“Shoah” è un nome che giustamente ci è diventato familiare, e che altrettanto giustamente ricordiamo con un giorno che abbiamo intitolato alla memoria, quello in cui i soldati dell'Armata Rossa (oggi tanto vituperata) entrarono nel campo di Oswiecim (che i Nazisti, come hanno sempre fatto tutti gli invasori hanno ribattezzato Auschwitz).
Dunque il 26 gennaio celebriamo il giorno della memoria.
Mentre ci dimentichiamo che il 15 maggio ricorre un altro anniversario di un avvenimento che, a differenza della “shoah” non è terminato e porta lo stesso nome. Solo che, anziché essere conosciuto con una parola Ebraica, come “shoah”, viene chiamato “naqba”, che vuole sempre dire “catastrofe”, ma in lingua Araba.
Ma, a differenza della “Shoah”, che in fondo è durata 10 anni o poco piu', dal momento che le leggi speciali contro gli Ebrei risalgono al 1935, la “Naqba” dura da 62, in quanto la pulizia etnica nei confronti dei Palestinesi incominciata nel 1948 dura tutt' ora.
Fra l'inverno del 1948 e l'autunno del 1949, come documenta il libro dello storico Israeliano Ilan Pappe “La pulizia etnica della Palestina” (Fazi editore), che raccomandiamo a tutti di leggere, 800 mila Palestinesi furono cacciati dalle loro terre e dalle loro case, ristretti in quella regione che oggi viene chiamata Cisgiordania o, in inglese West Bank, cioe' riva occidentale, di un fiume che si chiama Ordun, ma che tutti conosciamo come “Giordano” perché ribattezzato dai conquistatori Romani e poi chiamato “Jordan” dai colonizzatori Inglesi.
La risoluzione dell'Assemblea delle Nazioni Unite n.° 194 del 1948 riconosceva il diritto al ritorno di questi rifugiati alle loro terre e per questo nel 1949 aveva creato un'agenzia speciale, l'UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in the West Bank; Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e le Opere a favore dei Rifugiati Palestinesi in Cisgiordania). Ma questa agenzia, alla fine, non è riuscita altro che a gestire dei campi profughi, che oggi sono dei veri e propri ghetti in cui migliaia di persone vivono in superfici che non raggiungono il paio di km2, in buona parte fuori della stessa Palestina. Non è poi cosi' differente dai ghetti in cui sono vissuti gli Ebrei soprattutto in Europa per secoli.
La pulizia etnica spaventosa, che ha significato la distruzione di oltre 2000 villaggi e la cancellazione del nome Palestina dai libri di storia e di geografia Israeliani per sostituirli con le antiche denominazioni di Samaria, Galilea e Giudea eoggi appunto Cisgiordania, sostituiti oggi in buona parte da infrastrutture ultramoderne o addirittura da parchi su cui si fa una notevole promozione turistica, cosi' come il nome di Palestinesi che oggi vengono chiamati Arabi, è continuata con altri momenti di occupazione nonostante tutte le risoluzioni approvate dall'ONU che, a dire il vero in maniera sempre piu' blanda, hanno sempre sancito il diritto dei Palestinesi ad un proprio stato.
La prima occupazione nel giugno del 1967, anno in cui si è incominciato appunto a parlare di Cisgiordania e identificarla con la Palestina, insieme con la Striscia di Gaza, ma senza continuita' territoriale fra queste due parti, poi altre ne sono venute negli anni '90 e nei primi anni del nuovo secolo quando intere citta' sono state rioccupate dall'esercito Israeliano nonostante gli accordi di Oslo del 1993 avessero sancito la creazione di una polizia Palestinese e avessero decretato la competenza di quest'ultima a vigilare sulle zone assegnate ai Palestinesi. L'ultimo momento di questa pulizia etnica è stato lo spaventoso massacro che è stato chiamato “Operazione Piombo fuso” nel dicembre 2008 e gennaio 2009 sulla Striscia di Gaza in cui sono morte oltre 1400 persone secondo la fondamentale relazione di una commissione dell'ONU guidata da un giudice sudafricano Ebreo e Sionista, Richard Goldstone, approvata poi dall'Assemblea Generale, ma non riconosciuta dal Governo e dal Parlamento Italiani.
Oggi questa pulizia etnica sta subendo un'accelerazione, da un lato con la costruzione di nuove colonie in Palestina e il continuo richiamo di Ebrei da tutte le parti del mondo per popolare la Cisgiordania e dall'altro l'emanazione di ordini militari per facilitare i timori della popolazione Palestinese di una deportazione di massa verso Gaza.
Sia i Palestinesi che gli Israeliani ed Ebrei contrari all'occupazione oggi ci ricordano che questo problema è stato creato dai nostri antenati, prima con il colonialismo e poi con la persecuzione degli Ebrei che in qualche modo ha fatto si' che molti venissero via dall'Europa e che non è affatto vero, come si crede che la “naqba” si colleghi con la “shoah”. Nessuno sa e molti che ne sono a conoscenza se ne guardano bene dal dire che la “naqba” è stata pianificata ben prima della stessa ascesa al potere dei nazisti e dei fascisti.
Sarebbe molto semplice far emergere questa verita' storica: sarebbe sufficiente tradurre i diari di David Guren, meglio noto come Ben Gurion, il padre della patria di Israele, che si spaccia addirittura per stato socialista, ma in realta' è una vera e propria dittatura militare, dal momento che l'esercito è il vero sovrano. Ma a questo proprio gli Ebrei, specialmen te quelli che vengono definiti della “diaspora” (cioe' fuggiti al di fuori dei confini dell'attuale stato di Israele) stanno facendo una forte opposizione, dal momento che sanno bene che la loro immagine di popolo perseguitato e quindi tutta la teoria del “diritto alla difesa” su cui basano quelli che sono dei veri e propri crimini di guerra verrebbe messa in discussione se non addirittura ribaltata. Checché se ne dica, oggi non è poi differente quello che stanno facendo gli Israeliani nei confronti dei Palestinesi. In fin dei conti i “lager” erano delle strutture costose: l'economia di guerra, che è la prinicipale voce di bilancio in Israele, oggi è in grado di utilizzare metodi che consentono un maggiore risparmio: per i bombardamenti vengono addirittura usati aerei senza pilota. Addirittura per controllare un territorio, secondo le piu' recenti dottrine militare, è sufficiente occuparne il 16%.
Ma è proprio perché non vogliamo contrapporre i popoli che dobbiamo ricordare la “naqba”: probabilmente questa non è che l'altra faccia della “shoah”, e comunque è un crimine storico di cui è responsabile la comunita' internazionale, proprio perche' siamo convinti che un vero processo di pace parta da un ragionamento sulla inevitabilita' di un destino comune fra quei due popoli e un risarcimento storico nei confronti di quello che in questo momento è stato piu' oppresso. E soprattutto evitare ddei condannare le prossime generazioni a secoli di odio reciproco senza conoscerne in fondo neppure la ragione, ma semplicemente imbottiti di miti che tradiscono la verita' storica.
Senza dimenticare che comunque, in queste condizioni, in cui Israele appare come uno stato senza futuro, anche una buona parte del popolo Israeliano è vittima dei suoi governanti, un po' come il nostro.
E che soprattutto non vorremmo che venisse piu' versata una goccia di sangue, naè da una parte né dall'altra.
Anche se il 15 maggio è alle nostre spalle, e un altro ci aspetta, vogliamo comunque ricordare questa, che forse è la piu' spaventosa pulizia etnica e dunque ingiustizia, che sta addirittura attraversando due secoli, un capitolo dimenticato della storia della nostra (dis)umanita'.
