Tagliare gli F-35? Si può fare
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“Non credo proprio che sarà
così” pare abbia detto il neo ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di
Paola, a chi gli chiedeva se i “sacrifici” imposti dal Governo avrebbero
riguardato anche le spese militari. “La crisi non fa venire meno funzioni
fondamentali come la Difesa”. E i pacifisti potranno pure avere il diritto di
esprimere la propria opinione ma “che sia corretta è da vedere” ha concluso il
ministro.
Su questo tema il caso emblematico è quello dei cacciabombardieri d’attacco
Joint Strike Fighter F-35, il programma militare più costoso della storia
guidato dagli Stati Uniti in compartecipazione con altri 8 Paesi tra cui
l’Italia (che è partner di “secondo livello” come la Gran Bretagna).
Da tempo e da più parti si chiede che questa spesa (i conti parlano per l’Italia
di almeno 15 miliardi di euro in 11 anni) sia cancellata, o almeno ridotta,
anche perché le stime di costo per ciascuno dei 131 velivoli che il nostro Paese
si è impegnato ad acquistare hanno sfondato tutte le previsioni iniziali.
“Impossibile - è la risposta più utilizzata -: il prezzo delle penali sarebbe
maggiore della fattura di acquisto”.
La documentazione ufficiale dell’operazione si trova sul sito www.jsf.mil. Da
questa si evince qualcosa di ben diverso: l’uscita del nostro Paese dal
programma non comporterebbe oneri ulteriori rispetto a quelli già stanziati e
pagati per la fase di sviluppo e quella di pre-industrializzazione. Lo prevede
il “Memorandum of Understanding” del Joint Strike Fighter (in pratica, l’accordo
fra i Paesi compartecipanti) sottoscritto anche dall’Italia con la firma apposta
il 7 febbraio del 2007 dall’allora sottosegretario Giovanni Lorenzo Forcieri
(governo Prodi). La sezione XIX del documento (l’ultimo aggiornamento ufficiale
di fine 2009 è scaricabile qui a lato) stabilisce che qualsiasi Stato
partecipante possa “ritirarsi dall’accordo con un preavviso scritto di 90 giorni
da notificarsi agli altri compartecipanti” (par 19.4). In tale evenienza il
Comitato Esecutivo del Jsf deciderà i passi successivi e il Paese che ha deciso
di lasciare il consorzio continuerà a fornire il proprio contributo, finanziario
o di natura operativa, fino alla data effettiva di ritiro.
Il Memorandum mette comunque al riparo tale mossa da costi ulteriori. In caso di
ritiro precedente alla sottoscrizione di qualsiasi contratto di acquisto finale
degli aerei nemmeno i costi di chiusura della linea produttiva, altrimenti
condivisi, potrebbero essere imputati (par. 19.4.2) e “in nessun caso il
contributo finanziario totale di un Paese che si ritira – compresi eventuali
costi imprevisti dovuti alla terminazione dei contratti – potrà superare il
tetto massimo previsto nella sezione V del Memorandum of Understanding” (par.
19.4.3).
E cosa stabilisce questa sezione? Che i costi non-ricorrenti e condivisi di
produzione, sostentamento e sviluppo del progetto siano distribuiti, secondo
tabelle aggiornate a fine 2009, in base al grado di partecipazione al programma
di ciascun Stato. Per l’Italia ciò significa, nell’attuale fase (denominata “PSFD”:
Production, Sustainment, Follow-on Development), una cifra massima totale,
calcolata a valori costanti del dollaro, di 904 milioni.
Niente di più, in caso di ritiro prima di un qualsiasi contratto di acquisto dei
velivoli.
Addirittura agli Stati Uniti è concesso, nel paragrafo 19.7, un ritiro
unilaterale dal programma sebbene il totale previsto di 2.443 aerei da
acquistare (cioè il 75% del totale) impedisca nei fatti di compiere tale scelta.
Proprio sulla base di queste parti dell’accordo Norvegia, Canada, Australia e
Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al
programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione.
Alle spesa che l’Italia ha già pagato per il programma Jsf occorre aggiungere
inoltre il miliardo di euro circa pagato per la precedente fase di sviluppo SDD
(System Development and Demonstration) e i circa 800 milioni (di euro) previsti
complessivamente ed in autonomia per l’impianto Final Assembly and Check Out (Faco)
di Cameri. L’insediamento costituirà il secondo polo mondiale di assemblaggio
degli F-35, ed è stato voluto fortemente dal governo italiano in cooperazione
con i Paesi Bassi. Cameri è la sede in cui Alenia (un’industria privata in un
insediamento produttivo pubblico) dovrebbe costruire le ali (ma solo quelle
sinistre) del velivolo. L’appalto è stato assegnato alla società controllata da
Finmeccanica per sub-contratto.
Fatti due conti, il totale degli oneri già determinati a carico del contribuente
italiano ammonta a 2,7 miliardi di euro. E ci si potrebbe fermare qui.
La situazione sarebbe completamente diversa in caso di sottoscrizione già
avvenuta del contratto di acquisto degli aerei: non più un accordo tra Stati
partner per la suddivisione di costi di un progetto congiunto, ma vero e proprio
ordine di acquisto inoltrato all’azienda capo-commessa Lockheed Martin. In tale
caso l’investimento andrebbe a lievitare sia per il costo in sé dei 131 velivoli
previsti, sia per le penali in caso di ritiro che sicuramente l’impresa Usa non
mancherebbe di esplicitare. Per questo Lockheed Martin ha cercato, negli ultimi
anni, di premere per la costituzione di un consorzio di acquisto tra alcuni dei
Paesi del progetto.
