PAESI CHE PERSEGUONO L’INDIPENDENZA

Nascita di un blocco dell’atomo nell’Europa dell’Est

Mentre la Germania porta avanti a tappe forzate il suo programma di uscita dal nucleare, i suoi vicini dell’Est sono impegnati nella costruzione di nuovi reattori. Per Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, si tratta di conquistare l’indipendenza energetica rispetto al gas russo. Ma ai suoi vecchi satelliti, Mosca venderebbe volentieri anche delle centrali…

 

«LA CENTRALE nucleare è la cosa migliore che ci sia mai successa». Baffi curati, sguardo fisso, János Hajdú lascia trasparire una soddisfazione sincera. Sopra la scrivania, il sindaco di Paks ha appeso il vessillo della città, che esibisce il simbolo argentato dell’atomo. «Paks è una cittadina di diciannovemilacinquecento abitanti, ma qui i salari sono più alti della media nazionale e le infrastrutture sono migliori. Vengono da tutto il paese a visitare la centrale. È il nostro orgoglio». Sui bordi del Danubio, al centro dell’Ungheria, il nucleare non sembra oggetto di discussione. Fervente promotore dell’atomo, Hajdú gli deve la rielezione, nell’ottobre 2010, per il terzo mandato consecutivo. «Adesso il governo parla di ingrandire la centrale. Aspettiamo con impazienza, perché il paese ne ricaverà una maggiore indipendenza energetica, e la nostra città un ulteriore dinamismo.»

Una cooperazioneche risale all’epoca sovietica

A MENO di cinque chilometri di distanza, in fondo a una stradina alberata, i due blocchi verde sbiadito della Mvm Paksi Atomerőmű, la centrale di Paks, ospitano un’attività frenetica. Con aria gioviale, Csaba Dohóczki, responsabile comunicazione dell’impianto, ci garantisce la sicurezza ottimale del sito: «Qui lavorano oltre duemilaquattrocento persone. Lo vedete, è un vero e proprio formicaio.» Dopo rapidi controlli, Dohóczki accompagna il visitatore nei meandri del blocco delle unità 1 e 2. Qui nell’aprile 2003 si verificò un incidente, classificato 3 sulla scala internazionale degli eventi nucleari (International Nuclear Event Scale, Ines) (1), durante la ricarica annuale del combustibile del reattore n. 2, rimasto poi fuori servizio quasi diciotto mesi. «Abbiamo ricevuto l’avallo delle autorità di sicurezza ungheresi e internazionali per riavviare l’attività. Dal 2012, abbiamo superato senza difficoltà i test di resistenza della Commissione europea. E alla fine dell’anno, la durata di operatività del reattore n.1 è stata prolungata fino al 2032. Significa che godiamo di un livello di fiducia molto elevato.»

Arrivati sulla passerella sopraelevata dalla quale si osserva l’immensa sala dei reattori, il tono diventa più solenne: «Fra questi muri, i nostri quattro reattori producono il 43% dell’elettricità del paese, spiega Dohóczki indicando le installazioni. Puntiamo alla massima trasparenza, perché è fondamentale per noi assicurarci il sostegno non solo dei nostri vicini ma della popolazione in generale.» Un sostegno che il governo ungherese sembra dare per acquisito. Si impegna infatti nella costruzione di nuovi reattori a Paks, nell’ottica di portare la parte del nucleare al 60% della produzione elettrica del paese entro il 2025.

In una Unione europea sempre più dubbiosa sui benefici dell’atomo, dopo lo shock della catastrofe di Fukushima in Giappone nel marzo 2011, l’iniziativa può sorprendere. Ma la politica di Budapest si iscrive in una tendenza regionale. Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, i quattro paesi che formano il gruppo di Visegrád, o V4 (si legga il riquadro qui sotto), fanno del nucleare una componente essenziale della propria politica energetica e uno strumento di emancipazione dalle importazione di idrocarburi russi.

