dossier   Le Monde diplomatique il manifesto OTTOBRE 2013

QUELLO CHE RIVELA LA CRISI SIRIANA

 

In pochi giorni si è passati dalla prospettiva di bombardamenti statunitensi e francesi in Siria  a negoziati fra Washington e Mosca. Tehran, fino a oggi sostenitrice incondizionata di Damasco, lascia intravvedere possibili aperture . Questo andirivieni riflette i cambiamenti nell’ordine internazionale, che dalla fine della guerra fredda fa fatica a ricomporsi, malmenando le stesse regole della sicurezza collettiva . Eppure, l’ampiezza dei conflitti che scuotono il Medioriente e il Maghreb, e l’affossamento degli Stati  dovrebbero indurre a riportare al centro la diplomazia. Gli Stati uniti, pur cercando di contenere l’Iran e rassicurare tanto Israele che l’Arabia saudita, guardano sempre di più verso l’Asia, obiettivo la Cina .

SOMMARIO DEL DOSSIER

Damasco, ingombrante alleato di Tehran, di Ali Mohtadi

Dissoluzione degli stati, diffusione del jihadismo, di Philippe Rekacewicz

Diplomazia francese, uno scacco totale, seguito dalla prima dell'articolo di Olivier Zajec

Sicurezza collettiva, si cercano difensori, di Anne Cécile Robert

La grande svolta di Washington

di MICHAEL T. KLARE *

 

FIN DAGLI INIZI della guerra civile in Siria, il presidente Barack Obama ha fatto sapere che preferiva evitare un intervento diretto degli Stati uniti. Secondo lui, il suo paese ha già condotto abbastanza guerre in Medioriente, e questo conflitto non minaccia i suoi interessi fondamentali. Perché dunque il successivo voltafaccia, con la minaccia al regime siriano di bombardamenti aerei mirati dopo l’utilizzo, il 21 agosto, di armi chimiche contro la popolazione civile? Perché il conflitto si è spostato all’improvviso dai margini al centro delle priorità strategiche statunitensi? Perché in questo particolare momento?

In precedenza, il conflitto siriano occupava un ruolo trascurabile nella politica estera di Washington. Anche dopo due anni di combattimenti sanguinosi e oltre centomila morti, la classe politica rimaneva in maggioranza ostile a un coinvolgimento più diretto. Il presidente Obama si era accontentato di un ruolo minimo chiedendo all’omologo siriano, Bashar al Assad, di lasciare il potere e promettendo assistenza tecnica alle fazioni laiche e moderate dell’insurrezione. Egli rifiutava di donare a queste ultime le armi pesanti che chiedevano, e di impegnarsi in un’azione suscettibile di modificare i rapporti di forza sul terreno.

Certo, davanti all’ampiezza dei massacri e delle perdite civili, Obama aveva accettato nel 2012 di aumentare l’aiuto statunitense agli insorti e di mettere in conto un’operazione militare limitata. Ma precisando immediatamente che questo scenario si sarebbe verificato solo se Assad avesse superato la «linea rossa» facendo ricorso ai gas tossici o fornendoli a gruppi armati vicini al regime (1).

In quanto trasgressione del limite pubblicamente tracciato dalla Casa bianca, l’attacco chimico del 21 agosto avrebbe dunque richiesto un intervento militare, senza il quale la prima potenza mondiale si sarebbe screditata davanti alla «comunità internazionale». «Rifiutando di agire, attenteremmo alla credibilità degli altri impegni in materia di sicurezza sottoscritti dagli Stati uniti – ha spiegato il ministro della difesa, Charles («Chuck») Hagel. Il nome degli Stati uniti deve pur significare qualcosa. Si tratta di una questione vitale per la politica estera e per i vincoli che ci legano ai nostri alleati (2)

Mentre montava l’ostilità dell’opinione pubblica statunitense rispetto all’attacco contro Damasco, i calcoli strategici di Washington sono stati alterati da due fattori: da un lato, l’implicazione nel conflitto siriano di attori regionali decisi a sfruttare gli eventi per difendere propri interessi, consegnando armi o partecipando direttamente agli scontri; d’altro lato, il ruolo crescente assunto da avversari strategici degli Usa, come l’Iran ed Hezbollah (si legga il § diplomazia francese) (3). Il desiderio di mantenere la Siria alla periferia degli interessi statunitensi si scontrava, secondo Obama, con l’intenzione di questi gruppi di trarre vantaggio da questa «negligenza».

Agli occhi di Washington, il Medioriente è in bilico fra due centri di gravità: Israele a ovest, le monarchie petrolifere a est. Se l’alleanza con Tel Aviv continua a essere lo zoccolo duro della politica degli Usa nella regione, i paesi del Golfo mantengono un ruolo chiave come detentori della manna energetica e come contrappeso alla potenza iraniana. Da decenni l’interesse strategico degli Usa consiste nel garantire la sicurezza di Israele e dell’Arabia saudita, e nell’assicurare un arrivo senza intralci sui mercati mondiali del petrolio proveniente dal Golfo persico – una politica che si traduce in una massiccia ingerenza negli affari regionali e, in casi specifici, in spedizioni militari (4).

Fino a oggi, dunque, la Siria non interessava gli Usa che nella misura in cui essa interferiva con gli interessi di Israele e delle monarchie petrolifere. Su questa base, Washington aveva salutato calorosamente la partecipazione di Damasco alla coalizione anti-irachena messa insieme nel 1990 dall’allora presidente George H. W. Bush, e con altrettanto vigore condannava il sostegno siriano a Hezbollah in Libano. Ma in sé, la Siria importava poco.

Nemmeno quella che è stata chiamata «primavera araba» nel 2011 ha posto fine a questa indifferenza: Washington ha giocato un ruolo determinante nelle transizioni politiche in Egitto, Libia e Yemen, ma si è tenuta in disparte rispetto alle convulsioni siriane. Solo quando l’attenzione di certe potenze regionali si è focalizzata sulla Siria, quest’ultima ha finito per imporsi nello scacchiere statunitense.

Peraltro, i dirigenti israeliani sono inquieti rispetto alle possibili conseguenze del conflitto che si svolge alle frontiere del loro paese: la crescente dipendenza di al Assad dai rinforzi di Hezbollah potrebbe provocare un massiccio arrivo di armi siriane nel sud del Libano, mentre la fragile Giordania, importante alleata degli Stati uniti, si trova destabilizzata a causa dell’afflusso di rifugiati che fuggono dai combattimenti. Da parte loro, le monarchie petrolifere si sono impadronite della crisi impegnandosi in una guerra per procura contro l’Iran, con ognuno dei due campi che cerca di mettere in scacco l’ingerenza dell’altro (5).

Il 31 maggio scorso un influente dignitario religioso sunnita basato in Qatar, lo sceicco Youssef al Qaradaoui, ha fatto appello ai sunniti di tutto il mondo affinché si rechino in Siria per combattere contro Hezbollah e l’Iran, definiti «nemici dell’Islam».

Come se non bastasse, la Russia ha da tempo una serie di interessi in comune con Damasco, e fra questi una base navale a Tartus – l’unica struttura militare russa collocata fuori dai confini dell’ex impero sovietico – e contratti di fornitura di armi (aerei caccia, missili ultra sofisticati…). Benché non sempre onorati, questi contratti hanno un valore economico che supera i 4 miliardi di dollari. Del resto, gli investimenti russi nel paese (per il miglioramento delle infrastrutture, della rete energetica, delle capacità ricettive in campo turistico) raggiungono in media i 20 miliardi di dollari l’anno. A duecento chilometri a est della città di Homs c’è, ad esempio, un impianto di trattamento del gas naturale costruito da Stroytransgaz, un’impresa che ha la sede sociale a Mosca (6).

 Quest’affermazione della potenza russa non è sfuggita ai consiglieri militari della Casa bianca che, da diversi mesi, militano con sempre maggior ardore per un intervento armato, il solo, secondo loro, in grado di mantenere intatta la zona di influenza statunitense. A giugno, la decisione di Obama di fornire ai ribelli armi da combattimento, oltre agli equipaggiamenti «non letali» che già ricevevano, ha indicato un cambiamento di orientamento. Al tempo stesso, il presidente decideva anche di intensificare i passi diplomatici per una risoluzione non militare del conflitto (7).