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| > | >> |IndiceLA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA Prefazione 3 – La Casa Rossa, p. 3 1. Una "presunta" pulizia etnica? 12 – Definizioni di pulizia etnica, p. 12 – Pulizia etnica come crimine, p. 16 – Ricostruzione di una pulizia etnica, p. 19 2. Gli sforzi per uno Stato esclusivamente ebraico 22 – La motivazione ideologica del sionismo, p. 22 – I preparativi militari, p. 28 – La schedatura dei villaggi, p. 30 – Fronteggiare gli inglesi: 1945-1947, p. 36 – David Ben Gurion: l'artefice, p. 37 3. Spartizione e distruzione: la Risoluzione 181 e il suo impatto 45 – La popolazione della Palestina, p. 45 – Il piano di spartizione dell'ONU, p. 47 – Le posizioni degli arabi e dei palestinesi, p. 49 – La reazione ebraica, p. 52 – La Consulta inizia il suo lavoro, p. 54 4. Portare a termine un master plan 57 – La metodologia della pulizia etnica, p. 57 – Cambiamento di umore nella Consulta: dalla rappresaglia all'intimidazione, p. 73 – Dicembre del 1947: prime azioni, p. 76 – Gennaio del 1948: addio alla rappresaglia, p. 82 – Il lungo seminario: 31 dicembre-2 gennaio, p. 84 – Febbraio del 1948: colpisci e terrorizza, p. 96 – Marzo: i ritocchi finali al piano, p. 106 5. Il programma per la pulizia etnica: il Piano Dalet 112 – Operazione Nachshon: la prima operazione del Piano Dalet, p. 113 – L'urbicidio della Palestina, p. 118 – La pulizia etnica continua, p. 132 – Soccombere a un potere superiore, p. 145 – Le reazioni degli arabi, p. 146 – Verso la "vera guerra", p. 155 6. La finta guerra e la vera guerra in Palestina: maggio 1948 160 – I giorni di tihur, p. 164 – Il massacro di Tantura, p. 167 – La scia di sangue delle brigate, p. 172 – Campagne di vendetta, p. 176 7. L'escalation delle operazioni di pulizia: giugno-settembre 1948 181 – La prima tregua, p. 183 – Operazione Palma, p. 190 – Tra una tregua e l'altra, p. 192 – La tregua inesistente, p. 212 8. Completamento dell'operazione: ottobre 1948-gennaio 1949 218 – Operazione Hiram, p. 219 – La politica israeliana antirimpatrio, p. 227 – La costruzione di un mini impero, p. 231 – La pulizia finale delle zone orientali e meridionali, p. 234 – Il massacro di Dawaymeh, p. 236 9. Il brutto volto dell'occupazione 240 – Prigionia in condizioni disumane, p. 241 – Violenze durante l'occupazione, p. 245 – Dividere le spoglie, p. 254 – Dissacrazione dei luoghi santi, p. 260 – Rafforzare l'occupazione, p.263 10. Il memoricidio della Nakba 269 – La reinvenzione della Palestina, p. 269 – Colonialismo virtuale e il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), p. 271 – I parchi turistici del JNF in Israele, p. 273 11. La negazione della Nakba e il "processo di pace" 280 – Primi tentativi di pace, p. 282 – L'esclusione del 1948 dal processo di pace, p. 284 – Il diritto al ritorno, p. 287 12. La fortezza Israele 294 – Il "problema demografico", p. 295 Epilogo 305 – La Serra, p. 305 Note 311 Bibliografia 339 Cronologia 345 Ringraziamenti 363 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Non siamo in lutto per l'addio Non abbiamo né il tempo né le lacrime Non afferriamo il momento dell'addio Perché sì, è l'Addio E a noi restano le lacrime. TAHA MUHAMMAD ALI (1988) un profugo dal villaggio di Saffuriyya Sono favorevole al trasferimento forzato: non ci vedo nulla di immorale. DAVID BEN GURION all'Esecutivo dell'Agenzia ebraica, giugno 1938 La Casa Rossa La Casa Rossa era un tipico edificio dell'antica Tel Aviv. Orgoglio dei costruttori e degli artigiani ebrei che l'avevano fabbricato negli anni Venti, era stato destinato a ospitare la sede del locale consiglio dei lavoratori. Tale rimase finché, verso la fine del 1947, divenne il quartiere generale dell'Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista in Palestina. Situato vicino al mare, sulla Yarkon Street, nella parte nord di Tel Aviv, l'edificio costituiva un'ulteriore gradevole aggiunta alla prima città "ebraica" sul Mediterraneo, la "Città Bianca", come la chiamavano affettuosamente i suoi letterati e i suoi notabili. In quei giorni, infatti, a differenza di oggi, il biancore immacolato delle sue case inondava ancora l'intera città nell'opulenta luminosità tipica dei porti del Mediterraneo di quell'epoca e di quella regione. Era una vista gradevole, un'elegante fusione di motivi Bauhaus con l'originaria architettura palestinese, in una mescolanza che veniva chiamata levantina nel senso meno spregiativo del termine. Tale era anche la Casa Rossa, con i suoi semplici tratti rettangolari, abbelliti da archi frontali che incorniciavano l'ingresso e sostenevano i balconi dei due piani superiori. Forse era stata l'associazione con un movimento di lavoratori ad aver ispirato l'aggettivo "rossa", o forse era la sfumatura rosa che assumeva al tramonto ad aver dato alla casa il suo nome. La prima ipotesi è la più attendibile in quanto l'edificio continuò a essere associato alla versione sionista del socialismo quando, nel 1970, divenne l'ufficio centrale del movimento israeliano dei kibbutz. Case come questa, importanti resti storici del periodo del Mandato britannico, hanno spinto l'UNESCO a dichiarare nel 2003 Tel Aviv patrimonio dell'umanità. Oggi la casa non c'è più, vittima dello sviluppo che ha raso al suolo quell'edificio storico per far posto a un parcheggio vicino al nuovo hotel Sheraton. Quindi, anche in questa strada, non è rimasta alcuna traccia della città Bianca, che si è lentamente trasformata, come per magia, nella dilagante, inquinata e stravagante metropoli che è la moderna Tel Aviv. In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. La stessa sera venivano trasmessi alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno. A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani quali obiettivi del piano generale. Denominata in codice Piano D (Dalet in ebraico), questa era la quarta e ultima versione di piani meno sofisticati che stabilivano il destino che i sionisti avevano in serbo per la Palestina e per la sua popolazione nativa. I tre piani precedenti non avevano delineato chiaramente come la direzione sionista pensava di affrontare la presenza di una popolazione palestinese tanto numerosa che viveva sulla terra agognata come propria dal movimento nazionale ebraico. Quest'ultimo e definitivo progetto dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene. Simcha Flapan, uno dei primi storici che notò l'importanza del piano, rivela: «La campagna militare contro gli arabi, inclusa la "conquista e distruzione delle aree rurali" fu avviata dal Piano Dalet dell'Haganà». L'obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina. Come cercherò di dimostrare nei primi capitoli di questo libro, il piano era da un lato il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere un'esclusiva presenza ebraica in Palestina, dall'altro una risposta agli sviluppi sul campo dopo che il governo britannico aveva deciso di porre fine al Mandato. Gli scontri con le milizie palestinesi locali fornirono il contesto e il pretesto perfetti per realizzare la visione ideologica di una Palestina etnicamente ripulita. La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un'iniziativa di pulizia etnica dell'intero paese nel marzo del 1948. Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano, deciso il 10 marzo 1948, e soprattutto la sua sistematica attuazione nei mesi successivi, fu un caso lampante di un'operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l'umanità. Dopo l'Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l'umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l'avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall'uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate. Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l'espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. Questa vicenda, la piu decisiva nella storia moderna della terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata, e ancora oggi non è riconosciuta come un fatto storico e tantomeno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente sia moralmente. La pulizia etnica è un crimine contro l'umanità e le persone che oggi lo commettono sono considerate dei criminali da portare davanti a tribunali speciali. Può essere difficile decidere come definire o come trattare, nella sfera legale, quanti iniziarono e perpetrarono la pulizia etnica in Palestina nel 1948, ma è possibile descrivere i loro misfatti e giungere a una ricostruzione storiografica più accurata di quelle fino a ora disponibili e a una posizione morale di maggiore integrità. Conosciamo i nomi delle persone che sedevano in quella stanza all'ultimo piano della Casa Rossa, sotto manifesti in stile marxista, che proponevano slogan del tipo «Fratelli in armi» e «Pugno di acciaio» e ostentavano i «nuovi» ebrei – muscolosi, robusti e abbronzati – con i fucili puntati da dietro barriere protettive nella «coraggiosa lotta» contro i «nemici arabi invasori». Conosciamo anche i nomi degli ufficiali superiori che eseguirono gli ordini sul campo. Sono tutte figure familiari nel pantheon dell'eroismo israeliano. Non molto tempo fa molti di loro erano ancora vivi e occupavano posizioni di primo piano nella politica e nella società israeliane; pochissimi sono oggi ancora in vita. Per i palestinesi, e per chiunque altro rifiutasse di accettare la narrazione sionista, era chiaro, molto tempo prima che questo libro venisse scritto, che costoro erano autori di crimini, ma che erano riusciti a sfuggire alla giustizia e probabilmente non sarebbero mai stati sottoposti a giudizio per ciò che avevano commesso. Per i palestinesi, la forma più profonda di frustrazione, al di là del trauma, è stato il fatto che l'atto criminale di cui questi uomini furono responsabili sia stato totalmente negato e che la loro sofferenza sia stata completamente ignorata fin dal 1948. Circa trent'anni fa, le vittime della pulizia etnica iniziarono a ricostruire il quadro storico che la narrazione ufficiale israeliana aveva cercato in ogni modo di nascondere e distorcere. La storiografia israeliana parlava di «trasferimento volontario» di massa di centinaia di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente le loro case e i loro villaggi per dare via libera agli eserciti arabi invasori che puntavano a distruggere il neonato Stato ebraico. Nel 1970 gli storici palestinesi, in particolare Walid Khalidi, raccogliendo memorie e documenti autentici su quanto era accaduto al loro popolo, furono in grado di ricostruire una parte significativa dello scenario che Israele aveva cercato di cancellare. Essi furono però rapidamente messi in ombra da pubblicazioni come Genesis 1948 di Dan Kurzman, che apparve nel 1970 e nuovamente nel 1992 (questa volta con un'introduzione di uno degli esecutori della pulizia etnica della Palestina, Yitzhak Rabin, al tempo primo ministro di Israele). Ci fu però anche chi sostenne apertamente il punto di vista palestinese, come Michael Palumbo, il cui The Palestinian Catastrophe, pubblicato nel 1987, confermava la versione palestinese degli eventi del 1948 con l'ausilio di documenti dell'ONU e interviste a profughi ed esuli, le cui memorie di quello che avevano subito durante la Nakba dimostravano di essere ancora ossessivamente vivide. Negli anni Ottanta, la comparsa sulla scena israeliana della cosiddetta "nuova storia" avrebbe potuto imprimere una svolta importante nella lotta per la memoria in Palestina. Si trattava del tentativo, da parte di un piccolo gruppo di storici israeliani, di rivedere la narrazione sionista della guerra del 1948. Io ero uno di loro. Ma noi, i nuovi storici, non abbiamo mai contribuito in modo significativo alla lotta contro la negazione della Nakba perché abbiamo eluso la questione della pulizia etnica e, tipico degli storici diplomatici, ci siamo concentrati sui particolari. Tuttavia, utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani, gli storici revisionisti sono riusciti a dimostrare quanto fosse falsa e assurda la pretesa israeliana che i palestinesi se ne fossero andati "volontariamente", sono stati in grado di confermare molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città e hanno rivelato che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità, massacri compresi. Una delle figure più note tra quanti hanno scritto sull'argomento è lo storico israeliano Benny Morris. Basandosi esclusivamente su documenti degli archivi militari israeliani, Morris ha fornito alla fine un quadro molto parziale di quanto era accaduto sul campo. Eppure, tutto questo è stato sufficiente perché alcuni dei suoi lettori israeliani si rendessero conto che la "fuga volontaria" dei palestinesi era un mito e che l'immagine che Israele aveva di sé, di aver condotto nel 1948 una guerra "morale" contro un mondo arabo "primitivo" e ostile, era notevolmente falsa e forse completamente superata. Il quadro era parziale perché Morris prendeva alla lettera, o persino come verità assoluta, i rapporti dell'esercito israeliano che trovava negli archivi. Di conseguenza ignorò atrocità come la contaminazione dell'acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi di stupri e le decine di massacri perpetrati dagli ebrei. Egli continuò a insistere – sbagliando – che prima del 15 maggio 1948 non c'erano state espulsioni forzate. Le fonti palestinesi indicano chiaramente che mesi prima dell'ingresso delle milizie arabe in Palestina, e quando ancora gli inglesi erano responsabili della legge e dell'ordine nel paese – quindi prima del 15 maggio –, le truppe ebraiche erano già riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi. Se Morris e gli altri avessero utilizzato le fonti palestinesi o fossero ricorsi alla storia orale, sarebbero stati in grado di giungere a una migliore conoscenza della pianificazione sistematica che era dietro l'espulsione dei palestinesi nel 1948 e di fornire una descrizione più veritiera dell'enormità dei crimini commessi dai soldati israeliani. C'era allora, e c'è tuttora, un'esigenza, tanto storica quanto politica, di andare al di là di descrizioni come quella che troviamo in Morris, non solo al fine di completare il quadro (in realtà di fornirne l'altra metà), ma anche – e molto più importante – perché non c'è altro modo, per noi, di capire fino in fondo le radici dell'attuale conflitto israelo-palestinese. Soprattutto però, c'è ovviamente un imperativo morale di continuare la lotta contro la negazione del crimine. Il tentativo di andare oltre è già stato avviato da altri. Il lavoro più importante, come era da attendersi, vistii suoi significativi contributi precedenti alla lotta contro la negazione, è stato il fondamentale libro di Walid Khalidi All That Remains. Si tratta di un elenco dei villaggi distrutti, che è ancora una guida essenziale per chiunque voglia comprendere l'enormità della catastrofe del 1948. Si potrebbe affermare che la storia già emersa è di per sé sufficiente per far sorgere interrogativi inquietanti. Tuttavia, la "nuova storia" e i recenti contributi storiografici palestinesi non sono riusciti a far breccia nell'ambito pubblico della coscienza e dell'azione morale. In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948, sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948. In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e usarlo per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948. Non ho dubbi che l'assenza fino a oggi del primo paradigma sia legato alla ragione per cui la negazione della catastrofe ha potuto continuare così a lungo. Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che "tragicamente, ma inevitabilmente" portò all'espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l'opposto: l'obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina, che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Alcune settimane dopo l'inizio delle operazioni di pulizia etnica, i vicini Stati arabi inviarono un piccolo esercito – piccolo in proporzione alla loro forza militare complessiva – per cercare inutilmente di impedirla. La guerra con gli eserciti arabi regolari non mise fine alle operazioni di pulizia etnica fino a quando queste non furono completate con successo nell'autunno del 1948. Questa impostazione – adottare il paradigma della pulizia etnica come base di partenza per la narrazione del 1948 – a qualcuno potrà sembrare come un'imputazione già dall'inizio. A ogni modo il mio J'accuse è realmente diretto contro i politici che progettarono e i generali che perpetrarono la pulizia etnica. Eppure, quando faccio i loro nomi non lo faccio perché voglio che siano sottoposti a un processo postumo, ma allo scopo di umanizzare tanto le vittime quanto i carnefici: voglio evitare che i crimini commessi da Israele siano attribuiti a fattori elusivi quali "le circostanze", "l'esercito" o, come la pone Morris, "à la guerre comme à la guerre" e simili vaghi riferimenti che deresponsabilizzano gli Stati sovrani e permettono agli individui di sfuggire alla giustizia. Io accuso, ma faccio anche parte della società che è condannata in questo libro. Mi sento insieme responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani. Di ciò tratta, in fondo, questo libro. Non mi risulta che in precedenza qualcuno abbia mai tentato questa impostazione. Le due narrazioni storiche ufficiali in competizione su quel che accadde in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di pulizia etnica. Da un lato la versione sionista-israeliana sostiene che la popolazione locale se ne andò "volontariamente", dall'altro i palestinesi parlano di una "catastrofe" che li colpì, Nakba, un termine in qualche modo elusivo dal momento che si riferisce al disastro in sé e non tanto a chi o a che cosa lo ha causato. Il termine Nakba fu adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell'Olocausto ebraico (Shoah), ma l'aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente. Il libro si apre con una definizione di pulizia etnica che spero sia abbastanza trasparente da essere accettata da tutti, definizione che è servita come base per le azioni legali contro gli esecutori di simili crimini nel passato e ai nostri giorni. Può sorprendere che il classico discorso giuridico, complesso e (per molti esseri umani normali) impenetrabile, è qui sostituito da un linguaggio chiaro, privo di espressioni gergali. Tale semplicità non minimizza l'orrore dei fatti e non attenua la gravità del crimine. Al contrario: il risultato è una descrizione onesta di una politica atroce che la comunità internazionale oggi si rifiuta di perdonare. La definizione generale di che cosa è la pulizia etnica si applica quasi alla lettera al caso della Palestina. In quanto tale, la storia di quello che accadde nel 1948 emerge come un capitolo non complicato, ma niente affatto, di conseguenza, semplificabile o secondario nella storia dell'espropriazione della Palestina. In realtà, l'adozione del prisma della pulizia etnica permette facilmente di penetrare il manto di complessità che i diplomatici di Israele quasi istintivamente esibiscono e dietro il quale gli accademici di Israele si nascondono abitualmente nel respingere i tentativi esterni di criticare il sionismo e lo Stato ebraico per la sua politica e il suo comportamento. «Gli stranieri», dicono nel mio paese, «non capiscono e non possono capire questa storia sconcertante» e quindi non occorre nemmeno tentare di spiegargliela. Né dovremmo permettere loro di intervenire nei tentativi di risolvere il conflitto – a meno che non accettino il punto di vista di Israele. Tutto quanto possono fare, come i governi nostri dicono al mondo da anni, è di permettere a "noi", gli israeliani, in quanto rappresentanti della parte "civilizzata" e "razionale" nel conflitto, di trovare una soluzione equa per "noi stessi" e per l'altra parte, i palestinesi, che in definitiva compendiano il mondo arabo "non civilizzato" ed "emotivo" al quale la Palestina appartiene. Da quando gli Stati Uniti si sono dimostrati pronti ad adottare questo approccio perverso e ad avallare l'arroganza che lo sostiene, abbiamo avuto un "processo di pace" che non ha portato, e non poteva portare, da nessuna parte, dal momento che ignora totalmente il nocciolo del problema. Ma la storia del 1948 non è per niente complicata e quindi questo libro è scritto sia per quanti vi si avvicinano per la prima volta, sia per quanti, già da molti anni e per varie ragioni, sono stati coinvolti nella questione palestinese e nei discorsi su come giungere a una soluzione. È nostro dovere strappare dall'oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l'umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele. | << | < | > | >> |Pagina 97Nel febbraio del 1948, David Ben Gurion decise di allargare la Consulta e di invitare a farne parte membri delle organizzazioni sioniste responsabili del reclutamento e dell'acquisto di armi. Ancora una volta, questo sottolinea quanto fossero strettamente collegate le questioni di pulizia etnica e di potenza militare. In pubblico, continuavano a sventolare lo scenario apocalittico di un secondo Olocausto, mentre nelle loro riunioni la Consulta allargata fu informata da Ben Gurion dei sorprendenti successi del reclutamento obbligatorio imposto dalla leadership sionista alla comunità ebraica, e anche degli acquisti d'armi effettuati, soprattutto di armi pesanti e di aerei.Furono proprio questi nuovi acquisti di armi che permisero alle forze di terra nel febbraio del 1948 di estendere le loro operazioni e di agire con maggiore efficacia nell'entroterra palestinese. A seguito della disponibilità di queste nuove armi, soprattutto dei nuovi mortai, i villaggi e i quartieri ad alta densità di popolazione furono sottoposti a pesanti bombardamenti. Si può intuire con quanta sicurezza i militari stavano agendo dal fatto che ora l'esercito ebraico poteva produrre le proprie armi di distruzione. Ben Gurion seguì personalmente l'acquisto di una di queste, particolarmente letale, che sarebbe poi stata usata per appiccare il fuoco ai campi e alle case dei palestinesi: un lancia-fiamme. Un professore di chimica anglo-ebreo, Sasha Goldberg, fu a capo del progetto per l'acquisto e poi per la produzione di questa arma, prima in un laboratorio di Londra e in seguito a Rehovot, a sud di Tel Aviv, in quello che sarebbe poi diventato l'Istituto Weizmann negli anni Cinquanta. La storia orale della Nakba è piena di prove che testimoniano i terribili effetti di quest'arma sulle persone e sulle cose. Il progetto lancia-fiamme era parte di un disegno più ampio di sviluppo della guerra biologica diretto dal chimico e fisico Ephraim Katzir (divenuto presidente di Israele negli anni Ottanta, per un lapsus rivelò al mondo che lo Stato ebraico era in possesso di armi nucleari). L'unità biologica che egli diresse insieme al fratello Aharon, cominciò a lavorare seriamente a febbraio. Scopo principale era quello di creare un'arma che accecasse le vittime. Katzir riferì a Ben Gurion: «Stiamo sperimentando sugli animali. I nostri ricercatori indossano maschere anti-gas e attrezzature protettive. Buoni risultati. Gli animali non sono morti (sono stati solo accecati). Possiamo produrre 20 kg al giorno di questa roba». A giugno, Katzir propose di usarla contro gli esseri umani. Inoltre era necessaria una maggiore potenza militare perché l'Esercito Arabo di Liberazione si era ora posizionato in alcuni villaggi e occorreva un notevole sforzo per occuparli. In alcuni luoghi l'arrivo dell'ALA era più importante dal punto di vista psicologico che da quello materiale. Non c'era tempo di trasformare gli abitanti dei villaggi in soldati, né c'erano le attrezzature per difenderli. Tutto sommato, a febbraio, l'ALA ne aveva raggiunti solo pochi, il che significava che la maggior parte dei palestinesi erano ignari di quanto la loro vita sarebbe drammaticamente e fondamentalmente cambiata. Né i loro leader, né la stampa palestinese, avevano la minima idea di quello che si stava progettando segretamente nella Casa Rossa, vicino alla periferia nord di Giaffa. Nel febbraio del 