Quando Washington stenta a riconoscere Israele

di IRENE L. GENDZIER*

 

Singolare Ribaltamento della storia.

Nel 1948, a inquietare Washington è la prospettiva di una dichiarazione di indipendenza israeliana:  non avrebbe suscitato una reazione anti-occidentale nei paesi arabi e compromesso i suoi interessi?

Se, all’epoca, il dipartimento di stato, il dipartimento della difesa e la Central intelligence agency  (Cia) si mostrano preoccupati, questo non è il caso di Clark Clifford, il consigliere giuridico di  Harry Truman. Come l’entourage vicino al presidente democratico, egli insiste sul fatto che – dopo  tutto – lo stato in questione esiste già, ed è meglio riconoscerlo prima che lo faccia l’Unione  sovietica. Riesce a convincere la Casa bianca. In qualche mese, l’amministrazione americana fa  dietrofront, calcolando che un sostegno alla creazione di Israele le porterà un vantaggio maggiore.

Un po’ prima, durante l’inverno 1947-1948, Washington progetta di revocare il suo sostegno alla  risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) del 29  novembre 1947, che prevede la partizione della Palestina e la creazione di uno «Stato ebraico» e di  uno «Stato arabo». I combattimenti fra milizie ebraiche e arabe fanno pensare infatti che la sua  attuazione comporterebbe il ricorso alla forza.

 All’Onu, gli Stati uniti incoraggiano la proposta di un  cessate il fuoco: una tregua temporanea sotto tutela che ritardi – ma non invalidi del tutto –  l’obiettivo della partizione. Nella pratica però, i fatti non possono essere ignorati. Dal 3 maggio 1948, undici giorni prima del ritiro del Regno unito dalla Palestina (sotto mandato della Società delle nazioni dal 1920), il console americano a Gerusalemme ha sottolineato il collasso dell’autorità britannica: «A meno che non arrivino consistenti rinforzi da parte araba, ci aspettiamo che gli ebrei  invadano e occupino la maggior parte della città [Gerusalemme] dopo il ritiro delle forze britanniche (1)». In aprile, aveva già identificato il motore dell’avanzata delle forze ebraiche: «operazioni aggressive e irresponsabili, quali i massacri di Deir Yassin e di Jaffa», o la conquista di  Haifa, svuotata dai suoi abitanti arabi.

Rapporti ufficiali inoppugnabili

Il console rivela ugualmente  che i britannici e gli altri osservatori internazionali hanno accertato, all’inizio del maggio 1948, che  «gli ebrei saranno in condizione di spazzare via tutto ciò che hanno di fronte, a meno di una riscossa  da parte degli eserciti arabi regolari. Tenendo presente il modello di occupazione militare che la  Haganah (2) ha fornito ad Haifa, è possibile che ristabiliscano l‘ordine (3)». Resta da definire di che  «ordine» si tratti… Per i britannici e gli americani, l’importanza di Haifa sta nella sua raffineria di  petrolio – sbocco dell’oleodotto che trasporta la produzione dell’Iraq petroleum company (Ipc). Il  controllo delle milizie ebraiche su questa raffineria –inaccettabile per gli iracheni – aveva distrutto, all’interno della compagnia, la rete di relazioni esistenti fra lavoratori palestinesi ed ebrei.

Robert  McClintock, membro della rappresentanza americana all’Onu, esprime l’ipotesi che il Consiglio di  sicurezza presto si troverà di fronte a una questione dolorosa: accertare «se l’attacco armato ebraico  contro le comunità arabe di Palestina è legittimo, o se esso costituisce una tale minaccia per la pace  e la sicurezza internazionali da richiedere misure coercitive da parte del Consiglio di sicurezza (4)».  McClintock osserva peraltro che, se gli eserciti arabi dovessero entrare in Palestina (cosa che  faranno effettivamente il 15 maggio), le forze ebraiche sosterrebbero «che il loro Stato subisce  un’aggressione armata, e nasconderebbero con tutti i mezzi il fatto che è la loro stessa aggressione  armata contro gli arabi di Palestina a essere la causa del contrattacco arabo». Gli Stati uniti  sarebbero allora costretti a intervenire (5).