Secondo alcuni consiglieri della Casa bianca che vogliono mantenere l’anonimato, queste discussioni informali sarebbero cominciate un anno prima, a lato del vertice del G20 a Los Cabos (Messico); Obama e Putin avevano lungamente trattato dello smantellamento dell’arsenale chimico posseduto dal regime di al Assad.

In un certo senso, questo riposizionamento geostrategico è un effetto collaterale della volontà degli Stati uniti, espressa due anni fa dal presidente, di riaffermare l’autorità del paese in Asia e nel Pacifico. È prioritario affrontare l’erosione dell’influenza statunitense in quella parte del globo e contenere l’egemonia del grande rivale cinese, al quale Washington, assorbita dalle guerre in Iraq e Afghanistan, aveva lasciato fino a quel momento campo libero. Per l’effetto pendolo, questo ritorno sulla scena asiatica ha aperto nel Medioriente uno spazio del quale Iran, Russia e altri si avvantaggiano per contendersi la supremazia. Le inquietudini che questo provoca a Washington non sono estranee all’improvvisa durezza di Obama rispetto ad al Assad.

Impegnandosi nel processo diplomatico, il presidente prende due piccioni con una fava. In primo luogo, il posto di primo piano accordato al Cremlino nel condurre i negoziati ha messo la Russia sotto i riflettori della «comunità internazionale», il che potrebbe dissuaderla dal contribuire a destabilizzare ulteriormente la regione. Inoltre, la confisca e distruzione degli stock di gas tossici siriani – con quali mezzi tecnici, logistici e finanziari, non è per ora dato sapere – potrebbero indurre Tehran a una maggiore flessibilità rispetto alle pressioni internazionali sul suo programma nucleare.

 Il tempo in cui gli Stati uniti imponevano la loro volontà al mondo intero sembra appartenere al passato, e ormai la Casa bianca si barcamena fra due obiettivi non sempre conciliabili: frenare l’influenza cinese rafforzando le proprie posizioni in Asia; contenere gli appetiti regionali dell’Iran e della Russia coinvolgendosi nel dossier siriano.

di MICHAEL T. KLARE *

* Professore all’Hampshire College, specialista di studi sulla pace e la sicurezza mondiali. Autore di The Race for What’s Left: The Global Scramble for the World’s Last Resources, Metropolitan Books, New York, 2012.

 

 NOTE:

(1) Cfr. James Ball, «Obama issues Syria a “red line” warning on chemical weapons», The Washington Post, 20 agosto 2012.
(2) Dichiarazione di Charles Hagel davanti alla commissione affari esteri del senato, 3 settembre 2013.
(3) Si legga Alain Gresh, «Dall’impasse siriana alla guerra regionale», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2013.
(4) Michael T. Klare, Blood and Oil, Metropolitan Books, New York, 2005; Michael Palmer, Guardians of the Gulf, Free Press, New York, 1992.
(5) Tim Arango, Anne Barnard, Duraid Adnan, «As Syrians fight, sectarian strife infects Mideast», The New York Times, 1 giugno 2013.
(6) Yagil Beinglass, Daniel Brode, «Russia’s Syrian power play», The New York Times, 30 gennaio 2012.
(7) Mark Mazzetti, Michael R. Gordon, Mark Landler, «US is said to plan to send weapons to Syrian rebels», The New York Times, 13 giugno 2013; Peter Baker, Michael R. Gordon, «An unlikely evolution, from casual proposal to possible resolution», The New York Times, 10 settembre 2013.

(Traduzione di Giu. Acc.)

 

Damasco,ingombrante alleato di Tehran

 

In un’intervista rilasciata al «Washington Post» il 20 settembre, il presidente iraniano Hassan Rohani ha offerto la propria mediazione nel conflitto siriano. Le relazioni strategiche fra Damasco e Tehran, vecchie di oltre trent’anni, sono minacciate? La Repubblica islamica si prepara a riorientare la propria politica e a lasciar cadere il sostegno al presidente Bashar al Assad?

 di ALI MOHTADI *

 IN ESILIO dal 1964 a Najaf, l’ayatollah Rohullah Khomeini aveva deciso nel 1978 di lasciare l’Iraq per allontanarsi dalle pressioni del potere baathista di Saddam Hussein. Fra chi gli era vicino, alcuni gli suggerirono di scegliere la Siria, anch’essa diretta dal partito Baath, ma da una componente decisamente ostile al presidente iracheno. Scottato, l’ayatollah alla fine si decise per la Francia. Malgrado questa diffidenza, la Siria della famiglia al Assad, al potere dal 1970, ha in seguito saputo diventare un’alleata della Repubblica islamica dell’Iran e per trent’anni trarne vantaggi sul piano finanziario, militare ed economico.

A quest’alleanza concorrono diversi fattori. A partire dal 1978, dopo gli accordi di Camp David fra Anuar al Sadat e Menahem Begin, preludio alla pace fra Egitto e Israele, il presidente Hafez al Assad cerca un nuovo partner per sostituire il Cairo. E diventa alleato indispensabile di Tehran condannando, al contrario delle monarchie arabe del Golfo, l’invasione irachena dell’Iran nel settembre 1980.

La creazione e lo sviluppo di Hezbollah in Libano, in seguito all’invasione israeliana del 1982, rafforzano quest’alleanza, e le armi iraniane destinate all’organizzazione sciita libanese transitano attraverso la Siria. L’importanza della relazione fra i due paesi è evidenziata anche dal fatto che solo l’ambasciatore della Repubblica islamica a Damasco è nominato direttamente dalla Guida suprema. Del resto, basta dare un’occhiata alla lista di questi inviati speciali e alla loro carriera per constatarne il peso. Ad esempio, al loro ritorno in Iran, Mohammad Hossein Akhtari e Hossein Mussavi hanno lavorato nel gabinetto della Guida suprema abbandonando la carriera al ministero degli esteri.

L’elezione di Mohammed Khatami alla presidenza della Repubblica nel 1997 indebolì il legame fra Tehran ed Hezbollah: i riformatori iraniani cercavano di normalizzare le relazioni con i paesi arabi del Golfo. Durante una visita in Libano nel 2002, l’allora ministro degli esteri Kamal Kharazi chiede all’organizzazione una maggiore prudenza (1), tanto che il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, se ne lamenta presso la Guida suprema Ali Khamenei. A quell’epoca, i rapporti fra l’ambasciata a Beirut ed Hezbollah erano a tal punto intrisi di diffidenza che alla fine trattare direttamente con l’organizzazione furono chiamati i «guardiani della rivoluzione» (pasdaran).

Ma gli sforzi di normalizzazione di Khatami sono minati dalla decisione del governo di George W. Bush, nel gennaio 2002, di inserire l’Iran nei paesi dell’«asse del Male». Nel novembre 2004, l’amministrazione statunitense respinge il compromesso sul dossier nucleare firmato dai ministri degli esteri della «troika» europea – Francia, Regno unito e Germania – e da Hassan Rohani, allora segretario del Consiglio superiore per la sicurezza nazionale; l’accordo prevedeva la sospensione del programma di arricchimento dell’uranio.

Dibattito all’interno del potere iraniano sul sostegno a Bashar al Assad

QUESTO IRRIGIDIMENTO favorisce la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad alle elezioni presidenziali del 2005. Si rafforza il predominio delle forze di sicurezza e dei «guardiani della rivoluzione» nella gestione delle relazioni regionali. Il sostegno a Hezbollah diventa più determinato e si sviluppano i legami con il potere siriano, indebolito e isolato dopo l’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafic Hariri il 14 febbraio 2005 –Stati uniti e Francia accusano Damasco dell’attentato.

Con lo scoppio, agli inizi del 2011, della cosiddetta «primavera araba», la politica regionale dell’Iran entra in una zona di incertezza. Da un lato, Tehran cerca di accreditare l’idea che queste «rivoluzioni» sono ispirate dalla propria; l’arrivo al potere di islamisti è presentato come il compimento della promessa dell’ayatollah Khamenei, che aveva predetto un «risveglio islamico». D’altro canto, il regime, che aveva represso gli oppositori appena due anni prima, denuncia l’insurrezione in Siria, che ritiene manipolata dall’Occidente e da Israele. Sostiene invece le rivoluzioni tunisina, egiziana, libica, yemenita e bahreinita.

