Manifestazioni dentro e fuori la Palestina a 65 anni dalla Nakba
Nakba, letteralmente "disastro", "catastrofe", o "cataclisma" così fu definita nel mondo arabo, e in Palestina, l'esodo delle popolazioni arabe, iniziato il 15 maggio 1948 da quando il Regno Unito ritiratosi dalla Palestina, attribuì a Israele la sovranità su quei territori.
In queste ore, nella giornata della ricorrenza del 65° anniversario,
manifestazioni si stanno tenendo in molti paesi occidentali oltre che in Cisgiordania,
nella Striscia di Gaza, a Ramallah , Nablus, Tulkarem, Hebron e a Betlemme, dove
una marcia dal campo profughi è stata bloccata dall’esercito
israeliano in prossimità del chechpoint di Husan.
Per ricordare l’inizio dell’esilio, per oltre 700mila persone, saranno lanciati,
simbolicamente, a Gerusalemme est, centinaia di palloncini colorati con
messaggi, ''lettere del ritorno'', indirizzati ai profughi, cacciati o fuggiti
dalle loro case per spianare la strada alla nascita dello Stato di Israele.
Si stima che i discendenti degli espulsi, dispersi attraverso una incessante
diaspora, siano circa 5 milioni.
Oggi e nei prossimi giorni, nei Territori occupati e tra le comunità palestinesi
in Israele, oltre a manifestazioni e cortei si terranno molte iniziative
culturali tra cui, concerti e rappresentazioni teatrali.
Secondo indiscrezioni diffusesi nelle ultime ore, oggi alcuni attivisti
cercheranno di ridare vita al villaggio di tende di "Bab el Shams", piccolo
avamposto palestinese, creato lo scorso gennaio nel corridoio di terra E1, tra
Gerusalemme Est e la colonia israeliana di Maale Adumim.
La speranza è che il clima politico distensivo di questi giorni contribuisca a
non innescare atti di violenza reciproca.
E’ del 2 maggio la proposta del premier israeliano di sottoporre a referendum
popolare la decisione del raggiungimento di un accordo di pace con i
palestinesi.
Netanyahu è alla guida di una coalizione di centro destra, di cui fanno parte
molti coloni, particolarmente contrari all’idea di consentire alla Palestina di
diventare uno Stato indipendente, sui territori di cui Israele si è appropriato
a seguito della guerra dei 6 giorni del 1967.
Attraverso il referendum, il premier spera di tenere a bada l’estrema destra con
l'auspicio che si possa arrivare a una sorta di baratto "terra in cambio della
pace". Lasciando però l’ultima parola agli elettori, lavandosi in un certo senso
le mani e dando all’esterno l’impressione di un grande atto di democrazia.
I colloqui di pace diretti tra israeliani e palestinesi si erano interrotti nel
2010 a causa dell’incessante costruzione di insediamenti ebrei.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha di fatto ora congelato la costruzione di
nuovi insediamenti interrompendo la pubblicazione dei bandi per la costruzione
delle nuove case in territorio palestinese, adempiendo al pre-requisito che
poneva il presidente palestinese Abu Mazen. Cioè quello di avviare i negoziati
solo nel momento in cui Israele avesse interrotto la costruzione di nuovi
insediamenti.
Questo passo si è reso necessario anche per non ostacolare gli sforzi degli
Stati Uniti in direzione di una ripresa delle trattative di pace. Solo pochi
giorni fa il segretario di Stato John Kerry ha avviato con Israele e Palestina
dei negoziati paralleli che potrebbero portare a un punto di svolta. A tal
proposito Kerry si è incontrato, a Roma, con il ministro della Giustizia
israeliano,Tzipi Livni, incaricata per le negoziazioni dal premier Netanyahu, e
successivamente con il ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh, inviato di
un paese particolarmente interessato dal negoziato fra palestinesi e israeliani
a causa delle contese sui territori di confine.
La Palestina cerca intanto di darsi un governo di unità nazionale con un accordo
che è stato raggiunto a Il Cairo dagli esponenti di Hamas e Fatah, nel quadro
del nuovo ciclo di incontri promosso per arrivare a una riconciliazione.
Paolo Carotenuto