Una decina di giorni prima della partenza dei britannici,  il segretario di stato americano George C. Marshall invia a diverse rappresentanze diplomatiche una   valutazione – poco lusinghiera delle capacità militari arabe: «Tutta la struttura governativa irachena  è a rischio per disfunzionalità politiche ed economiche. Il governo del Paese difficilmente può  permettersi in questo momento di inviare altre truppe oltre alle poche che sono già state distaccate.  L’Egitto ha subito di recente scioperi e disordini. Il suo esercito è male equipaggiato a causa del suo  rifiuto di accettare l’aiuto britannico. Esso è inoltre già mobilitato in operazioni di polizia interna.  La Siria non ha né armi né esercito degni di questo nome; essa non è stata in grado di metterne in  piedi uno da quando se ne sono andati i francesi, tre anni fa. Il Libano non ha un esercito vero e  proprio, e quello dell’Arabia saudita è appena sufficiente per mantenere l’ordine fra le tribù. Inoltre,   le rivalità fra l’Arabia saudita e i siriani da una parte, e fra i governi hascemiti di Transgiordania  [attuale Giordania] e dell’Iraq dall’altra, impediscono agli arabi di sfruttare al meglio le forze  esistenti (6)

Questa debolezza, precisa, «non significa tuttavia che lo Stato ebraico potrà  sopravvivere sul lungo periodo in quanto entità autonoma di fronte all’ostilità del mondo arabo.» E  il Segretario di stato conclude : «Se gli ebrei si adeguano ai propositi dei loro estremisti che  privilegiano una politica di disprezzo nei confronti degli arabi, il futuro Stato ebraico potrà  sopravvivere solo con un’assistenza internazionale permanente.»

Prima, ma soprattutto dopo la  dichiarazione di indipendenza di Israele del 14 maggio 1948, il governo americano denuncia il  trattamento dei rifugiati palestinesi e ne chiede il rimpatrio. Riconoscendo l’influenza del  movimento sionista negli Stati uniti – ma ignorando spesso la natura dei contatti privati fra il  presidente Truman e i dirigenti dell’Agenzia ebraica, fra i quali il futuro primo presidente di Israele, Chaim Weizmann –, gli esperti di politica estera mettono in guardia sui rischi di un sostegno di  Washington a Tel Aviv per i suoi interessi in Medioriente.

 

 

politica e petrolio

Il seguito darà loro  torto. Meno di un anno dopo la creazione di Israele, il dipartimento di stato e quello della difesa  passano da una posizione critica a un giudizio positivo sulla capacità di Israele di garantire questi  stessi interessi.

A partire da questo periodo, gli Stati uniti sottolineano che, se l’opinione pubblica  araba e le dichiarazioni dei dirigenti della regione si mostrano critiche nei confronti di Washington, gli interessi commerciali americani non ne soffrono molto. D’altronde, dalla metà di marzo1948, i  rappresentanti americani all’Onu erano stati informati che, secondo l’Arabia saudita, «il conflitto in  Palestina [è] di ordine interno e che la cosa più importante per i paesi arabi [è] di non far nulla che  possa fornire al Consiglio di sicurezza l’occasione di utilizzare la forza in Palestina (7)».

Il timore,  espresso dai responsabili di alcune società americane, che l’Arabia saudita denunci i loro contratti  petroliferi, presto svanisce. In pratica, nessuno impedirà all’Aramco – il gigante petrolifero  americano che controllava l’oro nero nel regno – di estendere i suoi interessi al petrolio offshore.

Meglio: durante l’inverno 1948, il direttore della divisione petrolio e gas del dipartimento degli  Interni americano (che si occupa anche delle risorse naturali), Max Ball, noto per essere uno dei  dirigenti più informati in questo campo, incontra Eliahu Epstein (che ebraizzerà il proprio nome in Elath) (8), direttore dell’ufficio dell’Agenzia ebraica negli Stati uniti nonché presidente del  Consiglio generale sionista (l’organo direttivo delle organizzazioni sioniste nel mondo).