Questo paradosso è andato avanti per un anno, finché Tehran non si è decisa a riorientare la propria politica e a immaginare la possibilità di una transizione a Damasco senza il presidente Bashar al Assad. A quel punto l’Iran ha iniziato un dialogo anche con l’opposizione siriana, ritagliandosi un ruolo di mediazione.

In parte questa strategia si spiega con la rivalità con l’Arabia saudita, strategico alleato degli Stati uniti. Questa competizione ha assunto un aspetto confessionale: l’Iran sostiene Hezbollah libanese e altri gruppi militanti sciiti, mentre l’Arabia saudita si spende senza risparmio a favore di gruppi salafiti e jihadisti sunniti. Questa polarizzazione ha scavato un fossato fra popolazioni che fino ad allora erano vissute in relativa armonia, in Siria, Libano e Iraq. I gruppi salafiti prendono di mira gli sciiti, e le organizzazioni politiche sciite come Hezbollah vedono nel salafismo e nella sua ala jihadista il nemico principale, accusandoli anche di rimanere inattivi rispetto a Israele.

Ma la rivalità fra Tehran e Riyad non si limita a una dimensione religiosa né a uno scontro fra sciiti e sunniti. L’Iran, che ha sostenuto gli islamisti sunniti in Tunisia ed Egitto, si è avvicinato ai Fratelli musulmani, mentre l’Arabia saudita condannava questa organizzazione e appoggiava il colpo di Stato del 3 luglio 2013 contro il presidente egiziano Mohamed Morsi. Dunque l’amicizia di Tehran con il potere di Damasco, i cui principi sono ben diversi da quelli della rivoluzione islamica, trova le proprie ragioni piuttosto in interessi geopolitici che nella religione.

Nei dibattiti della campagna presidenziale del 2013, la politica estera della Repubblica islamica, campo riservato alla Guida, non avrebbe dovuto essere messa in discussione. Ma il consenso ufficiale non ha resistito alle sanzioni internazionali, conseguenza delle successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e al crescente isolamento del paese nella regione. E Rohani si è distinto come il candidato più critico rispetto al bilancio diplomatico del suo predecessore, il che gli ha fatto guadagnare molti punti.

Dopo la vittoria nel giugno 2013, fin dalla sua prima apparizione televisiva, il neopresidente, che ha familiarità con i congegni della politica estera e di sicurezza, ha promesso di migliorare le relazioni con Riyad, tornando alla strategia di Khatami. Rohani, che nel 1998 a titolo di membro del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale aveva firmato un accordo sulla sicurezza con l’Arabia saudita, ha definito questo paese «fratello e amico (2)». A metà settembre, alcuni media iraniani e sauditi prevedevano una visita del presidente in Arabia saudita, in occasione del pellegrinaggio alla Mecca al quale egli è stato ufficialmente invitato dal re Abdallah.

Quando la guida della rivoluzione saluta la «flessibilità eroica» in diplomazia

ATTESTANO QUESTO cambiamento i nuovi metodi di lavoro del gabinetto presidenziale e gli annunci fatti dal suo ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif. In un tweet inviato il 5 settembre 2013 alla figlia di Nancy Pelosi, ex presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati uniti, il ministro ha augurato buon anno agli ebrei di tutto il mondo e ha affermato che «l’Iran non ha mai negato l’Olocausto. L’uomo che era percepito come negazionista non è più al potere» – un riferimento all’ex presidente Ahmadinejad.

Avendo ereditato una situazione economica catastrofica, Rohani persegue innanzitutto un alleggerimento della pressione internazionale e delle sanzioni, così da far ripartire l’economia. Secondo uno studio del Parlamento e della nuova amministrazione, il tasso di crescita è sceso del 5,6% quest’anno – il presidente uscente sosteneva che fosse cresciuto del 6%.

Nel suo slancio verso quella che egli chiama una distensione con l’Occidente, Rohani ha rotto dei tabù; riuscendo a neutralizzare gli ultimi recalcitranti all’interno dei «guardiani della rivoluzione» e a ottenere il sostegno della Guida suprema che, in un discorso del 17 settembre, ha salutato la «flessibilità eroica» in diplomazia (3). Le possibilità di apertura si giocheranno sicuramente sulla questione nucleare, la cui gestione è stata affidata al ministro degli esteri. Per la prima volta, il presidente ha riconosciuto che c’è un’urgenza, per Tehran come per gli occidentali (4).

Di seguito, il governo iraniano potrebbe immaginare altri scenari in Siria; diversi indizi sembrano suggerirlo. Il 29 agosto, sulla sua pagina Facebook, la nipote dell’ayatollah Khomeini riferiva il parere dell’ex presidente Hashemi Rafsanjani a proposito dell’utilizzo dei gas nella periferia di Damasco: «Un potere che utilizza armi chimiche contro il suo stesso popolo ne subirà catastrofiche conseguenze». Alcuni giorni più tardi, circolava in rete il video di un discorso di Rafsanjani, nel quale si riprendevano le stesse parole (5). L’ex presidente non ha davvero smentito di averle pronunciate.

Altro indizio: le dichiarazioni, il 13 settembre 2013, di Sardar Alaei, uno degli ex comandanti dei «guardiani della rivoluzione»: «Purtroppo, a causa della crisi siriana, fra i popoli del mondo arabo si è diffuso un sentimento anti-iraniano. La domanda che tutti ci fanno di continuo è: perché, voi che credete nella democrazia, sostenete il regime dispotico della Siria? È un interrogativo costante da parte di tutti quelli che hanno giocato un ruolo negli sconvolgimenti degli ultimi tre anni nei paesi arabi…Questo diminuisce notevolmente l’influenza dell’Iran nel pensiero del mondo arabo (6)».

Alaei, che era stato anche capo di stato maggiore, è stato fra le prime personalità iraniane ad aver evocato un cambiamento di politica rispetto alla Siria. Un anno fa, in un’intervista al sito Diplomatie iranienne animato dall’ex ambasciatore dell’Iran in Francia Sadegh Kharrazi, egli dichiarava: «La maggioranza degli oppositori all’attuale regime siriano pensa che la rinuncia al potere da parte di Bashar sarebbe l’occasione per introdurre vere riforme in Siria. Anche l’Iran, a poco a poco, comincia a pensare a una “Siria senza Bashar al Assad” (7)».

Certamente, queste dichiarazioni non riscuotono un consenso generale. Per esempio, Qasem Soleimani, comandante della forza al Quds dei «guardiani della rivoluzione», ha dichiarato che l’Iran appoggerà la Siria «fino in fondo (8)». Ma quantomeno il dibattito è aperto.

A Tehran circola un detto: «Il clero sciita ha atteso millequattrocento anni [dalla nascita dell’islam in poi] prima di poter arrivare al potere, e non è disposto a rinunciarvi tanto facilmente». Le tante crisi attraversate dall’Iran in questi ultimi trent’anni ne confermano la capacità di adattamento, ma anche la possibilità di cambiamenti nella linea, derivanti dal dibattito interno.

Malgrado la guerra con l’Iraq, malgrado le contestazioni interne, malgrado le sanzioni, la Repubblica islamica ha saputo garantire il proprio potere. Nel 1988, l’ayatollah Khomeini aveva definito «nulla» la risoluzione 598 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che mirava a porre fine alla guerra con l’Iraq, sostenendo che accettarla sarebbe stato un «atto di disobbedienza al profeta dell’islam». Ma qualche giorno dopo egli la accettò, perché il suo rifiuto avrebbe prolungato il conflitto e isolato il paese.

Allo stesso modo, un anno prima l’ayatollah aveva annunciato che avrebbe potuto dimenticare la questione di Gerusalemme, ma che non avrebbe perdonato alla famiglia reale saudita, con la quale nessuna relazione si sarebbe mai più dovuta ristabilire. Ma il 10 dicembre 1991, l’allora presidente Rafsanjani incontrava il futuro re Abdallah, all’epoca principe ereditario dell’Arabia saudita.