Questa tendenza risale alla cooperazione fra i regimi dell’ex blocco socialista. Nel 1958 la defunta Cecoslovacchia aveva iniziato la costruzione del suo primo reattore, del tipo sperimentale KS150/A-1 a Jaslovské Bohunice (2). Quattordici reattori, tutti del tipo Vver ad acqua pressurizzata, di ispirazione sovietica, per la maggior parte entrati in funzione negli anni 1’80, sono tuttora in servizio in cinque centrali: Paks in Ungheria, Jaslovské Bohunice e Mochovce in Slovacchia (quattro reattori che producono il 54% dell’energia elettrica del paese), Dukovany e Temelín nella Repubblica ceca (sei reattori e il 33% della produzione di energia elettrica). Come per l’unità n.1 di Paks, le autorità progettano di prolungare per diversi anni l’attività della gran parte dei reattori. E di installare capacità aggiuntive, come i due Vver-400/v-213 di Mochovce, che devono essere messi in funzione entro il 2014. Altre due unità dovrebbero essere aggiunte anche a Temelín, una a Dukovany e due a Jaslovské Bohunice.

La Repubblica popolare di Polonia aveva tardato a iniziare la costruzione di una prima centrale a Zarnowiec, sui bordi del mar Baltico. L’impatto dell’esplosione del reattore n. 4 di Chernobyl, nell’aprile 1986, così come i cambiamenti politici ed economici della fine degli anni ’80 avevano ostacolato il progetto. La costruzione fu bloccata nel dicembre 1990 e le attrezzature destinate alla centrale furono rivendute. «Una fortuna per Paks, che ha potuto acquisire a buon mercato una cisterna di reattore », confida Dohóczki con un sorriso. L’esecutivo polacco, che da molti anni persegue la diversificazione della produzione nazionale di elettricità, attualmente dipendente all’86,5% dal carbone, ha lanciato un programma di sviluppo dell’energia nucleare che prevede il completamento di due centrali entro il 2025.

Le popolazioni non si oppongono

IL GRUPPO di Visegrád gode tradizionalmente di un forte sostegno da parte delle popolazioni. Nel marzo 2010, l’Eurobarometro su «europei e sicurezza nucleare» indicava che l’86% degli intervistati in Repubblica ceca, il 76% in Slovacchia e in Ungheria e il 70% in Polonia erano a favore del mantenimento o dell’aumento della quota di energia nucleare nel mix energetico dei loro paesi. «Dopo Fukushima non è stato fatto alcuno studio comparativo su ampia scala, nel timore che ne uscisse una bocciatura significativa. Ma, due anni dopo, devo constatare che un forte movimento di opposizione non c’è stato», dice con amarezza Jakub Patocka, ex dirigente di Strana Zelených, il partito verde ceco.

Nei Parlamenti nazionali dei V4 non è presente alcun partito ecologista, salvo gli otto deputati del partito ungherese Lehet Más a Politika (Lmp, Un’altra politica è possibile) (3).«Questa situazione ci mette in difficoltà rispetto ai nostri vicini austriaci, che nel 1978 hanno rifiutato per via referendaria il ricorso al nucleare, e soprattutto rispetto ai tedeschi e alla loro Energiewende [svolta energetica]», constata Patocka. Nel giugno 2011, il governo di Angela Merkel annunciava la chiusura immediata di otto dei diciassette reattori tedeschi, e l’uscita progressiva dal nucleare entro il 2022. Questa storica decisione rimette in questione, almeno su un piano retorico, le prospettive dell’atomo in seno all’Unione europea, e spiega in parte il rifiuto da parte degli elettori lituani e bulgari di progetti di costruzione di nuove centrali sui loro territori (4).

Ai margini di un’Europa presa dai dubbi, i V4 costituiscono dunque un nuovo «blocco dell’atomo», che intende far rispettare i propri orientamenti. «La Slovacchia ha dovuto risolversi a chiudere due dei suoi reattori a Jaslovské Bohunice, perché era una delle condizioni per l’adesione all’Unione europea, ricorda Kristián Takác, consigliere speciale presso il ministro dell’economia slovacco. I nostri esperti dubitavano della necessità di questa chiusura. E, in seguito alla perdita di questi due reattori, la Slovacchia è diventata importatrice netta di elettricità.» Come nella Repubblica ceca, i progetti di espansione nucleare slovacchi sono motivati dalla ricerca dell’indipendenza energetica, ma anche dalla prospettiva di esportare elettricità ai paesi vicini. «Senza il suo nucleare, la Germania avrà presto un bisogno crescente di elettricità E saremo noi a fornirla», prevede Takác, che ha molte riserve sulla politica di Berlino.

