L'Ulivo è rivoluzionario

UN FILM E UN VIAGGIO  -- SCONFIGGERE ISRAELE E' POSSIBILE

    Se ancora qualcuno dubita che il supporto internazionale non violento possa aiutare la causa palestinese, il documentario Budrus (Just Vision), della giovane regista brasiliano-statunitense Julia Bacha (che nel 2004 ha diretto su Al Jazeera Control room) toglierà ogni dubbio. Premiato in molti festival internazionali (Tribeca Film Festival, Berlino, Pesaro, con il premio Amnesty International, fino alla menzione speciale al Jerusalem film festival), il documentario è diventato l’esempio di come ormai la Palestina stia intraprendendo azioni politiche non violente che raccolgono sempre più successo, sia all’interno che all’esterno. Budrus è un villaggio palestinese in West Bank di circa 1500 abitanti molto, troppo, vicino ai confini della green line e che, una mattina dell’autunno 2003, si è svegliato con l’inaspettata «sorpresa» di bulldozer pronti per la costruzione di un muro. Quella protezione voluta da Israele, lo avrebbe attraversato e smembrato, distruggendo porzioni  i uliveti che sarebbero diventate zona militare. Sin dalle prime scene si capisce quanto quegli ulivi sono, non solo un bene fondamentale per l’economia del villaggio, ma un pezzo importante della storia di ognuno dei suoi abitanti. Il muro inoltre, racconta Julia Bacha, con la sua narrativa coraggiosa e incalzante, avrebbe tagliato in due il cimitero, sarebbe passato a pochi metri dalla scuola. «Che fare?» si sono chiesti da subito gli abitanti. Semplicemente dire che no, quel muro, imposto illegalmente con la forza di armi e bulldozer, sulla loro terra palestinese non lo volevano, e non l’avrebbero mai accettato. Ayed Morrar, sindaco di Budrus,ha riunito la sua comunità e, spiegando i principi fondamentali della protesta pacifica, da quel 7 novembre 2003, si è fatto carico dell’intera organizzazione. Dopo oltre 10 mesi di manifestazioni (in tutto sono state 55), la rivolta ha raggiunto un’eco internazionale e, inaspettatamente (almeno per noi che guardiamo, ma non per lui che da subito ne è stato convinto), ha obbligato il governo israeliano ad arrestare la costruzione del muro e riportarlo alla green line. E sappiamo che Israele non cambia idea tanto facilmente…

    Il film racconta come un piccolo gruppo di palestinesi, delusi, amareggiati, ma pronti a combattere senza sosta, sono stati capaci di intraprendere una forma di resistenza che non poteva essere combattuta con bombe o proiettili. Questa volta, con il benestare del sindaco,anche le donne del villaggio, mogli, madri, ragazze, grazie soprattutto all’intraprendenza di Iltezam Morrar, figlia allora teenager di Ayed, hanno deciso di affrontare, anche da sole, bulldozer e soldati israeliani, urlando semplicemente il diritto alla propria terra, rivolgendosi anche alla granitica Yasmine Levy, unica comandante donna della polizia di frontiera israeliana. Dopo una prima marcia di protesta degli uomini, e dopo quella tutta femminile in cui, dalle nonne alle nipoti, le donne hanno marciato impavide contro l’ingiustizia, si sono uniti al movimento i pacifisti internazionali, provenienti da 35 diversi paesi, tra cui Stati Uniti d’America, Inghilterra, Francia, Sud Africa, Giappone, Italia e, soprattutto, da Israele. Armati di voce, canti, consapevolezza di essere nel giusto, hanno ottenuto una vittoria che, da quel momento, è diventata esempio per quei villaggi in West Bank che quotidianamente devono affrontare la realtà di vivere prigionieri nella loro stessa terra.

     Da Ramallah, per pochi shekel, si arriva facilmente a Budrus a bordo di piccoli bus da 8 persone, percorrendo le strade assolate in quella terra arida e polverosa dove i contadini coltivano da generazioni i loro ulivi.

    Ayed riceve con cortesia chi ha voglia di parlare con lui e, offrendo e sorseggiando caffè, oggi racconta della grande, silenziosa e disarmata battaglia di Budrus.