Già dal 2007 i manager del board JSF hanno incoraggiato, con la promessa di
prezzi più bassi, i partner a sottoscrivere contratti di acquisto. Ma questa
ipotesi prevedeva sanzioni: qualsiasi cliente avesse annullato o ritardato le
consegne avrebbe dovuto compensare gli altri membri del consorzio per l’aumento
dei costi unitari derivanti. Una spada di Damocle che non è piaciuta a nessuno,
tanto che fonti del governo australiano hanno dichiarato “morta” la trattativa
già a fine 2009. Fonti militari ci confermano oggi che nemmeno lo Stato
italiano, dopo il Memorandum del 2007, ha firmato ulteriori accordi a livello
governativo.
L’impatto per le nostre tasche sarebbe ben diverso se l’Italia continuasse sulla
strada intrapresa, arrivando a firmare un contratto con Lockheed Martin.
L’ultima “Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa” disponibile
(quella per il 2011, perché nella Legge di Stabilità di fine anno del governo
Berlusconi nessun dettaglio è riportato, nemmeno per i tagli lineari già
previsti dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti) stanzia per tutta la
fase di acquisto dei 131 caccia ipotizzati, da completarsi nel 2026, un costo
complessivo di 13 miliardi di euro.
In realtà le più recenti stime basate sui dati del Pentagono proiettano il costo
finale di ciascun esemplare a più del doppio dell’ipotesi iniziale elaborata dai
tecnici del programma; ciò significa che la fattura per l’Italia (compresi anche
i propulsori, pagati a parte) potrebbe tranquillamente ammontare – e stiamo
parlando di stime in continua crescita – ad almeno 15 miliardi di euro. Soldi da
pagare in corrispondenza dei singoli contratti d’acquisto, spalmati su più anni.
Senza contare che, in particolare per i progetti aeronautici, i costi maggiori
si hanno con il mantenimento e la gestione dei velivoli.
Dando retta alla tabella che distribuisce la produzione dei velivoli per singolo
anno e singolo Paese, invero un po’ datata, l’Italia dovrebbe iniziare ad
acquistare aerei nel 2012 (4 esemplari) per finire nel 2023 (10 esemplari con
picco di 13 aerei tra il 2016 e il 2018). Le consegne effettive sono previste
due anni dopo la firma di ciascun contratto. Proiettando il tutto in termini
monetari ciò comporterebbe un costo dai 460 ai 1.495 milioni di euro all’anno da
qui al 2023, con un costo medio annuale di almeno 1.250 milioni.
Eppure sarà difficile vedere un “dietro-front” del nostro Paese su questo
progetto, almeno per mano del Governo “tecnico” attualmente in carica. È stato
infatti proprio l’attuale ministro della Difesa Di Paola a firmare, con una
cerimonia a Washington nel giugno 2002, l’accordo per la partecipazione italiana
da un miliardo di euro alla prima fase SDD (come si vede nella foto accanto,
diffusa dal Dipartimento della Difesa USA e disponibile sul sito del progetto
JSF). Secondo il direttore del programma JSF del tempo Jack Hudson, l’ammiraglio
Di Paola (a quell’epoca Segretario generale della Difesa) è stato un
“formidabile sostenitore per il Jsf in Italia; la sua appassionata energia e la
sua visione sono state di valido aiuto per il completamento dei negoziati”.
Peccato che, durante i discorsi ufficiali, Di Paola non sia stato buon profeta
nell’affermare che con il Jsf si sarebbe sperimentato un nuovo approccio al
procurement militare ottenendo alti risultati “con un’attenzione stringente al
controllo di costo”. La crescita vertiginosa del prezzo ha dimostrato ben altra
realtà.
Visto che la “foglia di fico” delle penali si è rivelata solo fumo negli occhi,
sarebbe il caso di mettere realmente in discussione un programma che ci costerà
circa oltre un miliardo di euro all’anno solo per l’acquisto degli aerei, poi da
mantenere. Nemmeno la giustificazione del ritorno industriale pare plausibile
(si favoleggia del 75% dell’investito) e soprattutto sono da ridimensionare
fortemente le stime occupazionali legate alla partecipazione dell’industria
italiana al progetto. Le parti sociali, in particolare sindacali, hanno
stabilito in 200 (più 800 nell’indotto) i posti di lavoro creati, mentre il
ministero della Difesa prevede 600 occupati alla struttura FACO di Cameri. Non
certo i 10.000 impieghi raccontati per anni da politici e manager compiacenti
con il programma. Studi recenti dimostrano che spostare un miliardo di dollari
dalla Difesa al comparto delle energie rinnovabili aumenterebbe del 50% il tasso
di occupazione: addirittura del 70% se re-investiti in ambito sanitario.
Un mondo senza conflitti, secondo i calcoli dell’australiano Institute for
Economics and Peace che elabora il Global Index of Peace avrebbe creato un
valore economico positivo di 8.000 miliardi di dollari, con un terzo di questa
cifra derivante dalla riconversione dell’industria bellica.
(2 gennaio 2012)