Modificare la politica regionale mantenendo i propri interessi

NELL’ATTUALE situazione siriana, Tehran può percorrere due strade: contribuire alla prosecuzione della guerra e continuare a sostenere in modo incondizionato il potere di al Assad, oppure modificare la propria politica regionale pur preservando i propri interessi. In una situazione simile, quella della crisi libanese del 2006-2008, l’Iran aveva dato il via libera alla firma dell’accordo di Doha da parte di Hezbollah, con la mediazione del Qatar e dell’Arabia saudita; ciò aveva permesso di uscire dalla crisi e organizzare le elezioni. Allo stesso modo, l’Iran aveva saputo sostenere gli accordi di Taëf del 1989 che misero fine alla lunga guerra civile libanese, dopo essersi assicurato che Hezbollah avrebbe mantenuto le proprie armi mentre le altre milizie sarebbero state disarmate.

È possibile immaginare uno scenario di questo tipo, che permetterebbe a Tehran di appoggiarsi su forze diverse da quelle di Bashar al Assad? Una lunga guerra di usura in Siria è sempre più insopportabile per l’economia iraniana già indebolita; Tehran, fra l’altro, paga i salari ai soldati dell’esercito siriano. Una prosecuzione del conflitto rischia di tradursi in una diminuzione dell’influenza iraniana e anche di sfociare in una crisi con la Turchia, cosa che l’Iran ha evitato fin dall’inizio della rivoluzione.

Molto dipenderà dai negoziati definiti «Ginevra 2», previsti dagli Stati uniti e dalla Russia, fra il governo di Damasco e l’opposizione, e dal ruolo che potrà giocarvi la Repubblica islamica. Quest’ultima cercherà garanzie per evitare che l’estromissione dei suoi protetti di Damasco non provochi uno tsunami di forze salafite, trasformando in modo definitivo lo scontro confessionale fra sciiti e sunniti nella principale frattura del Medioriente. Il conflitto con Israele passerebbe in secondo piano e l’Iraq post-Saddam, alleato di Tehran, vedrebbe svilupparsi una contestazione sunnita ancora più virulenta dell’attuale. Per ora, il governo iraniano sembra limitarsi a una politica attendista, ribadendo la volontà di partecipare al processo di Ginevra 2, con la speranza che una soluzioneal conflitto gli permetta di evitare una sconfitta strategica.

 ALI MOHTADI * Giornalista

 NOTE:

(1) Discorso del 12 aprile 2002.

(2) Agenzia ufficiale Irna, citata da Bbc Monitoring Service Iran, Londra, 19 settembre 2013.

(3) Citato da Bbc Monitoring Service Iran, 17 giugno 2013. Quest’espressione richiama l’imam Hassan che, nell’anno 661, concluse un accordo con il nemico.

(4) Intervista alla televisione iraniana, 10 settembre 2013. Citato da Bbc Monitoring Service Iran, 18 settembre 2013.

(5) Radio Free Europe, www.rferl.mobi

(6) Sharg, Tehran, 14 settembre 2013.

(7) 4 settembre 2012, www.irdiplomacy.ir

(8) Agenzia Fars, 4 settembre 2013, citato da Bbc Monitoring Service Iran,4 settembre 2013.

(Traduzione di M. C.)

Dissoluzione degli Stati, diffusione del jihadismo

 

Chi dice «no»

BRASILE

Assistiamo a una tragedia generalizzata sul territorio della Siria e dei suoi vicini. Il governo di Damasco ha la responsabilità principale nella serie di violenze di cui è vittima una gran parte della popolazione civile, soprattutto donne, bambini e ragazzi. Ma (…) siamo ugualmente coscienti delle responsabilità dei gruppi armati dell’opposizione, in particolare di quelli che beneficiano in misura sempre maggiore di un appoggio militare e logistico estero (…). Non c’è una soluzione militare alla crisi siriana. Diplomazia e dialogo non sono semplicemente la scelta migliore, sono anche l’unica possibile.
Dilma Rousseff, presidente brasiliana, discorso
all’Assemblea generale delle Nazioni unite (Onu), 25 settembre 2012.

ARGENTINA

Come membri del Consiglio di sicurezza [presieduto dall’Argentina], diciamo, con il papa, che nessuno, assolutamente nessuno auspica la guerra. Non pensiamo che i morti possano essere resuscitati facendo altri morti. (…) [La prospettiva di una guerra] ci pare di un’incoerenza totale.Cristina Fernández de Kirchner, presidente argentina,a San Pietroburgo a margine del G20, 5 settembre 2013.

CILE

Il governo cileno ritiene che qualunque azione militare in Siria debba essere decisa nel quadro di una struttura istituzionale multinazionale, all’Onu e al Consiglio di sicurezza, e non in modo unilaterale da un solo paese o da un gruppo di paesi. Sebastián Piñera, presidente cileno,conferenza stampa, 5 settembre 2013.

INDIA

Siamo favorevoli alla proposta russa di porre sotto controllo internazionale lo stock siriano di armi chimiche. Essa corrisponde alla proposta che l’India ha da tempo avanzato: la completa eliminazione delle armi chimiche in tutto il pianeta. Ogni tentativo in questo senso, nel quadro dell’Onu, è uno sviluppo positivo. Ciò dovrebbe permettere di rilanciare gli sforzi di pace in vista di una soluzione politica al conflitto, compreso il rapido svolgimento del progetto Ginevra 2 (…). Al tempo stesso, si deve escludere qualunque intervento militare esterno negli affari interni della Siria. Salman Khurshid, ministro degli esteri indiano,The Hindu, New Delhi, 14 settembre 2013.

SUDAFRICA

Il Sudafrica è preoccupato per la pericolosa retorica che evoca la possibilità di un intervento armato (…). Le conseguenze di tale operazione sono imprevedibili e non faranno che inasprire il conflitto (…). Condanniamo l’uso di armi chimiche (…). Ma il nostro governo non crede che bombardare popolazioni già sofferenti e distruggere infrastrutture in Siria possa contribuire a una soluzione duratura del conflitto.Comunicato del ministero degli esteri sudafricano, Afrik.com, 29 agosto 2013.

LIBANO

Sono contrario a qualunque intervento armato in Siria. Faccio appello a una soluzione negoziata del conflitto (…). Ringrazio i cinque rappresentanti qui presenti per il sostegno dato dal loro paese alla stabilità e alla sovranità del Libano. Michel Suleiman, presidente libanese, davanti agli ambasciatori dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza, 3 settembre 2013Già fragili, erosi dai conflitti nei quali prosperano dittatori corrotti, il Medioriente, il Maghreb e le zone confinanti hanno conosciuto, con l’avvio della «guerra contro il terrorismo» successiva all’11 settembre 2001, quattro interventi occidentali importanti, ai quali si aggiungono le guerre israeliane contro il Libano e contro Gaza. Questi interventi armati hanno contribuito all’indebolimento degli Stati e alla diffusione dei gruppi jihadisti. Come indica la carta, i combattenti attraversano le frontiere, esportando idee, metodi di azioni, competenze. I conflitti attirano volontari da tutto il mondo, Europa compresa.

Afghanistan, settembre 2001.

In seguito agli attacchi contro le torri gemelle a New York e contro il Pentagono a Washington, gli Stati uniti rovesciano il regime dei talebani, affermatosi in un Afghanistan distrutto dalla guerra iniziata con l’invasione sovietica. Il ritiro delle truppe dell’Organizzazione del trattato del nord Atlantico (Nato) dovrebbe essere ultimato nel 2014, ma l’insurrezione talebana non è mai stata così potente. Il conflitto si è esteso al Pakistan, soprattutto con l’utilizzo di droni.

Iraq, 2003.

 Gli Stati uniti rovesciano il regime di Saddam Hussein. Si ritirano alla fine del 2012, lasciando un paese distrutto e diviso. al Qaeda, prima assente in Iraq, si struttura, attrae migliaia di volontari, soprattutto dal Caucaso e dal Golfo, e mujahidin reduci dall’Afghanistan. Lo Stato stenta a ricostruirsi.

Libia, 2011.