Tanto più che la «svolta energetica» ha ripercussioni rilevanti nella regione. «La rete distributiva tedesca non è adattata alle forti fluttuazioni di potenza nel transito dalle grandi fattorie eoliche del Nord e i centri industriali del Sud (5). Ci sono ripercussioni davvero inquietanti sulle reti polacche e ceche», critica Václav Bartuska, portavoce del governo ceco per l’espansione della centrale di Temelín. Polacchi e cechi si sforzano di installare trasformatori e «divisori di fase» alle loro frontiere con la Germania per contenere questi flussi instabili ed evitare un riscaldamento incontrollato. «Mentre si parla di consolidare un mercato europeo dell’energia, la scelta dei tedeschi è assolutamente egoista, ed è stata fatta senza previe consultazioni.»

La Repubblica ceca non è al primo confronto con i vicini. La costruzione della centrale di Temelín, alla fine degli anni 1990, aveva suscitato vive proteste da parte di tedeschi e austriaci. Parallelamente alle azioni delle organizzazioni antinucleariste che, nel settembre 2000, avevano per esempio bloccato i ventisei punti di passaggio fra l’Austria e la Repubblica ceca, Andreas Molin, portavoce del governo austriaco per gli affari nucleari, aveva criticato i criteri di sicurezza di Temelín e richiesto che si allineassero a quelli delle centrali tedesche, considerati fra i più elevati in Europa. «Sono circolate molte voci intorno alle centrali nucleari di questi “nuovi” paesi, deplora Pal Vincze, capo del dipartimento di ingegneria dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) a Vienna (6). Tanto rumore per nulla. Sotto diversi aspetti, le loro condizioni di sicurezza sono molto più elaborate di quelle delle centrali di altri paesi europei. »

Per la Polonia è una questione di orgoglio nazionale

MALGRADO TUTTO, sui due lati del confine sembra sussistere una diffidenza reciproca. Nei corridoi del ministro dell’ambiente a Vienna, tutte le porte recano lo slogan «Atomfrei!» («Senza nucleare!»). Nel suo ufficio, Molin continua a sostenere la propria posizione con un tono pedagogico. «Sì, la sicurezza delle centrali che operano appena al di là dei nostri confini ci preoccupa. No, non diamo istruzioni ai nostri vicini.» Egli non nasconde tuttavia la soddisfazione per l’annuncio di una recente iniziativa governativa che mira ad attribuire dei «certificati d’origine » all’elettricità importata in Austria, per garantire che non sia stata prodotta da un reattore nucleare. Un sistema complesso, denunciato dai paesi vicini come una nuova forma di ingerenza di Vienna nella loro politica energetica.«In quanto consumatori, chiediamo solo una garanzia di qualità per l’elettricità che acquistiamo, si difende Molin. Certo, vogliamo proteggere i nostri successi in materia di fonti rinnovabili. E se questo sistema può incitare i nostri fornitori a sviluppare energie “pulite”, tanto meglio.»

Dall’altro lato della frontiera, nella Repubblica ceca, le rinnovabili fanno digrignare i denti (si legga il riquadro qui sotto).«Non solo i nostri paesi non dispongono dell’idraulico austriaco o dell’eolico tedesco, ma è anche evidente che questi non bastano, sostiene Iva Kubánová, responsabile qualità e sicurezza delle future unità n. 3 e 4 della centrale di Temelín in seno a Ceské Energetické Závody (Cez, Imprese energetiche ceche), la compagnia dominante sul mercato ceco. I tedeschi stanno perfino riaprendo centrali a carbone per compensare la chiusura dei loro reattori! Non mi pare un buon esempio di sviluppo “verde”. Nella Repubblica ceca, il nucleare è a buon mercato, affidabile e pulito.»