1948 ci furono operazioni di pulizia etnica su vasta scala e fu solo allora che in alcune zone del paese la popolazione cominciò a percepire il significato dell'imminente catastrofe. A metà febbraio del 1948 la Consulta si riunì per discutere le implicazioni del numero crescente di volontari arabi in Palestina. Eliyahu Sasson riferì che meno di 3000 volontari in tutto erano entrati nell'ALA (il diario di Ben Gurion ne annota un numero inferiore). Egli li descrisse come "poco addestrati" e aggiunse che «se non li provochiamo, resteranno passivi e gli Stati arabi non invieranno altri volontari». Questo incoraggiò Yigal Allon a richiedere di nuovo a gran voce operazioni di pulizia etnica, ma Yaacov Drori, capo di Stato maggiore, si oppose insistendo per adottare un approccio più cauto. Tuttavia, dopo poco tempo Drori si ammalò e non occupò più un ruolo di primo piano nella scena politica. Fu sostituito dal più bellicista Yigael Yadin. Il 9 febbraio Yadin aveva già rivelato le sue vere intenzioni chiedendo «invasioni in profondità» nelle zone palestinesi. Indicò villaggi a elevata popolazione, quali Fassuta, Tarbikha e Aylut nella Galilea settentrionale, con l'obiettivo di distruggerli completamente. La Consulta rifiutò il piano come troppo ambizioso e Ben Gurion suggerì di metterlo da parte per il momento. Il nome in codice che Yadin diede al suo piano fu Lamed-Heh; lo concepiva come rappresaglia per l'attacco al convoglio a Gush Etzion. Alcuni giorni dopo la Consulta approvò altri piani simili – con lo stesso nome in codice – all'interno delle zone palestinesi rurali, ma insisteva a collegarli, anche se superficialmente, ad azioni ostili da parte degli arabi. Anche queste operazioni furono frutto dell'ingegno di Yigael Yadin. Iniziarono il 13 febbraio 1948, concentrandosi su diverse aree. A Giaffa, le case furono selezionate a caso e poi fatte esplodere quando le persone si trovavano ancora dentro; il villaggio di Sa'sa venne attaccato, così come altri tre a Qisarya (l'attuale Cesarea). Le operazioni di febbraio, attentamente pianificate dalla Consulta, erano diverse da quelle di dicembre: non erano più sporadiche ma facevano parte di un primo tentativo di collegare la pulizia etnica dei villaggi all'idea di linee di trasporto ebraiche senza ostacoli lungo le principali arterie stradali della Palestina. Tuttavia, a differenza di quanto sarebbe poi accaduto il mese successivo, quando le operazioni avrebbero avuto un nome in codice con obiettivi e territori ben definiti, le direttive rimanevano ora alquanto vaghe. I primi obiettivi furono tre villaggi nelle vicinanze dell'antica città romana di Cesarea, una città con una storia che risaliva ai Fenici. Fondata come colonia per il commercio, Erode il Grande la chiamò Cesarea in onore del suo patrono a Roma, Cesare Augusto. Il più grande di questi villaggi era Qisarya, con una popolazione di 1500 abitanti che viveva all'interno delle antiche mura della città vecchia. Come spesso succedeva nei villaggi palestinesi della costa, diverse famiglie ebree avevano comperato lì della terra e praticamente vivevano all'interno del villaggio. La maggior parte degli abitanti viveva in case di pietra accanto alle famiglie beduine che facevano parte del villaggio ma che stavano in tende. I pozzi del villaggio fornivano acqua a sufficienza sia per la comunità semisedentaria che per quella contadina e permetteva loro di coltivare estesi appezzamenti con grande varietà di prodotti agricoli, compresi gli agrumi e le banane. Quindi Qisarya era un modello tipico dell'atteggiamento "vivi e lascia vivere" che caratterizzava la vita rurale lungo la costa della Palestina. I tre villaggi furono scelti perché erano una facile preda: non avevano nessuna forma di difesa, né interna né esterna. Il 5 febbraio arrivò l'ordine di occuparli, evacuarli e distruggerli. Qisarya fu il primo villaggio a essere completamente sgombrato il 15 febbraio 1948. L'espulsione richiese poche ore e fu eseguita in modo così sistematico che le truppe ebraiche condussero la stessa operazione in altri quattro villaggi nello stesso giorno, sempre sotto l'occhio attento delle truppe britanniche che erano appostate nelle vicine stazioni di polizia. Il secondo villaggio fu Barrat Qisarya ('fuori Qaysariyya'), con circa 1000 abitanti. Ci sono molte foto degli anni Trenta che ritraggono questo pittoresco villaggio su una spiaggia di sabbia presso le rovine dell'antica città romana. Fu cancellato in febbraio in un attacco così improvviso e così feroce che gli storici, sia israeliani che palestinesi, usano il termine "misterioso" per indicarne la scomparsa. Oggi una nuova città ebrea, Or Akiva, occupa ogni metro quadrato di questo villaggio distrutto. Alcune case erano ancora in piedi negli anni Settanta, ma furono demolite in tutta fretta quando un'équipe di ricercatori palestinesi cercò di documentare la loro presenza nell'ambito di un più esteso tentativo di ricostruzione del patrimonio palestinese in questa parte del paese. | << | < | > | >> |Pagina 112Ai serbi interessava creare la Repubblica Srpska per i serbi, pura dal punto di vista etnico, ma numerose minoranze musulmane, specialmente nelle città, rendevano difficile la creazione di un'entità etnica omogenea. Perciò, l'esercito della Repubblica Srpska, sotto il comando del generale Ratko Mladic, iniziò una politica di pulizia etnica contro i musulmani in quelle che riteneva essere terre serbe.
GlobalSecurity.org, 2000-2005
Gli editori del diario di Ben Gurion furono sorpresi nello scoprire che tra il l° aprile e il 15 maggio 1948 il leader della comunità ebraica in Palestina sembrava trascurare l'aspetto militare degli eventi. Invece pareva molto più preoccupato della politica interna sionista e si occupava intensamente di problemi organizzativi, tipo la trasformazione degli organismi della diaspora in organi del nuovo Stato d'Israele. Il suo diario, certamente, non tradisce nessuna sensazione di catastrofe annunciata o di "secondo Olocausto", come invece proclamava con enfasi nelle sue apparizioni pubbliche. Alla sua cerchia ristretta egli parlava un linguaggio differente. Ai membri del suo partito, il Mapai, già all'inizio di aprile, fece orgogliosamente un elenco dei villaggi che le truppe ebraiche avevano da poco occupato. In un'altra occasione, il 6 aprile, lo troviamo che rimprovera i membri di tendenza socialista del direttivo dell'Histadrut, i quali mettevano in dubbio il fatto che fosse più sensato attaccare i contadini invece che i loro padroni, gli effendi, manifestando così uno dei suoi pensieri fondamentali: «Non sono d'accordo con voi sul fatto che dobbiamo affrontare gli effendi invece dei contadini: i nostri nemici sono i contadini arabi!». Il suo diario si pone senza dubbio in netto contrasto con la paura che seminava durante gli incontri pubblici e, di conseguenza, nella memoria collettiva di Israele. Il diario indica che, già allora, egli aveva capito che la Palestina era ormai nelle sue mani. Non era, tuttavia, troppo sicuro di sé e non partecipò alle celebrazioni del 15 maggio 1948, conscio dell'enorme compito che lo attendeva: ripulire la Palestina e assicurarsi che gli attentati arabi non interrompessero l'espansione ebraica. Come la Consulta, anche egli temeva le conseguenze dello sviluppo in luoghi dove ci fosse un evidente squilibrio tra insediamenti ebraici isolati e un potenziale esercito arabo – come nel caso di remote zone della Galilea e del Negev e di alcune parti di Gerusalemme. Ben Gurion e i suoi colleghi, nondimeno, capivano perfettamente che questi problemi locali non avrebbero cambiato il quadro nel suo insieme: la capacità delle forze ebraiche di impadronirsi, anche prima del ritiro inglese, di molte aree che la Risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite aveva assegnato allo Stato ebraico. Dove "impadronirsi" era sinonimo di una sola cosa: l'espulsione massiva dei palestinesi, che vivevano lì, dalle loro case, dal loro lavoro e dalla loro terra, sia nelle città che nelle aree rurali.