    Con sorriso cordiale e giusto, come quello del Guerriero di Pace,racconta con orgoglio che sì, loro ce l’hanno fatta. «Quando sono comparsi i primi bulldozer nei campi, quando hanno cominciato a sradicare ulivi, abbiamo protestato pacificamente. Credo sia l’unica risposta possibile nei confronti della potenza armata di Israele». Il vice comandante delle forze israeliane in West Bank lo aveva contattato, per dargli qualche suggerimento. «Credi che un villaggio così piccolo possa fermare Israele?, mi aveva detto… Durante le prime dimostrazioni sì, eravamo pochi, la nostra lotta non era ancora arrivata ai media, se non quelli locali di Ramallah. M a poi è comparsa Al Jazeera, i media internazionali. E – dice ridendo - siamo diventati famosi!». Intanto erano arrivati (totalmente inaspettati), manifestanti israeliani, che hanno rappresentato, come ci racconta il documentario, il maggior ostacolo-fastidio per i soldati israeliani.

    Diciannove persone, dai 35 paesi diversi, hanno trovato ospitalità a casa di Ayed, poi molti altri in una casa affittata apposta. «Ma è molto importante che abbiamo cominciato da soli; ci ha permesso di diventare un esempio da seguire per tutti i villaggi che si sono trovati di fronte i bulldozer. È stata la dimostrazione che la non violenza vince».

     Era necessario esserci sempre e, in qualsiasi momento, Budrus e il mondo che lo  supportava, erano pronti a scendere nei campi. «Ogni volta che un bulldozer compariva, qualsiasi giorno fosse, dovevamo esserci. Loro sapevano che ci avrebbero trovati lì. Per loro non era semplice inviare giornalmente un centinaio di soldati, quindi comparivano a giorni alterni. Israele ha sicuramente tutti i mezzi per vincere una battaglia, e cercano ogni opportunità per giustificare l’uso delle armi. Ma li abbiamo obbligati a confrontarsi con le nostre mani armate solo di bandiere, e hanno perso la loro lotta simbolica. Di fronte al mondo, non potevano aggredirci. Di solito trovano la giustificazione di doversi difendere, ma qui non ha funzionato. Abbiamo sofferto della resistenza armata dell’Intifada. Sappiamo che abbiamo il diritto di difenderci dall’occupazione, e il modo più semplice è la resistenza non violenta. Israele confonde le idee tra palestinesi che protestano, e terrorismo internazionale. Così ha sempre la giustificazione di combattere contro una resistenza armata». Questa volta no, non glie l’hanno offerta. Un unico ragazzino che ha lanciato qualche pietra infatti, è stato arrestato. «Hanno potere mediatico, fanno moltissima propaganda ma solo la non violenza può portare alla pace, alla speranza, alla giustizia e ai diritti umani. La libertà ha un valore assoluto, e saremo sempre pronti ad andare in ogni angolo di mondo dove questi principi non sono rispettati. I sudafricani, che sono venuti a manifestare con noi, hanno scelto, dopo vere usato ogni tipo di arma, la convivenza e rappresentano un esempio per tutti». La Olive Revolution (così è stata battezzata questa resistenza tra gli ulivi), è riuscita a incoraggiare altri villaggi a lottare per la pace.

    «Abbiamo due alternative: due stati, dove la Palestina dovrebbe rientrare nei confini del 1967, oppure uno stato, in cui palestinesi ed ebrei dovrebbero vivere insieme pacificamente. E che è quella che preferisco».

    Che Israele sia uno stato religioso non spaventa il sindaco: «Ci sono stati in cui convivono diverse religioni: il Marocco, il Libano…. Basterebbe mantenere due nazionalità diverse, cambiare bandiere e trovare il nome per il nuovo stato. Perché no? Sappiamo che nessuno se ne andrà mai. Nel 1948 ci hanno cacciati, ma tanti sono rimasti; nel 1967, ancora, non sono riusciti ad eliminarci. Nel 2008, mentre bombardavano Gaza, la gente si rifugiava anche nella sabbia, pur di non abbandonare la propria terra». Con il tono di chi è pronto ad assumersi il peso delle proprie decisioni, aggiunge: «Sarà una lunga strada da percorrere. Se non sarà per la mia generazione, sarà per quella dei miei figli, ma ci sarà un momento in cui tutti  capiranno che siamo uguali, abbiamo gli stessi diritti e doveri. Non potrà più esistere un rapporto di sudditanza e schiavitù».

    Intanto, mentre tanti ulivi sradicati hanno rimesso radici in terra palestinese, Julia Bacha arriva su Cnn.com, e racconta l’avventura di Budrus.

 

   

un bulldozer israeliano in azione;  la cittadinadi Budrus (Ramallah) e la West Bank occupata da Israele

di Beatrice Cassina  (ALIAS "il manifesto") 24/09/011