Come Magyar Villamos Műve (Mvm) in Ungheria e Slovenské Elektrárne – Enel in Slovacchia (7), l’impresa ceca si è dotata di mezzi per far valere i propri argomenti. Nel villaggio di Temelín, a meno di tre chilometri dalla centrale, il logo arancione di Cez è onnipresente, anche nella sede del club di football e nei bar-ristoranti del posto. Nel 2011 il gruppo ha speso 423,7 milioni di corone ceche (circa 16,8 milioni di euro) in sponsorizzazioni, soprattutto nelle regioni dove sono localizzate le centrali. «Vogliamo essere considerati dei buoni vicini. È normale che contribuiamo alla vita delle località interessate», spiega Kubánová.

«Propaganda, denuncia con tono placido Jan Haverkamp, che per l’organizzazione non governativa (Ong) Greenpeace ha realizzato diverse campagne antinucleari e che è considerato la bestia nera delle compagnie energetiche della regione. Le loro pretese campagne di informazione hanno un unico obiettivo, dimostrare semplicisticamente che il nucleare è del tutto sicuro, e che non ci sono soluzioni alternative credibili. Parallelamente, comprano l’opinione pubblica con generose donazioni.»

L’argomento trova una eco più a nord, dal momento che il governo polacco e Polska Group Energetyczna (Pge Sa, gruppo energetico della Polonia), il principale produttore di elettricità del paese, hanno lanciato una serie di consultazioni sull’attuazione del programma di energia nucleare adottato nel gennaio 2011. Secondo il primo ministro Donald Tusk, la costruzione delle due centrali, che produrrebbero 6.000 megawatt (Mw) di energia elettrica, richiederebbe 40 miliardi di zlotys (circa 9,6 miliardi di euro). «Prevediamo di mettere in servizio il primo reattore entro il 2023-2024», spiega Hanna Trojanowska, sottosegretaria di Stato all’economia e plenipotenziaria per l’energia nucleare. Riconoscendo tuttavia che, una volta concluse, le centrali produrranno solo il 17% dell’energia elettrica del paese.

«La Polonia è l’ultimo grande paese europeo a non aver vissuto la propria “esperienza nucleare”. Penso che questo progetto non risponda a un bisogno reale, e si tratti piuttosto di una questione di orgoglio nazionale », osserva Andrzej Rozenek, portavoce del Ruch Palikota (movimento Palikot) alla Sejm (Dieta), la Camera bassa del Parlamento. Benché la maggioranza delle forze politiche sostenga la produzione nucleare in Polonia, l’atomo sembra fare meno proseliti che negli altri V4. Alla fine del 2012 il programma era sostenuto solo dal 52% della popolazione, ed è fortemente contestato, in particolare nella selezione dei siti di costruzione. «Gli abitanti di Gaski si sono pronunciati chiaramente, con referendum, contro la costruzione di una centrale nel territorio comunale. Il governo polacco si dice democratico, quindi non può far finta di nulla», dice Beata Maciejewska, cofondatrice del think tank Zielony Instytut (Istituto verde). Dal canto suo Hanna Trojanowska non pensa all’organizzazione di un referendum nazionale, ma rivendica un crescente appoggio da parte del pubblico polacco, grazie alla campagna «di informazione ed educazione» che sta portando avanti. Una campagna che anche in Polonia avrebbe piuttosto le caratteristiche di una «propaganda», secondo Maciejewska, la quale condanna la «testardaggine» del governo come un «non senso, in particolare in un periodo di rallentamento dell’economia».