Forse Ben Gurion non festeggiò pubblicamente con le masse
ebraiche che danzavano nelle strade il giorno in cui il Mandato
britannico si concluse ufficialmente, ma era ben consapevole che
la potenza delle forze militari ebraiche aveva già cominciato a mostrarsi sul
terreno. Quando il Piano Dalet fu messo in atto, l'Haganà disponeva di più di
50.000 effettivi, metà dei quali erano stati addestrati dall'esercito inglese
durante la seconda guerra mondiale. Era arrivato il momento di mettere in
funzione il piano.
Operazione Nachson: la prima operazione del Piano Dalet La strategia sionista di costruire insediamenti isolati al centro di aree arabe densamente popolate, approvata con effetto retroattivo dalle automa mandatarie inglesi, si dimostrò un peso in tempi di tensione. Non sempre si poteva garantire il trasporto di rifornimenti e di truppe fino a questi avamposti e quando tutto il paese era in fiamme, la strada per Gerusalemme proveniente da ovest, che attraversava numerosi villaggi palestinesi, era particolarmente difficile da difendere, creando un senso di assedio nella piccola popolazione ebraica della città. I leader sionisti erano preoccupati per gli ebrei di Gerusalemme anche per una diversa ragione: la maggior parte di loro appartenevano alle comunità ortodosse e mizrahi, e il loro impegno nei confronti del sionismo e delle sue aspirazioni era alquanto tenue o persino dubbio. Quindi, la prima area scelta per mettere in atto il Piano Dalet fu quella delle colline rurali sul fianco occidentale delle montagne di Gerusalemme, a metà strada lungo la via per Tel Aviv. L'operazione si chiamava Nachshon e sarebbe servita da modello per le campagne future: le improvvise espulsioni di massa servivano a provare i mezzi più efficaci per difendere gli insediamenti ebraici isolati o per liberare le strade in pericolo come quella che conduceva a Gerusalemme. A ogni brigata venne ordinato di prepararsi a spostarsi nel Mazav Dalet, Stato D, cioè di predisporsi a eseguire gli ordini del Piano D: «Vi sposterete verso lo Stato Dalet per un'operazione esecutiva del Piano Dalet», era la frase di apertura per ogni unità. E quindi «i villaggi che occuperete, ripulirete o distruggerete saranno decisi consultando i vostri esperti per gli affari arabi e i funzionari dell'intelligence». A giudicare dai risultati di quel periodo, aprile-maggio del 1948, le istruzioni erano di non risparmiare neanche un villaggio. Mentre il Piano Dalet ufficiale dava ai villaggi la possibilità di arrendersi, gli ordini operativi non risparmiarono nessun villaggio per nessuna ragione. Con ciò il Piano venne convertito nell'ordine militare di cominciare a distruggere i villaggi. Le date differivano a seconda della geografia: la brigata Alexandroni, che avrebbe imperversato sulla costa annientando decine di villaggi, lasciandone intatti solo due, ricevette gli ordini verso la fine di aprile. Le istruzioni di epurare la Galilea orientale arrivarono al quartier generale della brigata Golani il 6 maggio 1948 e il giorno successivo il primo villaggio nella loro "area", Shajara, venne evacuato. Le unità del Palmach ricevettero gli ordini per l'operazione Nachshon proprio il 1° aprile 1948. La notte precedente, la Consulta si era riunita a casa di Ben Gurion per definire le direttive alle unità. Gli ordini erano chiari: «il principale obiettivo dell'operazione è la distruzione dei villaggi arabi... e l'evacuazione degli abitanti in modo che loro divengano un peso economico per le forze arabe in generale». L'operazione Nachshon fu una novità anche sotto altri aspetti. Fu la prima operazione in cui tutte le varie organizzazioni militari ebraiche cercarono di agire insieme come un unico esercito, stabilendo le basi del futuro esercito israeliano di difesa (IDF). E fu la prima nella quale gli ebrei veterani dell'Europa orientale, che naturalmente dominavano la scena militare, si unirono in una campagna a fianco di altri gruppi etnici, quali i nuovi arrivati dal mondo arabo e dall'Europa post-Olocausto. Il comandante di uno dei battaglioni che parteciparono all'operazione, Uri Ben-Ari, scrisse nelle sue memorie che «la fusione delle varie diaspore» fu uno dei più importanti traguardi della Nachshon. Ben-Ari era un giovane tedesco arrivato in Palestina alcuni anni prima. La sua unità effettuò i preparativi finali per la Nachshon sulla costa del Mediterraneo, presso Hadera. Egli ricorda di essersi paragonato ai generali russi che avevano combattuto contro i nazisti durante la seconda guerra mondiale. I "nazisti" nel suo caso erano i molti villaggi palestinesi indifesi in prossimità della strada Giaffa-Gerusalemme e i gruppi paramilitari di Abd al-Qadir al-Husayni venuti in loro soccorso. Le unità di al-Husayni avevano compiuto rappresaglie, dopo i primi attacchi ebraici, sparando a caso contro i convogli ebraici che transitavano sulla strada, ferendo e uccidendo i passeggeri. Ma gli abitanti dei villaggi, come ovunque in Palestina, cercavano di continuare una vita normale, ignari dell'immagine demoniaca attribuita loro da Ben-Ari e dai suoi commilitoni. In pochi giorni la maggior parte sarebbe stata espulsa per sempre dalle case e dai campi nei quali loro e i loro antenati avevano vissuto e lavorato per secoli. I gruppi paramilitari palestinesi al comando di Abd al-Qadir al-Husayni opposero una resistenza superiore alle previsioni del battaglione di Ben-Ari, il che significa che all'inizio l'operazione Nachshon non andò secondo i piani. Tuttavia, il 9 aprile la campagna era terminata. | << | < | > | >> |Pagina 166Il 9 aprile, mentre difendeva Qastal, Abd al-Qadir al-Husayni venne ucciso in battaglia. La sua morte demoralizzò a tal punto le sue truppe, che gli altri villaggi intorno a Gerusalemme caddero rapidamente nelle mani delle forze ebraiche. Uno alla volta, furono circondati, attaccati e occupati, gli abitanti espulsi e le loro case ed edifici demoliti. In alcuni di questi villaggi, l'espulsione fu accompagnata da massacri, il più noto dei quali fu quello che le truppe ebraiche perpetrarono a Deir Yassin, lo stesso giorno della caduta di Qastal.Deir Yassin La natura sistematica del Piano Dalet fu evidente a Deir Yassin, un villaggio pastorale e amico che aveva sottoscritto un patto di non aggressione con l'Haganà a Gerusalemme, ma che fu condannato a essere distrutto perché si trovava all'interno dell'area destinata all'epurazione. A causa dell'accordo preventivamente firmato con il villaggio, l'Haganà per liberarsi da qualsiasi responsabilità ufficiale, decise di inviare l'Irgun e le truppe della Banda Stern. Nelle successive epurazioni di villaggi "amici" faranno a meno anche di questo stratagemma. Il 19 aprile 1948 forze ebraiche occuparono il villaggio di Deir Yassin situato su una collina a ovest di Gerusalemme, ottocento metri sul livello del mare e vicino all'insediamento ebraico di Givat Shaul. La vecchia scuola del villaggio funge oggi da ospedale psichiatrico per quel quartiere ebraico che si è sviluppato sull'area del villaggio distrutto. Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise. Fahim Zaydan, che all'epoca aveva dodici anni, così ricorda l'esecuzione della sua famiglia davanti ai suoi occhi: Ci portarono fuori uno dopo l'altro; spararono a un uomo anziano e quando una delle sue figlie si mise a piangere spararono anche a lei. Poi chiamarono mio fratello Muhammad e gli spararono davanti a noi, e quando mia madre gridò chinandosi su di lui, con in braccio la mia sorellina Hudra che stava ancora allattando, spararono anche a lei. Spararono anche allo stesso Zaydan, insieme a un gruppo di bambini allineati contro un muro che gli ebrei crivellarono di colpi "solo per divertimento" prima di andarsene. Fu fortunato a sopravvivere nonostante le ferite. Una recente ricerca ha ridotto il numero delle persone massacrate a Deir Yassin da 170 a 93. Naturalmente, a parte le vittime del massacro, decine di altri individui furono uccisi in combattimento e perciò non vennero inseriti nella lista ufficiale delle vittime. Comunque, poiché le truppe ebraiche consideravano ogni villaggio palestinese una base militare nemica, la distinzione tra massacrare gli abitanti e ucciderli "in battaglia" era di scarsa importanza. Bisogna solo dire che tra le persone massacrate a Deir Yassin vi erano trenta neonati: si capisce così che il calcolo "quantitativo" - che gli israeliani hanno ripetuto recentemente, nell'aprile del 2002, nel massacro di Jenin — è privo di senso. Allora, la leadership ebraica annunciò orgogliosamente un alto numero di vittime, in modo da fare di Deir Yassin l'epicentro della catastrofe — un avvertimento per tutti i palestinesi: un destino simile attendeva coloro che si fossero rifiutati di abbandonare le loro case e fuggire. Poi fu la volta di quattro villaggi nelle vicinanze: Qalunya, Saris, Beit Surik e Biddu. Impiegando un'ora o poco più per ciascun villaggio, le unità dell'Haganà fecero saltare in aria le case e cacciarono gli abitanti. Stranamente (o, meglio, ironicamente) gli ufficiali dell'Haganà dichiararono che dovettero lottare con i loro subordinati per evitare un saccheggio selvaggio dopo ogni occupazione. Ben-Ari, che dirigeva i genieri responsabili dell'esplosione delle case, racconta nelle sue memorie come avesse, da solo, fermato il saccheggio di questi villaggi, ma tale affermazione sembra come minimo esagerata, dato che i contadini scapparono senza niente, mentre le loro cose presero la strada dei salotti e delle fattorie dei soldati e degli ufficiali, come ricordi di guerra. In quell'area furono risparmiati solo due villaggi: Abu Ghawsh e Nabi Samuil. Questo perché i loro mukhtar avevano stabilito un rapporto relativamente buono con i comandanti locali della Banda Stern. Ironicamente, ciò li salvò dalla distruzione e dall'espulsione: mentre l'Haganà voleva demolirli, il gruppo più estremista accorse in loro aiuto. Questa fu, tuttavia, una rara eccezione e centinaia di villaggi subirono lo stesso destino di Qalunya e di Qastal. | << | < | > | >> |Pagina 122Mentre si recavano all'incontro con il comandante britannico, i quattro uomini avevano già potuto sentire gli ebrei che incitavano con altoparlanti donne e bambini ad andarsene prima che fosse troppo tardi. In altre parti della città gli altoparlanti diffondevano un messaggio opposto da parte del sindaco ebreo della città, Shabtai Levi, una persona rispettabile sotto tutti i punti di vista, il quale scongiurava la gente di rimanere e prometteva che non sarebbe accaduto loro nulla di male. Ma era Mordechai Maklef, l'ufficiale operativo della brigata Carmeli, a comandare, e non Levi. Maklef orchestrò la campagna di epurazione e gli ordini che diede alle sue truppe erano chiari e semplici. «Uccidete ogni arabo che incontrate, bruciate ogni oggetto infiammabile e buttate giù le porte delle case con l'esplosivo» (In seguito divenne capo di Stato maggiore dell'esercito israeliano).Nel momento in cui questi ordini furono eseguiti, nel chilometro e mezzo quadrato dove abitavano ancora migliaia di palestinesi indifesi, lo shock e il terrore furono tali che, senza raccogliere i loro averi o senza neanche rendersi conto di cosa stessero facendo, gli abitanti cominciarono a fuggire in massa. Presi dal panico si diressero verso il porto, dove speravano di trovare una nave o barche che li portassero via dalla città. Subito dopo la loro fuga le truppe ebraiche irruppero in città e saccheggiarono le loro case. Quando Golda Meir, uno dei primi e più autorevoli leader sionisti, visitò Haifa alcuni giorni dopo, a fatica soffocò un primo sentimento di orrore entrando nelle case dove vi era ancora il cibo sulla tavola, i bambini avevano lasciato libri e giochi sul pavimento e la vita sembrava èssersi congelata all'istante. La Meir era venuta in Palestina dagli Stati Uniti dove la sua famiglia era fuggita alla vigilia dei pogrom sovietici e quella vista le ricordò le peggiori storie che la sua famiglia le aveva raccontato sulla brutalità dei russi nei confronti degli ebrei parecchi anni addietro. Ma evidentemente questo non lasciò nessun segno duraturo sulla determinazione dei suoi complici a continuare la pulizia etnica della Palestina. All'alba del 22 aprile la gente cominciò ad affluire al porto. Poiché in quella parte della città le strade erano già superaffollate di persone in fuga, i leader improvvisati della comunità araba tentarono di mettere un po' d'ordine in quel caos. Si sentivano altoparlanti che spingevano la gente a radunarsi nella vecchia piazza del mercato vicino al porto e a rifugiarsi lì fino a quando non si riusciva a organizzare un'evacuazione ordinata via mare. «Gli ebrei hanno occupato Stanton road e stanno arrivando», urlava l'altoparlante. Il diario di guerra della brigata Carmeli, che riporta la cronaca delle loro azioni, mostra ben pochi rimorsi su ciò che avvenne in seguito. Gli ufficiali della brigata, sapendo che la popolazione era stata avvisata di radunarsi vicino all'entrata del porto, ordinarono agli uomini di piazzare mortai da tre pollici sui pendii della montagna sopra il mercato e il porto – dove oggi c'è l'ospedale Rothschild – e di bombardare la folla che si ammassava lì sotto. Questo per impedire alla gente di ripensarci e di assicurarsi che la fuga avvenisse in un'unica direzione. Una volta che i palestinesi si fossero radunati nella piazza del mercato – un gioiello architettonico risalente al periodo ottomano con tetti a volta, ma irriconoscibile dopo la sua distruzione successiva alla creazione dello Stato d'Israele – sarebbero stati un facile bersaglio per i tiratori scelti ebrei. Il