Uno Stato per la Palestina
Domani,sempre domani

di ALAIN GRESH

 

Fin Dall’antichità, il paradosso formulato dal filosofo greco Zenone di Elea ha ossessionato gli studiosi di logica: Achille «piè veloce» potrebbe vincere una corsa se concedesse cento metri di vantaggio a una tartaruga? No, risponde Zenone,perché l’eroe dell’Iliade non potrebbe mai raggiungerla: infatti, prima ridurrebbe di metà il suo ritardo, poi della metà della metà, e così di  seguito all’infinito,senza che la distanza fra i due si annulli mai (1).

Con la sua ricerca di uno stato, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), si è impegnata nella stessa maratona senza  fine. Ogni tappa superata sembra avvicinarla all’obiettivo, ma resta sempre una metà della distanza  da percorrere, un’ultima condizione a cui adempiere, un’ultima concessione da accettare.

Nel 1999,  l’Olp annunciò che avrebbe proclamato la nascita dello stato palestinese, al termine del periodo  interinale di «autonomia» della Cisgiordania e di Gaza, voluto dagli accordi di Oslo del 1993. Gli  Stati uniti e l’Unione europea fecero pressione e, in cambio di un rinvio, l’Unione affermò durante  un vertice a Berlino nel marzo 1999, «la sua disponibilità a considerare il riconoscimento di uno  Stato palestinese».

Nel marzo 2002, il Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni  unite (Onu) proclamava la propria adesione alla visione di una regione nella quale avrebbero  coesistito due stati, Israele e la Palestina. L’anno seguente, il Quartetto (Stati uniti, Unione europea,  Russia, e Onu) pubblicava una «Road Map» che prevedeva la creazione dello Stato palestinese prima della fine del 2005.

Dopo un congelamento dei negoziati, il presidente George W. Bush  convocava ad Annapolis, nel novembre 2007, una di queste riunioni tanto mediatiche cui è attaccata  la «comunità internazionale », in cui ai affiancavano l’Europa e la Russia, la Siria e l’Egitto, i  palestinesi e gli israeliani: in un comunicato, la previsione che l’orizzonte sarebbe stato finalmente  raggiunto al termine del 2008. Il 23 settembre 2010, nel suo discorso di fronte all’Assemblea generale dell’Onu, il presidente Barack Obama esprimeva la speranza di vedere la Palestina unirsi all’Onu nel settembre 2011. Un anno dopo, annunciava che avrebbe opposto il suo veto a tale  ingresso.

Questa lunga storia di promesse beffate ha costretto la leadership palestinese a rivolgersi  direttamente alle Nazioni unite, a disimpegnarsi dai negoziati bilaterali «senza condizioni preliminari», vale a dire in un contesto in cui la volpe «libera» scorrazza nel «libero» pollaio. Così  facendo, essa di fatto riconosceva il fallimento della sua vecchia strategia.

 

«Creare uno, due, tre, molti Vietnam»

Nel 1969, in seguito alla disfatta araba del giugno 1967 (2), i movimenti armati dei fedayin  prendevano il controllo dell’Olp e si sbarazzavano della vecchia leadership, che aveva fallito allineandosi ai regimi arabi. Il nuovo orientamento dell’Olp si fondava su tre pilastri: la lotta armata, all’epoca metodo privilegiato in quello che veniva chiamato il Terzo mondo, dove  bisognava, come diceva Ernesto Che Guevara «creare uno, due, tre, molti Vietnam»; la liberazione di tutta la Palestina (e dunque la distruzione delle strutture sioniste di Israele), e la costruzione di  uno stato democratico in cui avrebbero convissuto musulmani, ebrei, e cristiani; l’indipendenza  della leadership palestinese (in particolare nei confronti dei regimi arabi).

Il principale successo  dell’Olp fu di riuscire a raggruppare sotto la propria bandiera tutti i palestinesi – dall’ingegnere che  lavorava in Kuwait al contadino di Hebron, passando per il rifugiato del campo libanese di Burj al  Barajneh –, rafforzare il loro spirito di coesione nazionale, ed esprimere la loro volontà di  indipendenza. In compenso, il fallimento della lotta armata, il rifiuto della gran parte degli israeliani di aderire all’utopia dello stato democratico, l’opposizione stessa degli alleati dell’Olp, in  particolare quelli del «campo socialista», all’idea della distruzione di Israele, la trascineranno a  impegnarsi nel gioco diplomatico.

La leadership palestinese aveva già ottenuto diversi successi in  questo campo: non soltanto aveva riportato la Palestina sulla mappa politica – la sorte dei  palestinesi non era più ridotta a un semplice problema di «rifugiati» e rientrava nel diritto  all’autodeterminazione di un popolo –, ma si vide riconoscere anche dai paesi arabi come unica rappresentante del popolo palestinese. Nel 1974, Yasser Arafat veniva accolto trionfalmente a New  York all’Assemblea generale dell’Onu, di cui l’Olp divenne membro osservatore.