Appoggiati da Washington, Francia e Regno unito contribuiscono direttamente al rovesciamento di Muammar Gheddafi. Migliaia di combattenti, soprattutto dell’Africa subsahariana, che erano arruolati nell’esercito libico, sciamano nella regione, dopo aver saccheggiato gli arsenali abbandonati. Nessuno più controlla le frontiere.

Mali, 2012.

Per respingere i gruppi armati che hanno preso il controllo del nord del Mali, la Francia interviene militarmente. In seguito, subentrano truppe delle Nazioni unite, ma la Francia rimane il perno del dispositivo di sicurezza in uno Stato fantasma. I combattenti di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) si sono disseminati in tutta la regione.
Il massiccio uso di droni da parte degli Stati uniti in questi teatri operativi, ma anche in Somalia e Yemen, ha eliminato un certo numero di quadri jihadisti, ma ha anche causato la morte di molti civili, vittime di «danni collaterali». Questo alimenta un odio antiamericano che spinge al fronte centinaia di combattenti.A queste quattro guerre occorre aggiungere quella condotta da Israele contro il Libano nel 2006, che ha reso ancora più fragili i precari equilibri del paese aggredito e che ha indebolito lo Stato, incapace di resistere, a vantaggio di Hezbollah. E poi le due spedizioni a Gaza, che hanno contribuito a impedire la nascita di un’entità palestinese indipendente e unificata. Senza dimenticare, ovviamente,

Diplomazia francese, uno scacco totale

Durante la sessantottesima Assemblea generale delle Nazioni unite, a New York, François Hollande ha incontrato il suo omologo iraniano, che fino a poco tempo fa avrebbe voluto escludere dai negoziati sulla Siria. Un cambiamento di Parigi ispirato ancora una volta dalle decisioni diplomatiche di Washington.

di OLIVIER ZAJEC*

AL CONTRARIO dell’operazione «Serval», scatenata in Mali nel gennaio 2013, considerata brillante sul piano militare e soddisfacente sul piano politico (1), la sanguinosa questione siriana rappresenta già uno scacco totale per la diplomazia francese.

L’obiettiva umiliazione subita da Parigi, piantata in asso dagli alleati dopo aver giocato il ruolo del bullo a oltranza, è profonda e lascerà il segno. I maldestri atti di arroganza durante la ritirata, proposti in extremis da una Francia che avrebbe «fatto piegare Mosca» e «addestrato» Washington, resistono poco all’analisi, contrariamente a quanto scrivono certi quotidiani francesi. Fuori dalle nostre frontiere, abbastanza curiosamente, il punto di vista è meno sofisticato: nelle cancellerie e sui media esteri, quest’autocompiacimento è stato commentato con commiserazione mista a Schadenfreude [«gioia cattiva» suscitata dal fallimento altrui].

Senza dubbio, il piano per uscire dalla crisi proposto dal presidente russo Vladimir Putin il 9 settembre 2013, che consiste, sotto la supervisione dell’Onu, nel «mettere in sicurezza» le mille tonnellate stimate dell’arsenale chimico di Damasco, e che ormai è accettato all’unanimità, era stato discusso bilateralmente con gli Stati uniti al G20 di San Pietroburgo, il 5 settembre. Questo accordo informale fra «grandi» – in questo caso l’aggettivo indica la maturità diplomatica più che il livello di potenza – è stato concluso senza che la Francia, la quale visibilmente aspirava allo status di primo luogotenente, dopo la defezione britannica (2), sia stata nemmeno consultata. Così la Russia permette al presidente statunitense Barack Obama, fondamentalmente reticente rispetto all’intervento, di uscire dalla trappola che egli stesso si era teso indicando nel 2012 una «linea rossa» consistente nell’impiego di armi chimiche nella guerra civile siriana. Successivamente, la durezza verbale del segretario di Stato John Kerry ha occupato la scena salvando il salvabile della coerenza statunitense, fino a quando non si è perfezionata la convergenza con Putin, con reciproca soddisfazione: già il 20 settembre, Kerry e il suo omologo russo Sergei Lavrov erano a Ginevra per incontri bilaterali che preparavano le condizioni di una conferenza internazionale sulla Siria, la cosiddetta «Ginevra 2», prevista per il luglio 2014.

Padrone dei tempi, Putin ha mantenuto libertà d’azione e condotto le danze sempre, costringendo i partner a seguire tutte le sue mosse. Egli aumenta la sua influenza sul governo di Bashar al Assad, e al tempo stesso consolida un’argomentazione efficace perché molto semplice: in quale misura, chiede, un attacco aereo mirato e limitato nel tempo avvantaggerebbe il popolo siriano? L’uso della forza favorirebbe l’obiettivo di una conferenza internazionale di pace? Perché combattere il pericolo jihadista ovunque nel mondo e aiutarlo in Siria?

In questo gioco cinico di realpolitik a tre sponde, Mosca ha fatto un favore al presidente statunitense tirandolo fuori da un’operazione che egli temeva, e questo mentre Parigi, già uscita dalla trincea, suonava eccitata e virtuosa la fanfara correndo verso le linee di filo spinato senza verificare di essere coperta. Nessun francese, indipendentemente dall’orientamento politico, può evitare di sentirsi disorientato dall’isolamento del presidente François Hollande a San Pietroburgo, e dalla subordinazione almeno apparente di Parigi rispetto al posizionamento statunitense e ai giochi di apparato del Congresso. L’Eliseo e il Quai d’Orsay sembrano essere riusciti in un’impresa: irritare Washington, imbarazzare Londra, far alzare gli occhi al cielo a Berlino, far disperare Beirut, scatenare un concerto di sospiri a Bruxelles e far divertire gli scacchisti di Mosca, in una volta sola.

Dall'avventurismo libico di Sarkozyall'imprudenza siriana di Hollande

PER FINIRE IL QUADRO, ricordiamo l’allineamento rivelatore del deputato dell’Union pour un mouvement populaire (Ump) Frédéric Lefebvre al prurito interventista francese (3). Un ponte gettato fra l’avventurismo libico di Nicolas Sarkozy e l’imprudenza siriana di François Hollande, in nome di una geografia dell’inammissibile che pratica un’indignazione selettiva: la Palestina e una quindicina di altri scandali internazionali non figurano nella lista. Alla fine, il credito reale acquisito in Mali ne risulta diminuito, e l’immagine positiva del rifiuto della guerra contro l’Iraq nel 2003 appare improvvisamente compromessa sul piano dell’indipendenza e della lucidità, fino ad allora riconosciute alla Francia.

Il presidente della Repubblica, recatosi a Bamako per raccogliere le spoglie opime, faticherà a far dimenticare le forche caudine di San Pietroburgo, cosa che non può far piacere a nessuno: tanto più che con il discorso pronunciato in quell’occasione è stato reso noto che la Francia ormai fornirà ufficialmente armi alla ribellione. Hollande evoca forniture «in un quadro controllato, perché non possiamo accettare che le armi arrivino a jihadisti» anziché all’«Esl», l’Esercito siriano libero. Il problema, purtroppo, è che l’equazione è a tre incognite, dal momento che i termini «controllato», «jihadisti» e anche «Esl» sono impossibili da definire allo stato attuale. Quale grado di porosità esiste fra l’Asl e gruppi dalle «tendenze islamiste più marcate (4)» come Ahrar al Cham e Liwa al Tawid, o il Fronte al Nusra, ancora più estremista? La decisione di «fornire armi», legittimandola con il fatto che «i russi [lo fanno] regolarmente» (5) getta benzina sul fuoco e potrebbe prolungare follemente la macelleria siriana, consentendo ad al Assad di denunciare ancora più agevolmente l’ingerenza straniera. Insomma, un totale azzardo, che contraddice la volontà da tutti proclamata di giungere a una soluzione politica del conflitto.