Assegnazioni di mercato molto politiche

LA POLONIA, che nel 2012-2013 ha la presidenza di turno del gruppo di Visegrad, si è data fra le priorità la «promozione del nucleare come fonte di energia equivalente [alle altre fonti]» e la creazione di un gruppo di lavoro intergovernativo sulla materia. Malgrado la recente integrazione dei mercati energetici ceco, slovacco e ungherese, la modernizzazione e il miglioramento delle interconnessioni regionali, condizioni per una vera regionalizzazione della produzione nucleare, non sono all’ordine del giorno. «Ciascuno vuole la propria centrale, riassume Gérard Cognet, delegato del Commissariato all’energia atomica (Cea) per la regione. Ma se le costruiscono tutte, non tutte potranno esportare verso la Germania, pur essendo il loro modello economico basato sull’esportazione. »

Resta da capire chi costruirà quelle centrali e quei reattori. La Francia è molto impegnata nello sviluppo di un’industria del nucleare in Polonia fin dall’incontro, il 5 novembre 2009, fra Tusk e Nicolas Sarkozy. Areva e il suo partner Electricité e France (Edf) propongono dei reattori pressurizzati europei (Evolutionary Power Reactor, Epr) e sono fra i favoriti nella selezione, che li contrappone per ora al gruppo nippo-statunitense GE Hitachi e allo statunitense Westinghouse (controllato dal giapponese Toshiba). Il bando di gara per l’appalto dovrebbe essere pubblicato al massimo entro il 2015. «Questo appalto è cruciale per Areva. È la sua ultima possibilità nella regione», dichiara Haverkamp con un sorriso ironico. Si riferisce all’estromissione del gruppo francese dalla competizione per la costruzione delle unità n. 3 e 4 di Temelín, ufficialmente per non rispondenza rispetto ai requisiti legali nella procedura d’appalto (8). «Un’esclusione deplorevole e poco comprensibile» per Kubánová, tanto più che questa gara d’appalto è considerata una prima tappa per altri progetti di reattori nella regione, portati avanti in parte dal consorzio Energetická Spolocnost Slovenska (Jess, Società elettrica nucleare della Slovacchia) codetenuto dalla slovacca Jadrová a Vyradovacia Spolocnost (Javys, Società nucleare e di smantellamento) e da Cez. Restano in lizza Westinghouse, e un consorzio costituto dalle società russe Atomstroyexport et Gidropress con la ceca Skoda Js, controllata dal gruppo russo Objedinennye Mashinostroitelnye Zavody (Omz, Fabbriche unite di macchine pesanti).

«Quando un’impresa è debole, nella fattispecie nella sua strategia comunicativa, bisogna aspettarsi che i concorrenti ne approfittino. È proprio quello che è successo», analizza Konstantin Jabocy, consulente indipendente in materia energetica, basato a Bratislava. Ricordando, con una punta di cinismo, che decisioni geostrategiche di una tale portata dipendono dalle alte sfere politiche più che dalle semplici regole della concorrenza. «I russi sono tornati a essere indispensabili nella regione, fa notare. Posseggono vantaggi significativi, come la conoscenza della tecnologia in attività o delle reti scientifiche e politiche formate negli anni 1980. La loro forza sta anche nell’offrire un “pacchetto regalo”: costruzione, manutenzione, gestione delle scorie, ecc. Offrono anche un finanziamento complementare per chi ne ha necessità, come sembrerebbe essere il caso in Ungheria.» Dietro questo piccolo uomo volubile, una mappa rende nei dettagli la distribuzione delle centrali nell’ex spazio sovietico, a formare cerchi concentrici a partire dal cuore industriale della Russia. «Quella che oggi è chiamata Europa centrale e orientale è il mercato naturale della Russia, organizzato per mettere in sicurezza le zone di produzione dell’antico impero. Mosca non vuole perdere la presa sulla rete esistente.»

La compagnia di Stato Rosatom lavora del resto alla costruzione di una centrale nell’enclave di Kaliningrad, che dovrebbe entrare in servizio nel 2017. Dal canto suo, Atomstroyexport sta lavorando alla costruzione di una centrale nell’ovest della Bielorussia, in gran parte finanziata con fondi russi, che dovrebbe entrare in servizio nel 2018-2019. La produzione di queste centrali, destinata in parte all’esportazione, ridefinirà la mappa energetica della regione, facendo della Russia un fornitore centrale di elettricità.