Ma questi  progressi cozzavano sempre contro gli stessi due ostacoli: Israele e gli Stati uniti, che rifiutavano di  discutere con «un’organizzazione terrorista». Ci vorranno ancora molti anni, interminabili trattative  e, soprattutto, lo scoppio dell’Intifada delle pietre nel dicembre 1987 perché lo status quo appaia  pericoloso a tutti, e perché, nello stesso Israele, numerose voci si esprimano a favore di un  compromesso. Nel novembre 1988, il Consiglio nazionale palestinese proclamava la nascita dello  Stato palestinese e acconsentiva al piano di partizione della Palestina votato dall’Assemblea  generale delle Nazioni unite il 29 novembre 1947.

Yasser Arafat confermava questi orientamenti  davanti all’Assemblea generale delle Nazioni unite riunita a Ginevra il 13 dicembre 1988. Ma Washington restava insoddisfatta. Una settimana dopo, il responsabile palestinese lesse una  dichiarazione – preparata dal governo americano (3)! – che confermava la sua rinuncia al terrorismo, l’accettazione della risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’Onu (4), e il  riconoscimento di Israele. Sembrava che una pagina fosse stata voltata, e che se ne aprisse un’altra  con gli accordi di Oslo e la stretta di mano tra Arafat e Itzhak Rabin, il 13 settembre 1993, sulla  terrazza della Casa bianca, sotto l’occhio vigile del presidente William Clinton.

Diciott’anni dopo,  la via per la quale si sono impegnati Arafat e i suoi si rivela un vicolo cieco. In Cisgiordania e a  Gerusalemme non è stata stabilita alcuna sovranità palestinese. Il numero dei coloni in  Cisgiordania, centomila nel 1993, sfiora attualmente i trecentomila, e quelli di Gerusalemme sono  passati da centocinquantamila a duecentomila. L’economia è asfissiata, e i rapporti sul boom che  starebbero conoscendo questi territori omettono di ricordare che il Prodotto nazionale lordo (Pnl)  per abitante è più basso che nel 2000 e che solo un ceto sociale ristretto si avvantaggia di questa  situazione (5). Se l’Autorità palestinese collabora efficacemente con gli occupanti israeliani per  combattere il «terrorismo », essa ha anche imposto un potere autoritario che ricorda quello vigente  presso i vicini paesi arabi.

Questo fallimento gli elettori palestinesi l’hanno punito votando per  Hamas nel gennaio 2006, prima che la vittoria gli venisse confiscata dalla «comunità internazionale» alleata di Mahmoud Abbas. Ma Hamas non offre una strategia credibile ai  palestinesi più di quanto non faccia l’Olp. Si avvale della lotta armata, ma il suo bilancio in questo campo, come quello delle organizzazioni fedayin dopo il 1967, è assai magro. E ha imposto, da  quasi tre anni, un cessate il fuoco nei confronti di Israele a tutte le organizzazioni palestinesi di Gaza. Quanto al suo autoritarismo, fa a gara con quello di Abbas.

Questa crisi sarebbe potuta  durare, con Fatah e Hamas che si aggrappano ai rami del potere. Ma il risveglio arabo ha sconvolto  la situazione. La caduta dei regimi tunisino ed egiziano prima, la fermezza della Turchia di fronte a Israele poi, hanno indebolito Washington e Tel Aviv, privando inoltre Abbas di un alleato di peso, il  presidente egiziano Hosni Mubarak – mentre Hamas era scossa dalla rivolta in Siria. La delusione nei confronti del presidente Barack Obama, incapace di fare pressione sul suo alleato Benjamin Netanyahu (primo ministro israeliano), si accentua. La sua è soltanto una dichiarazione d’intenti, a  un anno da una elezione presidenziale che si rivela molto incerta?

Sulla scena israeliana, e malgrado le manifestazioni di opposizione all’ordine neoliberista, la grande maggioranza della popolazione, traumatizzata dalla seconda Intifada e condizionata dalla propaganda dei propri dirigenti, si è  allineata all’intransigenza del governo, e Netanyahu sembra quasi un moderato di fronte al suo  ministro degli esteri Avigdor Lieberman. Shelly Yachimovich, deputata e nuova leader del partito  laburista dichiarava di recente che il progetto di colonizzazione non era «né un peccato né un  crimine» perché era stato lanciato dagli stessi laburisti (il che è vero) e dunque era «totalmente  condiviso ». Commentando queste affermazioni, Henry Siegman, ex direttore dell’American Jewish  Congress, faceva notare: «Lasciamo da parte l’argomentazione bizzarra che vuole che il consenso  fra i ladri legittimi il furto. Se oggi in Israele posizioni di questo tipo vengono difese dai laburisti, come credere che potrebbe emergere la minima prospettiva di pace (6)

E perché gli israeliani  dovrebbero rifiutare lo status quo? L’ordine regna in Cisgiordania, grazie in particolare alla  collaborazione palestinese. L’isolamento internazionale di Israele non ha che poche conseguenze  finché persiste il sostegno degli Stati uniti e l’Unione europea mantiene ed estende i privilegi commerciali, economici, e politici accordati a questo stato – Israele è stato appena ammesso come  membro osservatore dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare (Cern), verosimilmente  quale ricompensa per il possesso delle sue duecento bombe atomiche. Senza le sanzioni  internazionali e un isolamento crescente, senza la forte mobilitazione della popolazione all’interno,  e se si fosse dovuto contare sulla sola buona volontà della comunità bianca, il Sudafrica non si  sarebbe mai sbarazzato dell’apartheid.

