Trasgressione al potere Il Berlusconi barzellettiere, bestemmiatore e viveur incarna la trasgressione e provoca una schizofrenia di massa nella società. Dove un precario può introiettare il suo disagio e non esprimerlo in conflitto sociale |
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Cristian Raimo
Vi racconto una storia. Qualche anno fa stavo facendo
un’inchiesta sul precariato cognitivo: intervistavo ragazzi/uomini più o meno
trentenni, laureati, iperformati, che vivacchiavano tra assegni di ricerca
volatili, elemosine dei genitori, e nebulose promesse di contratti – quel
paesaggio tristanzuolo che conosciamo. Mi capitò una ragazza/donna, dottorata in
antropologia, che era riuscita a strappare una collaborazione part-time in una
fondazione che le garantiva 650 euro al mese; il resto del tempo lo impiegava
tenendo in vece della sua vecchia pigra professoressa un paio di corsi, esami e
altro pseudo-volontariato universitario – retribuito poco più di un rimborso
spese (un altro migliaio di euro all’anno). Tra gli intervistati, non era una di
quelli messi peggio. Era una tipa in gamba, determinata, fiera della propria
indipendenza (non voleva chiedere soldi ai suoi), e soprattutto iperconsapevole
delle condizioni di sfruttamento, delle dinamiche baronali dell’accademia etc…
Viveva insieme a altre quattro tizie in un appartamento a Tor Pignattara.
Condivideva una stanza doppia, per cui pagava 200 euro al mese, un prezzo
buonissimo. Più o meno a conti fatti le restavano cinquecento euro, che potevano
un po’ aumentare con qualche introito delle ripetizioni (terzo lavoro, dunque).
Di questi soldi ne spendeva circa 300 al mese, mi disse, per fare analisi. Ne
aveva un assoluto bisogno perché si sentiva piuttosto depressa: a trenta e passa
anni dormiva in un posto letto col materasso smollato come una matricola
fuorisede appena approdata a Roma, non immaginava nessuno sbocco lavorativo
concreto a lungo termine, si sentiva una fallita nei confronti dei suoi, non
riusciva a prendere sul serio nessuna relazione sentimentale, aveva un desiderio
di un figlio che le pareva pura incoscienza, era sempre stanca (la fondazione
dove lavorava aveva la sede dall’altra parte della città rispetto a casa e
all’università).
Alla fine di quella lunghissima intervista che si era tramutata in un botta e
risposta sulle condizioni materiali e morali di vita negli anni zero italiani,
me andai a casa triste. Dovevo ammettere che la mia situazione non era troppo
differente da quella sua; eppure, oltre questa sorta di empatia e di
rispecchiamento, non era scattato nessun senso di identità condivisa, nessun
grumo di coscienza di classe, come si potrebbe dire.
Il punto è che lei per provare a stare meglio andava a fare terapia, e con
l’aiuto di questo analista cercava di migliorare il rapporto con i suoi,
desiderava riuscire a considerare legittimo il desiderio di poter innamorarsi di
un uomo, di mettere su famiglia, la sua capacità di credere al futuro, e voleva
sentirsi meno in colpa se non arrivava a fare per benino tutto quello che le
veniva richiesto tra università e lavoro. Il malessere sociale che l’aveva
contagiata, lei se l’era preso in carico proprio tutto tutto. La formazione di
una coscienza di classe era stata sostituita da un percorso individuale di
ricerca di sintonizzazione psicologica, per cui spendeva quasi la metà dei suoi
soldi mensili. Mi sembrò un simbolo perfetto di quello che stava accadendo in
giro alle generazioni di quest’età post-comunitaria.
Invece di esternare il malessere, provando a generare conflitto sociale o
quantomeno affratellamento, il disagio veniva tutto introiettato e si tentava di
risolverlo a proprie spese – letteralmente. Del resto questa ragazza non cercava
neanche più questo conflitto, cercava serenità.
Vi sembra paradossale? Eppure, se ci pensiamo un secondo, questa schizofrenia
non è soltanto un sintomo di una versione estrema del capitalismo del terziario
avanzato. La schizofrenia è esattamente, precisamente, modello dei rapporti di
lavoro che ci interessano. La schizofrenia è il sostituto psicotico del
conflitto di classe. Lavoratori dipendenti e autonomi, partite iva e contratti
atipici, dottorandi e docenti precari, stagiste di un’organizzazione di eventi
che non sanno se si stanno innamorando quando parlano con qualcuno o se questo
contatto gli sarà utile per il prossimo vernissage e far bella figura con il
capo, trentenni depressi e sessantenni che continuano a finanziare la vita dei
figli sperando che un giorno questi li ricompenseranno. La distanza tra chi
sfrutta e chi è sfruttato passa tutta per un conflitto interiore. E a lungo
andare questa scissione – che non diventa mai dialettica – crea una sorta di
abituazione, una cronicizzazione del disagio. Ossia: un dispositivo clinico per
cui veramente penso possibile, normale, permanere in una situazione paradossale
come quella di un quarantenne che vive da adolescente, o come quella di una
ragazza che non capisce se l’innamoramento che sta cominciando a provare gli
potrà tornare utile per il suo lavoro di ufficio stampa. Un malessere sociale a
cui, invece di riconoscerlo come coscienza di classe narcotizzata, diamo alle
volte il nome di bipolarismo; in una specie di medicalizzazione della tensione
politica.