Paradossale ritorno nell’orbita di Mosca

NELLE ALTRE capitali, quest’attività del resto non passa inosservata. A Budapest, l’esperto Peter Rohonyi, che ha lavorato per Greenpeace, è sicuro che i due prossimi reattori di Paks saranno russi: «Nessun governo ungherese si è mai ribellato alla dipendenza energetica dalla Russia, come hanno potuto fare i polacchi. L’uranio utilizzato a Paks, del resto, viene quasi interamente dalla Russia. » Egli immagina anche un eventuale sostegno russo nel finanziamento delle nuove unità di Paks, di grande aiuto per lo Stato ungherese viste le sue difficoltà di bilancio. «È evidente che Cez non ha le spalle tanto solide quanto si crede, e non escludo che si stacchi dal consorzio Jess. In quel caso, chi la sostituirebbe?», chiede un po’ provocatoriamente. Una domanda alla quale Jacoby non sa rispondere. Ma la posta in gioco gli è chiara: «Chi si aggiudicherà l’appalto per Temelín si aggiudicherà il mercato dell’Europa dell’Est. »

I paesi del gruppo di Visegrád, ormai assurti al rango di clienti importanti per un’industria europea dagli sbocchi incerti, dopo l’incidente di Fukushima, illustrano un paradosso: vista nella regione come una garanzia di indipendenza energetica, in realtà la dipendenza dal nucleare è intimamente legata alla Russia. E potrebbe essere così per decenni.

HÉLÈNE BIENVENU

e SÉBASTIEN GOBERT *

* Giornalisti

 

Note :

 (1) L’Ines conta otto scaglioni Echelons numerati da 0 a 7.

(2) Dopo un incidente di tipo Ines 4 occorso durante il rifornimento del combustibile nucleare nel 1977, questo reattore è stato spento ed è oggi in fase di smantellamento. Due reattori Vver-440/V-230 sono stati avviati a Jaslovské Bohunice nel 1978 e nel 1980. Poiché i loro criteri di sicurezza sono stati giudicati insufficienti da esperti internazionali, i reattori sono stati spenti nel 2006 e nel 2008.

(3) Lmp aveva quindici deputati al Parlamento fino alla scissione del partito nel gennaio 2013. I sette deputati dissidenti continuano comunque a rivendicare la propria affiliazione ecologista.

(4) In Lituania, il 64,77% dei votanti al referendum consultivo del 14 ottobre 2012 si è pronunciato contro la costruzione di una nuova centrale nucleare. Al contrario, il 27 gennaio 2013 il 61,49% degli elettori bulgari ha sostenuto un progetto analogo. Ma il tasso di partecipazione alla consultazione non aveva superato il 20,22% invece del 60% richiesto, dunque i risultati del voto sono stati invalidati.

(5) Si legga Aurélien Bernier, «La distribuzione dell’energia elettrica verde, un alibi per la privatizzazione», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2013.

(6) Si legga Agnès Sinaï, «Un controllore assai poco indipendente», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2012.

(7) Magyar Villamos Művek: Società elettrica ungherese; Slovenské Elektrárne: Elettricità di Slovacchia.

(8) Secondo i dirigenti di Areva, «questa decisione di esclusione è stata presa in violazione della legge ceca e del codice dei mercati pubblici». Un primo appello è stato depositato nel febbraio 2013. Il gruppo ha avviato un secondo ricorso a metà marzo.

 

(Traduzione di M. C.)

 

 

E le energie rinnovabili?

«IL CARBONE è stato l’energia del XIX secolo, il nucleare quella del XX secolo. Oggi, i paesi più avanzati d’Europa dimostrano che le rinnovabili sono l’energia del XXI secolo. E il governo polacco non fa niente per far uscire il paese dalla dipendenza dal carbone e in più vuol passare al nucleare? Non ha senso!» Spalancando gli occhi dietro i grandi occhiali verdi, Dariusz Swzed, cofondatore del partito polacco Zieloni 2004 (Verde 2004), si indigna davanti alla «incoscienza ecologica »del governo di Donald Tusk in particolare, e dei dirigenti del gruppo di Visegrád (V4) in generale. Questi certo prevedono di aumentare entro il 2020 la quota delle rinnovabili, si tratti di eolico, solare o biomasse, nella produzione di elettricità. Ma le loro ambizioni sono al di sotto degli obiettivi della strategia Europa 2020, che per quella data mira a produrre da fonti rinnovabili il 20% dell’energia elettrica dell’Unione. La Polonia, che per la medesima scadenza dovrebbe presentare una ratio del 15,48 %, si è data come obiettivo il 16 % entro il 2030.