L’incapacità dell’Olp di ottenere qualunque risultato tramite  i negoziati e lo sconvolgimento della scena araba hanno spinto Abbas a presentarsi davanti alle  Nazioni unite. Ma il significato di una tale internazionalizzazione è ancora difficile da valutare .È  l’inizio di un cambiamento di strategia? O si tratta di riprendere i negoziati in condizioni  leggermente migliori?

 

Il veto degli Stati uniti

la popolazione palestinese resta scettica, consapevole che, qualunque sia il risultato del voto, il  giorno seguente essa continuerà a stare sotto il giogo dell’occupazione, anche se le minacce  israeliane o americane restano poco credibili: esse indebolirebbero il loro unico interlocutore palestinese e metterebbero in pericolo la cooperazione in materia di sicurezza che va tutta a  vantaggio di Tel Aviv. In compenso, l’uso del diritto di veto da parte di Washington influirà negativamente sul peso degli Stati uniti nella regione – si è potuto sentire il principe Turki al Faysal,  l’ex ambasciatore saudita a Washington, affermare che un veto di questo tipo pre cipiterebbe la fine  dei rapporti storici fra Riyad e Washington (il che sembra comunque un po’ esagerato) (7).  Uno  status di stato-osservatore, simile a quello della Svizzera fino al 2002, aprirebbe la strada  all’adesione della Palestina alla Corte internazionale di giustizia (Cig) e alla Corte penale internazionale (Cpi) (8). Se le decisioni della prima hanno poche conseguenze (nel 2004 ha  condannato la costruzione del Muro da parte di Israele, senza che la cosa avesse seguito), la Cpi  offre la possibilità di perseguire responsabili, ufficiali, soldati, coloni israeliani (un certo numero dei  quali dispone di passaporti francesi ed europei) per crimini di guerra – e anche di porre nuovamente la questione della colonizzazione visto che, secondo i suoi statuti, essa è un crimine di guerra (9). È  probabilmente la ragione per la quale Nicolas Sarkozy ha chiesto ai palestinesi di rinunciare a questo diritto! Allo stesso modo, ha ingiunto loro di riprendere i negoziati senza condizioni (cosa  che esige Israele), promettendo semplicemente un esito positivo entro un anno, ma senza precisare  che cosa accadrebbe se questa scadenza, ancora una volta, non venisse rispettata. L’esperienza  mostra che per i palestinesi non sarà possibile uscire dall’impasse senza creare un diverso rapporto  di forze. Potranno arrivarci appoggiandosi alle rivoluzioni arabe e ottenendo sanzioni contro l’unica  parte che rifiuta il diritto internazionale, Israele.

Note:

Leggi anche  : Quando Washington stenta a riconoscere Israele

(1) Riferito da Aristotele, Fisica, libro VI.

(2) L’attacco di Israele contro l’Egitto, la Siria,e la Giordania ebbe come risultato l’occupazione del Sinai, della Cisgiordania, di Gaza, di Gerusalemme Est e del Golan.

(3) Insoddisfatti della sua dichiarazione a Ginevra, gli Stati uniti avevano preteso che leggesse un testo preparato da loro. In cambio, accettarono di aprire un dialogo con l’Olp.

(4) Votata nel novembre 1967, essa denuncia l’acquisizione di territori con la forza e fa allusione ai palestinesi utilizzando il solo termine «rifugiati».

(5) Si legga Sandy Tolan, «Ramallah, così lontana dalla Palestina», Le Monde diplomatique/ il manifesto, aprile 2010.

(6) Henry Siegman, «September madness», Foreign Policy,Washington, DC, 15 settembre 2011.

(7) «Veto a state, lose an ally », The New York Times, 11 settembre 2011.

(8) La questione dell’adesione della Palestina ha sollevato un vivace dibattito fra i giuristi sul quale non è possibile tornare qui. Cfr. «Palestinian membership at the United Nations: All outcomes are possible», 11 settembre 2011, http://english.dohainstitute.org.

(9) Per un’analisi delle posizioni dei protagonisti, si legga International Crisis Group, «Curb your enthusiasm: Israel and Palestine after the UN», Bruxelles, 12 settembre 2011.

 (Traduzione di Or. Sa.)

Fonte: "LE MONDE diplomatique  "il manifesto  (ottobre 2011)