L’incontro  si svolge nello stesso momento in cui la Camera dei rappresentanti organizza una serie di importanti  audizioni sul tema «petrolio e difesa nazionale». Con in testa l’idea che si poteva trovare petrolio  nel deserto del Negev (sud di Israele), Ball invita Epstein a studiare la fattibilità di una riunione con  i dirigenti del settore petrolifero, fra i quali il vice-presidente dell’Aramco, il direttore della Socony  Vacuum, e il vice-presidente della Standard Oil of New Jersey…

Così, i responsabili dell’Agenzia  ebraica negli Stati uniti possono misurare l’importanza che Washington dà ai suoi interessi petroliferi in Medioriente (9) e cercano di rispondere alle inquietudini dei dirigenti delle società  petrolifere e dei responsabili governativi americani, che temono che un sostegno allo Stato ebraico  indebolisca gli Stati uniti nella regione.

«con la forza delle armi» 

Ma i fattori che hanno portato  Washington a rivedere la sua politica nei confronti del nuovo Stato sono molteplici. Fra questi,  l’osservazione dei militari americani che Israele poteva diventare un importante strumento per  «proteggere» il Mediterraneo orientale, il Vicino Oriente, e gli interessi petroliferi. Cosa che non  impediva di considerare la sua dipendenza nei confronti dell’aiuto esterno, o la necessità di  risolvere il problema dei rifugiati palestinesi. Messe comunque da parte queste riserve, i militari  americani ammettono che Israele ha modificato l’equilibrio militare nella regione, il che dunque  giustifica un ripensamento della politica di Washington.

Il 7 marzo 1949, una nota del capo di stato maggiore dell’aviazione, indirizzata agli stati maggiori riuniti sugli «interessi strategici americani in  Israele», reclama un adeguamento in questo senso: «L’equilibrio delle forze nel Vicino e Medio  oriente è stato radicalmente modificato. Al momento della creazione dello Stato d’Israele, numerosi segnali davano da pensare che la sua vita sarebbe stata estremamente breve a causa dell’opposizione della Lega araba. Tuttavia, Israele adesso è stato riconosciuto dagli Stati uniti e dal  Regno unito, probabilmente diventerà presto membro delle Nazioni unite, e ha dimostrato con la  forza delle armi il suo diritto a essere considerato la nuova potenza militare dopo la Turchia nel  Vicino e Medio oriente (10)

Alla luce di questi eventi, conclude che «in cambio del loro sostegno  a Israele, gli Stati uniti potrebbero attualmente trarre vantaggi strategici dalla nuova situazione  politica». Sulla base di questi calcoli, il Capo di Stato maggiore dell’Aviazione sollecita uno studio degli «obiettivi strategici riguardanti Israele». Raccomanda che la formazione e la cooperazione militari siano riconsiderate, e soprattutto che l’influenza sovietica sul nuovo stato venga contrastata.

Il che ha ugualmente condotto a una rivalutazione implicita della politica americana sulla questione  palestinese, sempre più ridotta a un semplice problema di rifugiati slegato dal futuro dello Stato palestinese.

IRÈNE L. GENDZIER *

 

* Docente di Scienze politiche, presso l’Università di Boston, autrice in particolare di Notes from the Minefield,United States Intervention in Lebanon, 1945-1958, ColumbiaUniversity Press, 2006 (1 ed. 1977).

 

 

(1) Corrispondenza tra il Console generale a Gerusalemme (Wasson) e il Segretario di stato, citata in Foreign Relations of the United States (Frus), volume V, parte 2, Washington, DC, 1948, p. 889.

(2) Nome dato alle forze armate ebraiche in Palestina prima dell’indipendenza.

(3) Foreign Relations of the United States, op. cit., p. 889.

(4) Ibid., p. 894-895.

(5) Ibid., p. 895.

(6) Ibid., p. 983-984.

(7) Ibid., p. 719.

(8) 18 febbraio 1948, «Memorandum for M. Shertok», n° 210, Political and Diplomatic Documents, December 1947-May 1948, archivi dello Stato d’Israele, Organizzazione sionista mondiale, archivio centrale sionista, Gerusalemme, 1979, p. 354.

(9) Zohar Segev, «Struggle for cooperation and integration: American zionists and Arab oil, 1940s», Middle Eastern Studies, Londra, settembre 2006, vol. 42 ; n. 5, p. 821; n. 7 e 8, p. 829.

(10) Archivi degli Stati maggiori riuniti, seconda parte,  1948-1953 (sezione B), Vicino Oriente, p. 181.

 

(Traduzione di Or. Sa.)

Fonte: "LE MONDE diplomatique  "il manifesto  (ottobre 2011)