Come si è arrivati a questo punto? La colpa è da ricercarsi, come sostiene Bernard-Henri Lévy, in una «diplomazia d’opinione (6)» legata ai sentimenti pacifisti di un’opinione pubblica che, senza dubbio per limiti mentali, rifiuta di rendersi conto della gravità degli eventi siriani? Come sempre succede per il notista del Point, la formula ha il merito della disinvoltura. Ma può l’ellisse indignata sostituire il ragionamento geopolitico e diplomatico?Lo scacco siriano si spiega in primo luogo con una valutazione emiplegica della situazione regionale e delle sue conseguenze. Da mesi il ministero degli esteri francese consulta esperti. Alcuni sono veri conoscitori della regione e dunque hanno sottolineato la complessità della realtà siriana, facendo presente che parte della popolazione siriana sostiene la dittatura di al Assad «in mancanza di meglio», respingendo l’idea di una «nuova» Siria la quale, visto che faccia ha la ribellione, rischia di ritrovarsi in pasto a estremisti confessionali e alle manipolazioni di padrini regionali noti per essere sponsor diretti di un oscurantismo che condanna i paesi arabi all’immobilismo. Quei siriani, che magari non sanno neanche dove si trova Monaco, prevedono che il dopo al Assad, almeno nelle condizioni attuali, offrirà loro una scarsa sicurezza, per usare un eufemismo.

Fra tante voci, ecco dunque un fatto: una parte importante della popolazione siriana si batte, o meglio si dibatte, a fianco di un regime che non ama. Gli iracheni hanno lasciato solo Saddam Hussein. I libici hanno abbandonato il colonnello Muammar Gheddafi. Gli egiziani hanno congedato Hosni Mubarak. Tutti o quasi tutti l’hanno fatto nel loro insieme, anche quando a ragione dubitavano (pensiamo alla gioventù egiziana e a una parte dei libici) che il nuovo potere sarebbe stato più virtuoso e più giusto del precedente. In Siria, se nessuna delle due parti sembra poter prevalere sull’altra, non è solo a causa della superiorità militare del regime, ma anche a causa del rassegnato lealismo di una parte della popolazione, la quale rifiuta di mollare al Assad malgrado le brutalità, il nepotismo clanico e l’immobilismo poliziesco che caratterizzano il suo governo. Fra la scilla alauita – ben lontana dagli ideali di Michel Aflak (7) – e la Cariddi delle decapitazioni (8), della sharia integrale e dell’oppressione delle minoranze, quale speranza ha la Siria di Maalula, di Latakia e dei confini curdi? È la risposta a questa domanda che dovrebbe fare da struttura a qualunque analisi della crisi siriana.

Una parte della ribellione teme l’influenza dei più estremisti; ma sono questi ultimi che, molto rapidamente, hanno avuto il vento in poppa in questa guerra civile. Diversi esperti – di rado chiamati in televisione – hanno cautamente sottolineato questa complessità, che disturba sul piano morale ma è eminentemente fattuale, ai loro interlocutori ufficiali di Parigi. Ma le loro analisi sembrano essersi perse durante la folle settimana che ha visto estremizzarsi la posizione francese sulla questione siriana.

Questo corto circuito diplomatico e mediatico è senza dubbio un secondo elemento preoccupante nel dossier siriano. Dopo l’11 settembre, la Francia si era fatta beffe del vocabolario da cow-boy degli statunitensi! E aveva avuto ragione, come tutti riconoscono. «O siete con noi o siete con i terroristi»: chi non ricorda questa espressione di George W. Bush, che per sempre sarà considerata il livello zero delle prese di posizione in diplomazia, alla moda dei neocon (9). Ci si può dunque chiedere come mai, nel caso siriano, si è ritenuto di dover annunciare con gran pompa la volontà di Parigi di «punire» al Assad. A cosa corrisponde questa «punizione» nella griglia di gravità evolutiva che regge e pondera l’espressione della posizione degli Stati nel sistema delle relazioni internazionali? Si rincresce il professor Bertrand Badie: «Hanno mescolato tutto: la responsabilità di proteggere il popolo siriano – il conflitto ha fatto oltre centomila morti in due anni – e la volontà di punire il regime di Bashar al Assad. Ma punire e proteggere sono due cose diverse (10)».

«La guerra civile è il regno del crimine» (Corneille)

L’INDIGNAZIONE è comprensibile, e l’ignobile attacco chimico del 21 agosto nella pianura di Goutha non può lasciare indifferenti. Ma nemmeno questo deve far perdere il senso della misura ai più alti vertici dello Stato. Oggi la Siria è sconvolta da una guerra civile, uno stato che, per definizione, trasforma gli uomini in bruti: «La guerra civile è il regno del crimine» (Pierre Corneille). Poiché nessuna delle due parti sembra poter prevalere sull’altra, e poiché non c’è una parte che sembra più «virtuosa» dell’altra, è urgente stabilizzare politicamente e militarmente le esistenti linee del fronte, per far cessare i massacri.

La Russia fornisce armi al regime. Alcuni Stati del Golfo approvvigionano i diversi gruppi della ribellione, in funzione del loro grado di infeudamento ai propri obiettivi geopolitici. La guerra civile si è trasformata in guerra regionale, dove Turchia, Arabia saudita e Iran assumono posizioni sempre più antagoniste, trasformando la terra di una delle civiltà più antiche del mondo in un’arena il cui destino viene deciso altrove.

In queste condizioni, il Quai d’Orsay, in appoggio a Mosca o a Washington, avrebbe potuto proporre un’altra via, diplomatica ed equilibrata (11). Certamente, imperfetta. Senza dubbio incompleta. Ma adatta a un’equazione con varie incognite.

Diventando al contrario un ulteriore elemento di instabilità nel maelström siriano, Parigi per il momento si priva del possibile ruolo, impegnativo e indispensabile, di arbitro. Berlino, fredda e ponderata, rappresenterà benissimo l’Europa quando si tratterà, fra qualche mese, di mettere intorno a un tavolo i vari Caino e Abele siriani, sotto la presidenza accigliata degli Stati uniti e della Russia, con la probabile presenza dell’Iran, il che potrebbe contribuire a sbloccare in parte la situazione. Anche se i presidenti Rohani e Obama non hanno potuto incontrarsi all’Onu il 25 settembre, la diplomazia statunitense sembra favorevole a un atteggiamento più realista nelle relazioni diplomatiche con Tehran. Dal canto suo, Hollande, il quale riteneva il 18 giugno scorso che Rohani sarebbe «il benvenuto (…) se fosse utile» alla prossima conferenza internazionale sul futuro della Siria, alla fine ha accettato di discutere con il presidente iraniano a New York.

Questi capovolgimenti pragmatici mostrano come il termine «punizione», slogan da vendicatore autonominatosi tale, in spregio al Consiglio di sicurezza, ancor prima che un’ispezione dell’Onu abbia lavorato sul dramma di Goutha, può essere considerato una delle cantonate più incomprensibili di questi ultimi anni, da parte di un paese il cui apparato diplomatico ha tuttora all’estero una meritata reputazione di professionalità e misura. Ecco come la pensa, in cuor proprio, «l’antipopolo che è l’opinione [pubblica] (12)», che ha il torto, nella sua ingenuità, di non dimenticare la fialetta di Colin Powell e le «armi di distruzione di massa» dell’Iraq.

Molte voci, in tutto lo spettro politico, chiedono di tornare se non alla ragione almeno alla prudenza, e fra queste Jean-Pierre Chevènement (il quale nel 1991 si dimise da ministro della difesa per protesta contro la guerra all’Iraq, al quale la Francia partecipava, ndt): «Un tempo c’era il diritto. Oggi, il diritto è stato sostituito dalla morale. E dalla morale si passa alla punizione. È più facile, ma è molto pericoloso, perché il famoso "diritti d’ingerenza" è sempre il diritto del più forte: non si sono mai visti i deboli intervenire negli affari dei forti (13)». Nel 2002-2003 la Francia, senza negare i crimini del regime iracheno, faceva appello con molta lungimiranza a un rigore pieno di precauzioni, nel rispetto del funzionamento delle Nazioni unite.