mercato di Haifa era a circa trenta metri dall'entrata principale del porto. Quando iniziò il bombardamento questa era la naturale via di fuga per i palestinesi presi dal panico. Quindi la folla fece irruzione nel porto scavalcando i poliziotti di guardia all'entrata. Centinaia di persone presero d'assalto le imbarcazioni ormeggiate e cominciarono a fuggire dalla città. Sappiamo che cosa accadde poi dai tremendi ricordi, di recente pubblicati, di alcuni sopravvissuti. Ne riporto uno: Uomini che calpestavano gli amici, le donne e perfino i propri figli. Le barche si riempirono subito di un carico umano, e tutti erano orrendamente pigiati. Molte barche si capovolsero e affondarono con tutti dentro. | << | < | > | >> |Pagina 236Il massacro di DawaymehPoi c'era il villaggio di Dawaymenh tra Beersheva e Hebron. Ciò che accadde qui è probabilmente il peggiore episodio negli annali delle atrocità della Nakba. Il villaggio venne occupato dall'89° battaglione dell'Ottava brigata. La Commissione ONU di Conciliazione della Palestina che, come abbiamo gia detto, aveva sostituito il conte Bernadotte nell'opera di mediazione dell'ONU, convocò una speciale sessione di indagini su ciò che accadde il 28 ottobre 1948 in questo villaggio, a meno di tre miglia a ovest dalla città di Hebron. La popolazione era originariamente di 2000 abitanti, ma 4000 rifugiati ne avevano triplicato il numero. Il rapporto ONU del 14 giugno 1949 (oggi accessibile su Internet semplicemente digitando il nome del villaggio) recita: La ragione per cui si sa così poco di questo massacro, che, sotto molti aspetti, fu più brutale del massacro di Deir Yassin, è che la Legione Araba (l'esercito che controllava l'area) temeva che, se si fosse sparsa la notizia, questa avrebbe avuto lo stesso effetto sul morale dei contadini di quella relativa a Deir Yassin, cioè di causare un'altra ondata di profughi arabi. È probabile che i giordani temessero, giustamente, di essere accusati di impotenza e mancanza di reazione. Il rapporto del PCC si basava principalmente sulla testimonianza del mukhtar Hassan Mahmoud Ihdeib e molto di ciò che egli riferisce venne confermato dai rapporti depositati negli archivi militari israeliani. Un noto scrittore israeliano, Amos Keinan, che partecipò al massacro, ne diede conferma in un'intervista rilasciata verso la fine degli anni Novanta all'attore e regista palestinese Muhammad Bakri per il suo documentario 1948. Il 28 ottobre, mezz'ora dopo la preghiera del mezzogiorno, ricorda il muhktar, venti autoblindo entrarono nel villaggio da Qubayba mentre i soldati attaccavano simultaneamente dal fianco opposto. I venti uomini che difendevano il villaggio restarono paralizzati dal terrore. I soldati sulle autoblindo aprirono il fuoco con mitragliatrici e mortai, facendosi strada nel villaggio con un movimento semicircolare. Seguendo una collaudata procedura, essi circondarono il villaggio su tre fianchi lasciando aperto il lato est per far uscire da lì 6000 persone in un'ora. Poiché non ci riuscirono, le truppe saltarono giù dai veicoli e cominciarono a sparare alla cieca. Molti abitanti corsero a rifugiarsi nella moschea o fuggirono lì vicino in una caverna sacra chiamata Iraq al-Zagh. Arrischiatosi a tornare al villaggio il giorno successivo, il mukhtar scorse con orrore le pile di morti nella moschea – e molti di più sparsi per le strade –, uomini, donne e bambini, tra cui riconobbe il proprio padre. Quando andò alla caverna trovò l'entrata bloccata da dozzine di cadaveri. Il mukhtar contò che mancavano all'appello 455 persone, di cui circa 170 tra donne e bambini. Anche i soldati ebrei che presero parte al massacro riferirono scene raccapriccianti: neonati col cranio spaccato, donne violentate o bruciate vive dentro casa, uomini uccisi a coltellate. Questi non sono rapporti di anni successivi, bensì resoconti di testimoni oculari inviati all'Alto Comando pochi giorni dopo l'accaduto. Le brutalità che descrivono mi convincono sempre più su quanto siano vere le accurate descrizioni, precedentemente citate, sugli odiosi crimini commessi dai soldati israeliani a Tantura, Safsaf e Sa'sa, ricostruite principalmente tramite testimonianze palestinesi e storie orali. Questo fu il risultato finale dell'ordine che il comandante dell'89° Battaglione dell'Ottava brigata aveva ricevuto dal capo di Stato maggiore, Yigael Yadin: «I vostri preparativi devono includere guerra psicologica e "trattamento" (tipul) dei cittadini come parte integrante dell'operazione». Il massacro di Dawaymeh fu l'ultima grande carneficina perpetrata dalle truppe israeliane fino al 1956, quando fu fatta strage di 49 abitanti di Kfar Qassim, un villaggio passato a Israele dopo l'armistizio con la Giordania. Pulizia etnica non è genocidio, ma comporta atti atroci di uccisioni di massa e stragi. Migliaia di palestinesi furono ammazzati brutalmente e selvaggiamente da militari israeliani di ogni età, provenienti da ogni ambiente e ceto sociale. Nessuno di questi israeliani fu mai processato per crimini di guerra, nonostante le prove schiaccianti.
E se, qua e là nel '48, qualcuno ebbe dei rimorsi, come rivela
una poesia di Natan Alterman – quello stesso Alterman che nel
1945 aveva paragonato i palestinesi ai nazisti –, si trattava solo di
un'altra esibizione dello "spara-e-piangi", un modo moralistico
tipico degli israeliani di autoassolversi. Quando sentì della brutale
carneficina di civili innocenti nel Nord durante l'operazione Hiram, Alterman
scrisse
Su una jeep attraversò la strada Un giovane uomo, Principe delle Bestie Un'anziana coppia si rannicchiò al muro Ed egli, con angelico sorriso, gridò: «Voglio provare il mitra», e così fece Spruzzando il cofano con il sangue del vecchio.
Contrizioni come quelle di Alterman non impedirono certo
alle forze militari di portare a compimento la loro missione di
"pulizia" della Palestina, un obiettivo a cui si applicarono con livelli sempre
maggiori di crudeltà e spietatezza. Di conseguenza,
dal novembre del '48 fino agli accordi finali con Siria e Libano
nell'estate del '49, vennero occupati altri 87 villaggi di cui 36 evacuati a
forza, mentre dai restanti venne selezionato un numero di
persone da deportare. Con l'inizio del 1950, l'energia e la risolutezza degli
invasori cominciarono finalmente a scemare e quei
palestinesi che ancora vivevano in Palestina – allora divisa in Stato d'Israele,
Cisgiordania giordana e Striscia di Gaza egiziana – erano in gran parte al
riparo da ulteriori espulsioni. È pur vero
che restavano vulnerabili in quanto sottoposti a regimi militari
sia in Israele che in Egitto. Ma quali che siano le pene che dovettero subire,
fu sempre un destino migliore di quello sopportato
durante quell'anno di orrori che ora chiamiamo la Nakba.
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