dove la coesione delle grandi tribù della Cirenaica, unite anche dall’atteggiamento ostile verso il potere, ha permesso unità d’azione, Tripoli è costituita per metà da popolazioni delle grandi tribù originarie delle regioni di Bani Walid, di Tarhuna e del Fezzan la cui sorte era strettamente legata a quella del regime di Gheddafi; l’altra metà è invece composta da membri di piccole tribù o da cittadini, gruppi non in grado di creare strutture di mobilitazione e di lotta.
La «rottura tattica» annunciata per cinque mesi come imminente sui fronti di Brega e Misurata dai portavoce del Cnt e della Nato sarebbe stata infine realizzata dalla potente tribù araba degli Zintan che all’inizio di maggio contava solo tremila combattenti. Una delle chiavi del successo è stata la capacità di inserirsi in quella tradizione libica che vede il primato dell’ambito locale sulla regione e della regione sulla nazione, e che di conseguenza prevede che spetti agli abitanti originari di ogni singola regione o città combattere per liberarla. Gli Zintan, punta di diamante e coordinatori della ribellione a Ovest, hanno infatti reclutato, formato e equipaggiato battaglioni originari delle città da liberare (Zauia, Surmane e Garian), i quali hanno poi condotto simultaneamente gli assalti alle tre città.
Un Consiglio poco rappresentativo
Anche se i portavoce della Nato e i responsabili politici francesi e britannici continueranno a enfatizzare il ruolo dei loro bombardamenti, ad avere avuto un peso decisivo sul corso della guerra non sono state né l’avanzata continuamente annunciata sui fronti di Brega e di Misurata, né l’asserita disgregazione del regime grazie al bombardamento dei siti strategici di Tripoli o delle residenze del colonnello Gheddafi.
Lo spostamento a Ovest del peso militare di un’insurrezione inizialmente forte nell’Est del paese, pone oggi il problema della rappresentatività del Cnt. Attualmente nelle sue strutture non siedono i responsabili della rivolta vittoriosa. Se vuole continuare a fregiarsi del titolo di «legittimo rappresentante del popolo libico», prematuramente riconosciutogli da Francia e Gran Bretagna, il Cnt dovrà rapidamente concedere ai ribelli dell’Ovest una rappresentanza politica corrispondente al ruolo militare fondamentale da loro avuto nella vittoria finale, in caso contrario potrebbero crearsi strutture autonome all’Ovest.
L’altra sfida consisterà nell’integrare nelle istituzioni future i rappresentanti di regioni e tribù la cui maggioranza ha sostenuto a lungo il regime (regioni di Sirte, Tarhuna, Bani Walid, Sebha, Ghat e Ghadames). Il Cnt dovrà quindi offrire garanzie tanto a queste popolazioni quanto ai meno compromessi tra i responsabili militari e i membri dei comitati rivoluzionari. Se gli insorti, forti della loro vittoria militare cercheranno invece di imporre con le armi la loro volontà a tribù con solide basi territoriali, la guerra rischia di proseguire.
Per uscirne, i meccanismi beduini di mediazione e negoziato dovranno giocare un ruolo fondamentale. Perché, anche se alcune tribù hanno sostenuto Gheddafi per molto tempo, niente è immutabile nella tradizione beduina. Al contrario il pragmatismo e l’interesse del gruppo hanno spesso il sopravvento sulle logiche d’onore enfatizzate nelle descrizioni, a volte caricaturali, con cui queste società vengono rappresentate in Occidente. È nell’interesse di tutti che le esportazioni di petrolio riprendano rapidamente e che il ricavato sia ripartito in modo trasparente e equo tra le regioni – cosa che potrebbe avere un ruolo stabilizzante, a condizione che il nuovo potere si mostri attento a lasciare a regioni e città una autonomia rilevante nella gestione degli affari correnti.
Uscire dalla guerra civile sarà un vera sfida per un paese in cui le armi sono ormai in circolazione, che non dispone di alcuna cultura politica e dove l’interesse locale predomina ancora sull’interesse nazionale.
(1) Cfr. Edizione araba del Centro mondiale di studi e ricerche sul Libro verde, Tripoli, 1999.
(2) Gli abitanti di Misurata hanno preso le armi contro il regime subito dopo quelli della Cirenaica. Tra le popolazioni di Misurata e di Bengasi esiste una grande vicinanza sociologica e storica, in quanto sembra accertato che la metà della popolazione di Bengasi discenda da immigrati originari di Misurata.
(3) In questo caso si intende per «tribù» un gruppo che condivide un eponimo ancestrale, nl’appartenenza al quale si fonda sulla
Fonte: Le MONDE diplomatique il manifesto settembre 2011