L’uso presunto dei gas da parte del governo di al Assad richiama alla memoria quello da parte di Saddam Hussein in Iraq nel 1988. A venticinque anni di distanza, dobbiamo portare avanti questo parallelo facendo corrispondere all’invasione dell’Iraq il bombardamento della Siria? Obama, che ha modo di leggere ogni giorno le note che i suoi servizi redigono sul reale stato dell’Iraq dopo che Washington, fra il 2003 e il 2013, ha speso centinaia di miliardi di dollari per la pacificazione democratica (14), dovrebbe avere un’idea della risposta da dare. Non piacerà agli araldi francesi del riflesso di ingerenza. Il che dovrebbe indurci a ritenerla ragionevole.

di OLIVIER ZAJEC* * Ricercatore, Institut de stratégie et des conflits.

 NOTE:

            (1) Si legga Olivier Zajec, «Mali, l’eterno ritornello della guerra al terrorismo», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2013.

            (2) Il 29 agosto 2013, la Camera dei comuni ha respinto per 285 voti contro 272 l’autorizzazione al ricorso all’uso della forza contro la Siria.

(3) Frédéric Lefebvre, «Je soutiens François Hollande à 100 % sur la Syrie», intervista sul blog dell’Ump e sul sito del quotidiano Le Monde, 5 settembre 2013.

(4) Armin Arefi, «Dix aberrations sur le conflit en Syrie», Le Point, Parigi, 5 settembre 2013.

(5) «Syrie: Hollande pour une livraison d’armes "contrôlée" pour les rebelles», Le Monde.fr, Afp e Reuters, 20 settembre 2013.

(6) Bernard-Henri Lévy, «Contre la diplomatie d’opinion», Le Point, 12 settembre 2013. L’autore paragona la «punizione» promessa dalla Francia alla decisione di uscire dalla Organizzazione del trattato nordatlantico (Nato) presa dal generale de Gaulle en 1966. Tutto sommato l’evocazione di un de Gaulle che volava «verso un Oriente complicato con idee semplici» sarebbe stata più adatta al fondo di queste righe.

(7) Michel Aflak, siriano cristiano nato a Damasco nel 1910, fu uno dei padri del nazionalismo e del socialismo panarabi, con il sunnita Salah al Din al Bitar e l’alauita Zaki al Arzouki. Fondatore del partito Baath nel 1947, cantore di un nazionalismo arabo laico, fondato sui valori dell’islam, fu messo da parte dai militari e costretto all’esilio. Morì a Parigi nel 1989.

              (8) Alfred de Montesquiou, «Syrie, surenchère dans l’horreur», Paris Match, 11 settembre 2013.

(9) «President Bush addresses the Nation», The Washington Post, 20 settembre 2001.

(10) «La force n’est pas la seule façon de punir», intervista ne La Vie, Parigi, 4 settembre 2013.

(11) Ovviamente si può fare un parallelo con la strategia del celebre generale romano Quinto Fabio Massimo, detto «il temporeggiatore».

(12) Bernard-Henri Lévy, «Contre la diplomatie d’opinion», op. cit.

(13) «La France n’a pas intérêt à entrer dans une guerre de religion», intervista su Le Parisien, Parigi, 1 settembre 2013.

(14) Si legga Peter Harling, «L’Iraq, dieci anni dopo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2013.

(15) Jacques Bérès, Mario Bettati, André Glucksmann, Bernard Kouchner et Bernard-Henry Lévy, «Assez de dérobades, il faut intervener en Syrie!», Le Monde, 24 ottobre 2012.

(Traduzione di M. C.)

 

Sicurezza collettiva si cercano difensori

A rischio di destabilizzare le Nazioni unite, ormai i diplomatici discutono maggiormente di diritti della persona che di protezione collettiva

dI ANNE-CÉCILE ROBERT

ILVETO OPPOSTO, per tre volte da Mosca, a risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) che minacciavano Damasco di sanzioni si fonda «su un concetto insopportabile della legalità internazionale», dichiarava un diplomatico nel corso della XXI conferenza annuale degli ambasciatori di Francia all’Eliseo, il 28 agosto 2013 (1). Sempre più frequenti nei dibattiti di politica estera, simili affermazioni rivelano la piega presa dalle relazioni internazionali. A partire dal XIX secolo, l’ordine giuridico mondiale tende prioritariamente a «sradicare il flagello della guerra», secondo la terminologia della Carta dell’Onu. Come la Società delle nazioni (Sdn) che l’ha preceduta (2), l’Organizzazione fa della pace il valore supremo, in funzione del quale si organizzano le istituzioni e la legislazione.Il suo primo obiettivo è «mantenere la pace e la sicurezza internazionali», (articolo primo, comma 1). In questa prospettiva, il ricorso all’uso della forza e l’ingerenza negli affari interni degli Stati sono proibiti (articolo 2) perché recano turbamento alle relazioni internazionali e possono scatenare guerre.Per preservare la pace – o ristabilirla quando necessario – la sicurezza collettiva richiede delle garanzie: dispostivi giuridici, diplomaticie istituzionali, coercitivi o non coercitivi, che permettono di reagire in modo collettivo contro una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali. Il capitolo VI della Carta si riferisce al regolamento pacifico delle controversie. Poiché precede il famoso capitolo VII, esso è prioritario rispetto all’uso della forza che il Consiglio di sicurezza può autorizzare. In particolare, l’articolo 33 precisa: «Le parti di una controversia, la cui prosecuzione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso a organizzazioni o accordi regionali, o altri mezzi pacifici a loro scelta.»Si tratta, con la cooperazione e «relazioni amichevoli», di elaborare uno spazio pubblico mondiale di discussione e negoziato nel quale si definiscono regole del gioco accettate da tutti. Le immunità diplomatiche hanno reso più fluidi i rapporti interstatuali: ambasciatori ed emissari di pace non temono più di essere sacrificati alla collera di un ospite scontento. Certo, non sono un modo per combattere i dirigenti criminali, ma favoriscono il dialogo, limitando le incomprensioni.I fallimenti della sicurezza collettiva non mancano, si pensi al ritiro del Giappone e della Germania dalla Sdn negli anni ’30, un preludio alla seconda guerra mondiale. E, dopo il 1945, la guerra non è scomparsa dalla storia del mondo. Tuttavia, è stato fissato un principio per l’insieme degli Stati; chi vuole disattenderlo, deve giustificarsi. E vanno anche ricordati alcuni bei successi dell’Onu, come l’autodeterminazione di Timor Est (3) o la decolonizzazione della Namibia.

«Non c’è niente da scoprire nella contemplazione della violenza»

SE LA PACE è il principio guida, ciò non vuol dire che si escludano i diritti umani dal campo dell’intervento internazionale, bensì che esiste un ordine di priorità. Lo sviluppo della sicurezza collettiva si accompagna a quello del diritto umanitario, le cui premesse vedono la luce dopo la carneficina della battaglia di Solferino nel 1859. L’insufficienza dei mezzi di soccorso aveva allora portato alla creazione della Croce rossa e all’adozione di norme per facilitare l’accesso dei soccorritori ai campi di battaglia. Più tardi, il massacro di Ypres da parte dell’esercito tedesco nell’aprile 1915 portò, nel 1925, a una convenzione che proibiva l’uso delle armi chimiche. I gas erano stati utilizzati per la prima volta su grande scala proprio in quella piccola città belga. Per questo il gas mostarda è chiamato iprite (4). Dal punto di vista della sicurezza collettiva, l’invocazione dei diritti umani suscita di primo acchito sospetto, poiché è stata usata come pretesto per strategie imperiali. Nel XIX secolo, le potenze europee vi facevano ricorso per giustificare l’ingerenza nei paesi che volevano colonizzare («interventi d’umanità» [5]). Idealmente, la protezione delle popolazioni dovrebbe essere uno dei vantaggi collaterali della pace. E, nella difesa delle libertà, il ricorso alla forza non interviene che in ultima istanza, dopo aver percorso invano tutte le vie pacifiche. Dopo la guerra fredda, il mondo non rimette in discussione l’idea di un diritto internazionale come torre di controllo dei comportamenti degli Stati all’estero. Dopo la vicenda del Mandchoukouo (l’invasione della Manciuria da parte del Giappone nel 1931), le annessioni territoriali compiute con la forza sono proscritte. Si inscrive in questo quadro la guerra per la liberazione del Kuwait nel 1991, avallata dal Consiglio di sicurezza. Ma già in quell’occasione il concatenarsi degli eventi lascia intravvedere la piega «emotiva» presa dalle relazioni internazionali. È infatti solo dopo la falsa testimonianza della figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati uniti, con il racconto inventato dell’agonia dei neonati strappati dalle incubatrici, che il Congresso statunitense decide di autorizzare l’azione militare contro l’Iraq (si leggano pagina 18 e 19). Nel 1999, con l’intervento dell’Organizzazione del trattato del nord Atlantico (Nato) in Kosovo, non autorizzato dal Consiglio di sicurezza, si delinea un cambiamento nell’ordine delle priorità internazionali. Il fenomeno è alimentato dai media e dalla pressione di numerose associazioni. Le immagini di donne e bambini che fuggono di fronte ai soprusi dell’esercito serbo, accusato di orga