«Senza l’Unione, non ci sarebbe alcuno sviluppo delle rinnovabili nella regione – prosegue Swzed. L’infatuazione per l’atomo è una manifestazione evidente della “corporatocrazia” in cui viviamo. I gruppi industriali non hanno alcun interesse a un decentramento dei luoghi di produzione. Eppure, alleando rinnovabili e guadagno in termini di efficienza energetica, abbiamo la possibilità di fare dei cittadini non dei semplici consumatori ma dei veri “produttori-consumatori”, gettando le basi per una democrazia energetica.» Secondo uno studio del gruppo di organizzazioni non governative (Ong) Koalicja Klimatyczna (Coalizione per il clima), si potrebbe arrivare a produrre a partire dalle rinnovabili almeno il 19 % dell’energia elettrica polacca entro il 2020, e in seguito assicurare un aumento annuo del 2%.

Una stima non realista, secondo Hanna Trojanowska, sottosegretaria di Stato all’economia e plenipotenziaria per l’energia nucleare: «Le rinnovabili sono importanti per il nostro futuro. Ma, vista la loro capacità inferiore, non saranno mai in grado di sostituite le centrali. » Un’opinione condivisa da Iva Kubánová, responsabile qualità e sicurezza delle future unità n. 3 e 4 della centrale di Temelín nel quadro delle Ceské Energetické Závody (Cez, Imprese energetiche ceche), la compagnia dominante sul mercato ceco: «Cez ha investito nelle rinnovabili là dove è appropriato. Abbiamo uno dei più grandi parchi eolici d’Europa, a Fântânele-Cogealac in Romania. Ma nel nostro paese, il potenziale e i mezzi sono molto inferiori, e il costo di utilizzo delle rinnovabili è molto più elevato.»

«In Romania, Cez non ha interessi nel nucleare, dunque può investire nelle rinnovabili, spiega Jan Haverkamp di Greenpeace. Ma nella Repubblica ceca, fra il 2009 e il 2011, l’impresa ha organizzato con il governo un boom artificiale di pannelli fotovoltaici. La cosa si è tradotta in un grande sperpero di sovvenzioni pubbliche, un basso rendimento degli investimenti e un quasi totale discredito del solare. Questo spiega molto: nella regione, alle rinnovabili non viene lasciata nessuna opportunità.»

H. B e S. G.

(Traduzione di M. C.)

 

 

Una struttura di mutuo sostegno

IL GRUPPO di Visegrád (V4) nasce nel febbraio 1991, durante un vertice fra Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia nella cittadella medioevale di Visegrád (Ungheria).

Concepito inizialmente come una struttura di mutuo sostegno per l’integrazione europea di una regione da poco affrancatasi dalla tutela sovietica, il gruppo è sopravvissuto all’adesione dei quattro paesi all’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (Nato), diventando un forum intergovernativo. Non ha istituzioni permanenti; ha una presidenza a rotazione annuale e il Fondo internazionale di Visegrád. Con una dotazione di 7 milioni di euro nel 2012, il Fondo concede borse di studio e sostegni artistici e culturali.

La cooperazione dei V4 si riferisce ad ambiti circoscritti, come l’educazione o la difesa. Nel marzo 2013 è stata annunciata la creazione di una forza militare d’intervento, di tremila uomini, operativa fino al 2016. È un’iniziativa congiunta con il triangolo di Weimar che raggruppa Francia, Germania e Polonia. Tuttavia, gli sforzi di realizzazione di uno spazio energetico regionale rimangono pressoché inesistenti.

H. B. e S. G.

(Traduzione di M. C.)

 

LUGLIO 2013 Le Monde diplomatique il manifesto