Ma perché questo disagio interiore non diventa coscienza di classe, perché
questo basso di recriminazione ha raramente un acuto di rabbia, e figuriamoci se
si manifesta come ribellione? Una risposta parziale la possiamo ricavare da
un’altra piccola storia. Un po’ di tempo fa mi è capitato di vedere una puntata
di Ballarò dedicata al lavoro. C’era un servizio di dieci minuti su un
disoccupato, un uomo di mezz’età che aveva appena perso il lavoro. Dalla sua
casa in penombra raccontava alla telecamera come la sua vita fosse priva di
dignità ora che si trovava a spasso: si sentiva un verme perché non poteva
pagare nemmeno la scuola di calcio a suo figlio. Alla fine del servizio, gli
imprenditori che stavano in studio, tipo la Todini, avevano colto la palla al
balzo e avevano subito dichiarato di fronte al pubblico: lasciateci il numero,
uno straccio di lavoro in nome della scuola calcio del figlio glielo troveremo.
La domanda che mi era posto non era tanto relativa al fatto di come la
spettacolarizzazione annullasse in realtà il valore della denuncia e anzi
legittimasse immediatamente le parole della Todini & co. Lo sconcerto che
provavo era proprio nella mostruosa introiezione di questo meccanismo di
sudditanza: anche il disoccupato – una volta avuta finalmente voce – non aveva
nessuna capacità di diventare un soggetto politico, finiva col mostrarsi
semplicemente un miserabile, non riusciva a innalzarsi dalla sua condizione di
sintomo di un malessere impersonale, e proprio a quel punto forse otteneva un
lavoro.
È questo rovesciamento, questa incoscienza di classe che negli ultimi anni è
stato sdoganata. A tal punto che per esempio l’ultima campagna pubblicitaria
della Presidenza della Repubblica sulla sicurezza sul lavoro fa leva proprio lì.
Guardateli i cartelloni. Un quadretto di una famiglia felice, incorniciati in un
frame di una polaroid, e un inquietante slogan: Non fare che tutto questo
diventi solo un ricordo. Chi si vuole bene pretende la sicurezza sul lavoro. Chi
si vuole bene?! Adesso se rimango schiacciato da una pressa mi devo anche
sentire in colpa? Non era un mio diritto? Non era una tutela di cui doveva
prendersi la responsabilità il mio datore di lavoro? Devo farmi carico anche di
questo?
Ora – e qui viene la parte difficile – come collegare questa diffusa anestesia
rispetto al risveglio di una coscienza di classe con l’aspetto apparentemente
folkloristico della politica italiana: che c’entra Pomigliano con le barzellette
condite di bestemmie e i balli del bunga bunga? e i suicidi dei ricercatori con
il dito medio che Bossi tira fuori a ogni pie’ sospinto come un pivello gangsta?
Come mettere insieme quella politica e quell’altra politica?
In realtà non vi sembra come forse il potere stesso oggi si manifesti proprio
utilizzando questo bipolarismo di massa come suo referente? Mi faceva
impressione mettere a confronto due filmati sorprendentemente simili. Uno è
quello famoso della storiella (che è come Berlusconi definisce le barzellette)
su Rosy Bindi raccontata a L’Aquila con bestemmia finale. Un altro lo potete
trovare in rete (http://www.youtube.com/watch?v=UpAFOBRGWUA) ed è una scena di
Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini: è appena morta una delle ragazze
prigioniere delle torture dei vecchi gerarchi quando uno di loro prende la
parola e racconta una barzelletta puerile con protagonista un tale Perotto, che
si perde in un bosco, e quando viene ritrovato, alla domanda di riconoscimento
Sei Perotto? risponde Quarantotto. E giù risate dei torturatori. Inquadrate in
controcampo da Pasolini... Come dal cameraman improvvisato col cellulare a
L’Aquila... Anche il contesto dà da pensare. Nel Salò di Pasolini c’è un
cadavere appena fresco, a l’Aquila ci sono le macerie ancora da sgombrare.
Perché Pasolini aveva scelto di mettere in bocca ai gerarchi repubblichini le
barzellette? Perché Berlusconi è così pervicace nel raccontare le sue storielle,
scorrette, blasfeme, offensive, puerili in qualunque occasione; o credete che
smetterà dopo queste ultime così criticate da Chiesa e comunità ebraiche?
Perché Berlusconi, nel panorama mortifero che ha lui stesso creato, ha deciso
d’incarnare ancora il principio trasgressivo, carnevalesco, il rovesciamento di
quell’ordine che invece lui stesso dovrebbe garantire? Perché il potere funziona
proprio così: come “trasgressione intrinseca”. La comicità del potere non è un
surplus folkloristico, ma è l’espressione più piena dell’energia distruttiva del
potere, la juissance, il godimento, l’orgasmo. La risata dell’Aquila sostituisce
l’eiaculazione di un filmato su youporn, come dire.
Questo è ormai del tutto consentito perché ha a che fare con una società in
preda a questa schizofrenia di massa. Che di fronte alla questione del terremoto
vive un’emozionalità scissa. Da un’parte l’indignazione (ininfluente).
Dall’altra un desiderio legittimo di ritornare a vivere, di ridere, di essere
spensierata (incosciente). Ed ecco allora che il Berlusconi bestemmiatore e
barzellettiere soddisfa in un sol colpo in maniera pavloviana entrambi i
desideri: li esaurisce. Non facendo maturare né l’uno né l’altro, ne liquida le
possibilità di crescita, e li spazza via dalla politica.
Cosa succederebbe se noi evitassimo di risolvere la nostra critica
nell’indignazione da una parte (a sinistra) e di ridere delle barzellette di
Berlusconi (a destra)? Forse che questi impulsi legittimi a innamorarci di un
uomo, a mettere su famiglia, a vedere ricostruita la nostra città, non
verrebbero finto-appagati nell’immediato, introiettati, medicalizzati, in
pratica rimossi; ma forse riuscirebbero a essere potenti, arriverebbero
finalmente a creare qualcos’altro.
fonte :"ilmanifesto" del 30 10 2010