nizzare una «epurazione etnica», suscitano una legittima condanna del regime di Slobodan Milosevic. Ma, quindici anni dopo, con il «padrone di Belgrado» morto in una prigione all’Aia, i nuovi dirigenti del Kosovo, proclamatosi indipendente, non appaiono certo dei modelli di virtù; e non si contano gli incidenti frontalieri fra albanesi, serbi e kosovari. All’Alleanza atlantica poco importa: pensare alla sicurezza collettiva è meno importante del fatto di aver «punito» Milosevic. Uno scenario simile caratterizza l’intervento franco-britannico in Libia nella primavera 2011: i crimini del regime di Muammar Gheddafi, raccontati da intellettuali dalla riflessione stentata e dalla verbosità altisonante, preparano l’opinione pubblica all’azione militare internazionale. Ma, dopo la caduta della Guida, i combattenti disoccupati e gli arsenali saccheggiati della Libia favoriscono la destabilizzazione del Sahel, che ha come punto culminante la divisione del Mali e, un anno dopo…una nuova operazione militare occidentale. Ancora una volta, la sicurezza collettiva viene messa in secondo piano, malgrado i notevoli sforzi dell’Unione africana, che con Gheddafi tenta diverse mediazioni – tutte fallite per la pressione delle cancellerie europee. A fine agosto 2013, la drammaturgia raggiunge un altro picco mentre i crimini chimici perpetrati in Siria rivoltano anche gli spiriti più saldi.

I Brics non vogliono più stare nel corridoio dei passi perduti della comunità internazionale

UN BAMBINO in lacrime, il corpo crivellato di colpi di una ragazzina o il cadavere di un contadino sotto le bombe condizionano ovviamente la riflessione. Tuttavia «la preoccupazione – spiega Boucher-Saulnier di Médecins sans frontières – è che non c’è niente da scoprire nella contemplazione della violenza». Un cadavere non spiega niente del proprio triste destino. E, a partire dall’incidente di Moukden nel 1931, è nota la propensione, da parte dei regimi impazienti di fare la guerra, a organizzare la precipitazione degli eventi (7). Nell’estate 1994 in Ruanda, i media francesi si impietosirono sulle colonne di rifugiati prima di accorgersi che si trattava degli autori del genocidio, in fuga…Con l’emergere della «responsabilità di proteggere le popolazioni (8)», il diritto internazionale si immerge sempre più profondamente nel bagno dell’emotività, e ogni paese pone la propria «linea rossa» là dove gli conviene, senza nemmeno far finta di preoccuparsi della sicurezza collettiva. Una volta di più nel caso del dossier siriano, i diplomatici sembrano convinti che non è possibile «non fare nulla», e alcuni di loro assumono toni messianici. Come se esistesse solo la via delle armi. In contrasto con la tradizione seguita per decenni, il Quai d’Orsay rivela dunque un «assolutismo morale» che ricorda l’atteggiamento dei neoconservatori statunitensi (si legga l’articolo sopra). Questi ultimi, al tempo di George Bush, avevano sprofondato la «comunità internazionale» in un quadro da Antico Testamento, a colpi di «punizioni» e «castighi» dell’«asse del Male» in Iraq o Afghanistan. Facendo questo, Parigi impedisce ogni negoziato serio, escludendo dalle discussioni una parte dell’opposizione siriana.Come sottolineano alcuni psicanalisti, l’emotività rivela l’immaturità del soggetto che non ha risolto conflitti affettivi dell’infanzia. La società internazionale è dunque in piena regressione? L’idea dei bombardamenti, più o meno «chirurgici», che con abilità evitano gli innocenti per colpire solo i carnefici, appartiene al mondo del pensiero magico. In questa visione, le vittime civili diventano semplici «danni collaterali». Del resto anche il ricorso ai droni, diretti a distanza da soldati tenuti al riparo da qualunque combattimento, fa parte dell’eufemizzazione infantile della violenza. E’ una pratica certamente meno traumatizzante per i militari rispetto alla realtà di un bombardamento come quelli che l’Europa conobbe fra il 1939 e il 1945, a Rotterdam o Dresda. Sulla base delle denunce di Amnesty International, nel 2012 centododici paesi sono accusati di aver torturato i loro cittadini; in cinquanta paesi, le forze di sicurezza sono responsabili di omicidi illegali in tempo di pace; in trentuno si sono verificate sparizioni forzate.Nessuno dubita che la Siria figuri in ognuna di queste «liste nere». Come altri Stati dittatoriali le cui popolazioni, purtroppo, non hanno la fortuna di arrivare al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica. Ci sono stati milioni di morti nella Repubblica democratica del Congo dal 1997 a oggi, e la repressione dei tamil in Sri Lanka ha fatto quarantamila vittime nel solo 2012. Alla fine, cosa vanno cercando le grandi potenze che, dal 1990, conducono interventi militari «umanitari»? Che cosa hanno da guadagnare nella banalizzazione del ricorso alla forza? Distorcendo la Carta onusiana, non si aprono le porte dell’Onu, già fragili, ai venti tumultuosi dei rapporti di forza senza più freni? Le regole del gioco fissate nel 1945 ne vengono delegittimate. Segnale precursore di queste perturbazioni, l’intervento dell’Onu in Kosovo ha giustificato, agli occhi di Mosca, la repressione in Cecenia. Se in tutti i tempi l’abuso di potere è appannaggio dei potenti, perché facilitarlo indebolendo quel che può frenarlo?La mobilitazione di Parigi e Washington sul dossier siriano, con l’opposizione dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) getta una luce crepuscolare sugli equilibri internazionali ereditati dalla seconda guerra mondiale. La giustificazione del ricorso alla forza, senza temere di violare la Carta delle Nazioni unite, ravviva nella memoria dei paesi del Sud il ricordo degli «interventi d’umanità». Brasilia, Pretoria, New Delhi chiedono il rispetto del diritto. Rifiutano di essere relegati nel corridoio dei passi perduti della «comunità internazionale». Non sono più gli Stati indipendenti e sottomessi di un tempo. Pensando di giustificare il proprio rango internazionale con uno sfrenato attivismo militare, la Francia non starà preparando la propria espulsione dalla storia, e concretamente, la perdita di un diritto di veto che la sua identificazione con un Occidente guerriero non sembra più giustificare?

ANNE-CÉCILE ROBERT

 

 NOTE:

       

  • (1) Le Figaro, Parigi, 28 agosto 2013.

  • (2) Cfr. «Sécurité collective», in Thierry de Montbrial, Jean Klein (a cura di), Dictionnaire de stratégie, Presses universitaires de France, Parigi, 2000.

  • (3) Si legga Frédéric Durand, «La fragile stabilità di Timor Est», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2012.

  • (4) Un milione di soldati sarebbero stati gassati durante la prima guerra mondiale, con esito letale per novantamila di loro.

  • (5) Gli europei invocarono la necessità di proteggere i cristiani nell’Impero ottomano. Cfr.Antoine Rougier, «La théorie de l’intervention d’humanité», Revue générale de droit international public, Parigi, 1910.

  • (7) La distruzione di una ferrovia di proprietà di una società giapponese a Moukden (Shenyang oggi) servì come pretesto al Giappone per l’invasione della Manciuria, il 18 settembre 1931. L’attentato era stato organizzato dagli stessi giapponesi.

  • (8) Si legga «Origini e vicende del "diritto di ingerenza"», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2011.

    OTTOBRE 2013 Le Monde diplomatique il manifesto